Valido l’accertamento fiscale ai soci della “piccola” SRL

la Cassazione torna a pronunciarsi sulla validità dell’accertamento ai soci della S.r.l., effettuato in base al maggior reddito determinato a carico della società a ristretta compagine sociale

È corretta l’imputazione ai singoli soci del maggior reddito accertato in capo ad una società di capitali a ristretta compagine sociale, anche nell’ipotesi in cui l’accertamento si sia basato esclusivamente sul recupero a tassazione di costi indebitamente dedotti dalla società. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza del 5 maggio 2011, numero 9849.

 

I FATTI DI CAUSA

La Guardia di Finanza aveva effettuato una verifica a carico di una Srl a ristrettissima base partecipativa, constatando la mancanza di tutta la documentazione rilevante ai fini della prescritta tenuta delle scritture contabili, sicché, nel P.V.C. redatto in esito alle attività di verifica, venivano ripresi a tassazione tutti i costi dichiarati, attesa l’assenza della documentazione probatoria. A sua volta, l’Ufficio emetteva il relativo atto impositivo a carico della società, fondato sulle risultanze del PVC delle Fiamme Gialle.

Successivamente, a seguito della mancata impugnazione dell’avviso di accertamento da parte della Srl, l’Agenzia delle Entrate notificava un atto impositivo anche al socio che l’aveva amministrata e che aveva detenuto il 40% delle quote di partecipazione al capitale sociale, attribuendo, pro quota, il maggior reddito accertato in capo alla società stessa, in forza dell’articolo 38 del DPR 600/1973, in base al quale l’incompletezza, la falsità e l’inesattezza dei dati indicati nelle dichiarazioni dei contribuenti persone fisiche possono essere desunte anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti.

Il socio impugnava l’atto impositivo, denunciando la violazione del summenzionato articolo 38. In particolare, il ricorrente contestava l’attribuzione della quota parte di maggior reddito accertato in capo alla società da lui partecipata, atteso che, nel periodo d’imposta accertato, questi non avrebbe più rivestito la qualifica di socio, come era desumibile dalla fotocopia di un presunto libro soci allegato agli atti. Accogliendo la censura, la Commissione tributaria provinciale si pronunciava a suo favore.

Oppone gravame l’Ufficio, eccependo l’irrilevanza della documentazione con la quale si sarebbe dimostrata la fuoriuscita del contribuente dalla compagine sociale della Srl, anteriormente al periodo d’imposta accertato, giacché – secondo la difesa erariale – il contribuente, invero, avrebbe rivestito la carica di amministratore anche successivamente, dimostrando, con ciò, che non si sarebbe mai allontanato dall’ambito sostanziale della società.

I giudici del riesame, ribaltando la sentenza di primo grado, si pronunciavano a favore dell’Ufficio, osservando che è pacifico in giurisprudenza il principio che prevede la distribuzione ai soci del maggior reddito accertato in capo ad una società di capitali a base ristretta o familiare; inoltre, la documentazione esibita dal contribuente per dimostrare la fuoriuscita dalla società non poteva assolutamente ritenersi probatoria, a differenza di quanto erroneamente ritenuto dai giudici di prime cure.

 

IL GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ

Avverso tale decisione, proponeva ricorso per Cassazione il contribuente, denunciando, per quel che qui interessa, la violazione dell’articolo 38, comma 3, del DPR 600/1973, atteso che i giudici di seconda istanza avrebbero erroneamente ritenuto applicabile la presunzione di distribuzione ai soci del maggior reddito accertato in capo alla “piccola” Srl, benché l’accertamento su quest’ultima si fondasse non sulla determinazione di maggiori componenti positive di reddito non dichiarate ma bensì sulla ripresa a tassazione di costi ritenuti indeducibili per la mancanza della relativa documentazione di supporto.

La Cassazione, però, non ha condiviso la tesi del ricorrente, ed ha ribadito nuovamente il consolidato principio di diritto in base al quale deve ritenersi pienamente legittima “la presunzione di riparto degli utili extrabilancio tra i soci di una società di capitali a ristretta base partecipativa”.

Nel caso di specie – ha osservato la Suprema Corte – non era stato contestato l’accertamento a carico della società e neppure la circostanza che si trattasse di una Srl a ristretta compagine sociale e, pertanto, era corretta l’attribuzione, pro quota, ai soci del maggior reddito accertato in capo ad essa.

Per quanto concerne, poi, l’ulteriore censura del ricorrente circa l’erroneità dell’assunto della Commissione tributaria regionale, che aveva considerato la fotocopia del presunto libro soci inidonea a dimostrare l’effettiva fuoriuscita dalla società da parte del contribuente, la Cassazione ha stabilito che si trattava di accertamento di fatto non censurabile in sede di legittimità.

In conclusione, pertanto, gli Ermellini hanno rigettato il ricorso del contribuente, che è anche stato condannato al pagamento di ben 25.000 € di spese di giudizio.

 

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

L’odierna pronuncia consolida un filone giurisprudenziale di legittimità, che deve ormai ritenersi pacifico, in base al quale “opera la presunzione iuris tantum relativamente alla distribuzione pro quota degli utili extracontabili ai soci di una società di capitali caratterizzata da ristretta compagine partecipativa” (Cass. del 14 maggio 2007, numero 10982; nello stesso senso: Cass. 13338 del 10/06/2009; SS.UU. 30055 del 2008; 22.04.2009 n. 9519; 08.07.2008 n. 18640; 16.03.2007 n. 6197; 26.10.2005 n. 20851; 15.05.2003 n. 7564; 05.05.2003 n. 6780).

Mette conto di evidenziare, infine, che l’eccezione più frequentemente sollevata dai detrattori di tale assunto giurisprudenziale è stata l’asserita violazione del divieto di presunzione di secondo grado, allorquando l’accertamento sulla società sia stato di tipo induttivo: il “ribaltamento” del reddito sui soci, infatti, costituirebbe una presunzione che, a sua volta, si fonderebbe su un’altra, quella del maggior reddito induttivamente accertato nei confronti della società.

La Suprema Corte, però, ha sempre respinto questo motivo di ricorso, affermando che la presunzione di distribuzione “[…] non viola, in ogni caso, il divieto di presunzione di secondo grado, poiché il fatto noto non è costituito dalla sussistenza dei maggiori redditi induttivamente accertati nei confronti della società, ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci” (Cass. del 4 dicembre 2006, numero 25688).

 

8 giugno 2011

Alessandro Borgoglio