L'indeducibilità dei costi da reato

analizziamo la problematica dei componenti di reddito che sono collegati ad attività illecite, ossia a quelle attività che, entrando in conflitto con l’ordinamento giuridico, non sono ‘coerenti’ neppure coi principi che presiedono alla determinazione del reddito imponibile

Aspetti generali

Il funzionamento «simmetrico» della fiscalità delle imprese richiede – nel settore delle imposte sui redditi – un nesso preciso tra l’attività svolta e i suoi costi, che ha la finalità di consentire la tassazione dell’imponibile «al netto».

In tale prospettiva, occorre considerare la problematica dei componenti di reddito che sono collegati ad attività illecite, ossia a quelle attività che, entrando in conflitto con l’ordinamento giuridico, non sono «coerenti» neppure con i principi che presiedono alla determinazione del reddito imponibile.

Le norme speciali introdotte hanno integrato il TUIR in relazione dapprima all’imponibilità dei proventi illeciti in generale, e quindi all’indeducibilità dei componenti reddituali negativi derivanti da reati (che ha implicitamente confermato il principio della deducibilità dei «costi» riferibili a illeciti civili e amministrativi).

 

La normativa di riferimento

Il legislatore ha stabilito dapprima la tassazione in linea generale dei proventi derivanti da illecito penale, civile e amministrativo (art. 14, quarto comma, L. 24.12.1993, n. 537), e successivamente l’indeducibilità dei componenti reddituali negativi riconducibili a fatti, atti o attività illecite (art. 14, c. 4-bis, L. n. 537/1993, come introdotto dall’art. 2, ottavo comma, L. 27.12.2002, n. 289)1.

In particolare, la disposizione sull’indeducibilità prevede che nella determinazione dei redditi «… non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti».

Sono quindi indeducibili i costi relativi a fatti (atti, attività) che danno luogo a reati: ad esempio, le spese di costituzione di una società «cartiera», finalizzata alla commissione di frodi fiscali.

Nulla invece è stato stabilito relativamente ai costi derivanti da tipologie non penali (civili, amministrative) di illecito, a fronte della loro imponibilità ex art. 14, quarto comma.

Trascegliendo entro una serie vastissima di ipotesi, quindi, dovrebbe essere tassato il provento riveniente dalla cessione di un immobile costruito abusivamente, ma non potrebbe essere negato il riconoscimento fiscale dei relativi costi inerenti.

Ferma restando la regola asimmetrica della tassabilità per tutti gli illeciti e della deducibilità per i soli costi connessi a illeciti amministrativi e civili, occorre valutare l’ulteriore questione della rilevanza delle sanzioni, le quali solo in senso lato possono intendersi come «costi» connessi a una determinata attività.

Beninteso, appare evidente che detti costi potranno assumere rilevanza solamente all’interno di uno «schema» analitico di determinazione del reddito, come quello che contraddistingue il reddito di impresa, oppure, in termini attenutati, quello di lavoro autonomo (tipologie reddituali alle quali meglio corrispondono, dal lato dell’accertamento, le tipologie analitiche e analitico-induttive)2.

 

Cosa dice l’Agenzia delle Entrate?

Nella materia della deducibilità dei «costi da reato», la circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 42/E del 26.9.2005 ha puntualizzato che:

  • i costi sostenuti sono deducibili secondo le regole ordinarie, se riconducibili ad illeciti civili o amministrativi, e indeducibili nel caso di illeciti penalmente rilevanti;

  • a tale previsione, che si caratterizza per un contenuto innovativo e quindi non esplica effetti retroattivi3, è riconosciuto «un intento indirettamente sanzionatorio dell’attività illecita»;

  • essa si rende applicabile «… in particolare in sede di determinazione del reddito d’impresa e di lavoro autonomo e, in generale, con riferimento a quelle fattispecie reddituali per le quali la norma tributaria prevede la deducibilità delle spese specificamente inerenti la produzione del reddito»;

  • se l’illiceità coinvolge la complessiva attività esercitata dal contribuente, l’indeducibilità investe tutti i costi e le spese sostenuti in relazione alla stessa; se invece risultano illeciti solamente uno o più «fatti o atti» nell’ambito di un’attività complessivamente lecita, «… l’indeducibilità riguarderà sia i costi e le spese a questi specificamente afferenti, sia una quota dei costi riconducibili all’attività in generale ossia comuni a più fatti o atti, alcuni leciti e altri illeciti»;

  • «in tale ultima ipotesi, la quota indeducibile dovrà essere determinata con criteri di proporzionalità in relazione alla fattispecie esaminata».

A questo riguardo l’Agenzia propone alcune «casistiche», con riferimento ad esempio a un’attività manifatturiera che utilizzi lavoratori non regolari: in tale ipotesi, il costo delle retribuzioni non può essere dedotto in quanto riconducibile a un’attività qualificabile come reato, anche se l’impresa non è in sé illecita.

Secondo l’Agenzia, la norma sull’indeducibilità dei costi sarà applicabile anche se i proventi derivanti dall’attività illecita sono sottoposti a sequestro o confisca penale.

L’indeducibilità consegue, sempre secondo le indicazioni dell’Agenzia, alla trasmissione al pubblico ministero della notizia di reato a carico del contribuente, come previsto dagli articoli 331 e 347 del c.p.p. (giacché «la norma … fa riferimento a fattispecie anche solo potenzialmente “qualificabili” come reato e non richiede che il fatto penalmente rilevante sia oggetto di una azione penale già avviata o sia già stato accertato con sentenza di condanna»).

Gli uffici finanziari hanno quindi la facoltà di recuperare a tassazione i costi «da reato» dedotti in sede di accertamento, e per evitare la rettifica i contribuenti devono procedere a una variazione in aumento del reddito imponibile in relazione a tali costi.

Se alla conclusione delle indagini preliminari il giudice dispone l’archiviazione della notizia di reato, ovvero il procedimento si chiude con una sentenza definitiva di proscioglimento o di assoluzione, gli uffici – direttamente o su richiesta del contribuente – «potranno» disporre l’annullamento degli atti di accertamento già compiuti e il rimborso delle maggiori imposte eventualmente versate.

L’indeducibilità dei costi disposta dalla norma resta ferma, viceversa, in tutti i casi in cui il giudice emette una sentenza penale di condanna o provvedimento ad essa equiparato in esito ai procedimenti speciali di cui al Libro VI del c.p.p., articoli 438 e seguenti (giudizio abbreviato, applicazione della pena su richiesta delle parti, giudizio direttissimo, giudizio immediato e procedimento per decreto).

Per quanto poi riguarda il punto della salvaguardia dei diritti costituzionalmente garantiti, la circolare precisa che tra i costi che rimangono deducibili rientrano le spese necessarie per l’assistenza legale in tutte le fasi del procedimento e del processo penale4.

 

Le questioni in sospeso

Anche a una lettura superficiale della disposizione normativa in esame non può non emergere un’incongruenza tra il presupposto dell’indeducibilità (la qualificazione del costo come riferito a «reati») e l’oggetto che si chiede di riscontrare, sia pure in via potenziale (il reato), il quale viene accertato non dall’organismo ispettivo/accertativo, bensì dall’A.G., peraltro a seguito di un procedimento giurisdizionale che prevede più gradi di giudizio.

Va altresì considerato che ambedue le disposizioni sopra richiamate (quella sulla tassazione e quella sull’indeducibilità) fanno riferimento alle categorie di redditi indicate dal primo comma dell’art. 6 del Testo Unico, cioè a un elenco che si ritiene pressoché esaustivo, in grado di rappresentare tutte le possibili ipotesi.

Il quarto comma precisa tuttavia che i proventi illeciti si ricomprendono entro tali categorie «se in esse classificabili»: si impone quindi a questo punto un’opera di classificazione, volta a qualificare il compenso nell’ambito di una tipologia «conosciuta» dalla norma tributaria.

Il problema sembrerebbe non sussistere per i costi, per i quali il comma 4-bis non fa questioni di classificazione: occorre tuttavia conoscere per lo meno il contesto entro il quale tali costi si collocano – reddito d’impresa? Reddito di lavoro autonomo? -, per comprenderne le regole di deducibilità (costi da illecito civile/amministrativo), ovvero di indeducibilità (costi da reato).

Se, infatti, l’indeducibilità afferisce ai soli costi che si correlano alla commissione del reato, occorrerà isolare tali componenti negativi rispetto agli altri, per sottoporli al trattamento previsto dalla norma. Ciò rende necessaria quindi un’opera di riscontro puntuale della correlazione reato-costo, che non rientra negli ordinari compiti dell’Amministrazione finanziaria.

Successivamente alla trasmissione all’A.G. della notizia di reato, in sede di verifica, è l’ufficio fiscale che deve autonomamente applicare la norma sull’indeducibilità, salva la possibilità di procedere al successivo annullamento dell’accertamento a seguito di archiviazione della notizia di reato, ovvero di intervenuta sentenza di proscioglimento o assoluzione.

Se invece l’ufficio riceve dall’A.G. gli atti relativi al procedimento penale, per la conseguente determinazione dei redditi illeciti (imponibili) e dei costi illeciti (indeducibili), allo stesso spetta di stabilire il nesso reato-costo, isolando il «fatto» di rilevanza penale all’interno della complessiva attività esercitata dal contribuente, e quantificando i relativi costi.

L’operazione può non essere semplicissima, e quindi dovrà essere sostenuta dal consueto impianto presuntivo-inferenziale che caratterizza il modus operandi delle indagini tributarie.

In ipotesi, un imprenditore può trattare come «spesa di rappresentanza» un’erogazione riconosciuta a funzionari della P.A. come «prezzo» della loro corruzione: è l’ufficio fiscale che dovrà compiere un’opera di riconduzione di tali costi al reato contestato dal giudice, anche – presumibilmente – integrando (nella propria visuale tecnico-tributaria) gli elementi emergenti dagli atti penali.

In presenza di componenti reddituali negativi «misti» (illeciti/indeducibili e leciti/deducibili), occorrerebbe poi sapere se e fino a che punto le relative contestazioni possano essere oggetti di riduzione in sede di contraddittorio finalizzato all’accertamento con adesione: in tale contesto, l’ufficio potrebbe forse «lavorare» proprio sul legame tra reato e costo, procedendo al riconoscimento della parte di componenti negativi relativamente ai quali il contribuente riuscisse a dimostrarne la «non correlazione» all’illecito penale.

Si consideri altresì che in ogni caso – sia che l’accertamento sui costi da reato scaturisca dalla notizia di reato inviata dall’ufficio fiscale, sia che esso origini dalla «ricaduta» dell’istruttoria penale -, l’ufficio può operare producendo un atto impositivo perfettamente valido, il quale potrà tuttavia essere oggetto di annullamento successivo, con il rimborso delle maggiori imposte versate, se la notizia viene archiviata o intervengono il proscioglimento o l’assoluzione.

Anche l’accertamento con adesione già chiuso, ovvero la definizione del pvc e dell’invito al contraddittorio, secondo le nuove procedure recentemente introdotte, seguendo tale logica, dovrebbe poter essere oggetto di riforma parziale o di annullamento a seguito della sentenza penale, anche se occorre attendere a tale scopo una sentenza definitiva, cioè passata in giudicato.

A tale riguardo si osserva che l’esistenza del reato costituisce il presupposto stesso di applicabilità della norma: in difetto di tale presupposto, l’accertamento diviene quindi illegittimo e il rimborso (d’ufficio) dovrebbe scaturire come un obbligo promanante dai principi generali dell’ordinamento sulla ripetizione dell’indebito. In ogni caso, rimarrebbe aperta la via dell’istanza di rimborso all’amministrazione (cui si associa la possibile impugnabilità del diniego espresso o tacito).

 

Il problema dei reati societari

Giacché la sfera dell’«impresa» prevede spesso l’esercizio dell’attività economica in forma societaria anziché individuale, occorre anche coordinare le disposizioni richiamate con i principi che in via generale informano l’azione penale.

Se infatti il reo fosse la persona fisica (socio, amministratore, procuratore, etc.), è evidente che la posizione della società – esercente l’attività di impresa – sarebbe del tutto esclusa dall’applicazione della norma in discussione.

Si rammenta a tale riguardo che, ai sensi dell’art. 5, c. 1, lett. a – b, del D.Lgs. 8.6.2001, n. 231, l’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio da «persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale», da «persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso», ovvero da «persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza» di tali soggetti.

L’ente non risponde invece, per quanto disposto dal secondo comma dell’articolo, se le persone sopra indicate hanno agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi.

Non sorge la responsabilità dell’ente per il reato, ai sensi dell’art. 6, primo comma, se l’organo dirigente «ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi», se esso ha affidato a un organismo autonomo i compiti di controllo, se «le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione», e se non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo a ciò preposto.

I successivi commi dell’articolo si occupano dei requisiti dei modelli di organizzazione e gestione, mentre l’ultimo comma – il quinto – stabilisce che «è comunque disposta la confisca del profitto che l’ente ha tratto dal reato, anche nella forma per equivalente».

Con il principio della responsabilità dell’ente in sede penale risulta coerente l’art. 7 del D.L. 30.9.2003, convertito con modificazioni dalla L. 24.15. 2003, n. 326, il quale ha ribaltato il principio della diretta sanzionabilità amministrativa tributaria dell’autore della violazione, limitatamente alle società e agli enti dotati di personalità giuridica: in luogo del manager, la sanzione colpisce quindi la società, in quanto presumibile beneficiaria dall’illecito fiscale commesso.

La «sanzione indiretta» costituita dall’indeducibilità dei costi dovrebbe pertanto operare solamente se il reato si configura in capo al soggetto che ne è il beneficiario (perché nel suo interesse o per il suo vantaggio il reato è stato commesso).

Con specifico riguardo agli «enti»5 di cui al D.Lgs. n. 231/2001, quindi, l’indeducibilità dal reddito di impresa può conseguire al riscontro del beneficio/vantaggio del comportamento illecito, ovvero delle inefficienze organizzative in presenza delle quali la responsabilità penale non può essere esclusa.

 

L’ordinanza della Corte Costituzionale

La questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 14, c. 4-bis della L. 537/1993 (indeducibilità dei costi e delle spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato), è stata dichiarata manifestamente inammissibile dalla Consulta con ordinanza 3.3.2011, n. 73.

Nell’ambito del contenzioso instaurato a monte, la contribuente aveva affermato che:

  • «i costi e le spese riconducibili a reati non possono essere dedotti nel solo caso di sottoposizione a sequestro o a confisca penale dei proventi del reato»: si pongono quindi problemi «in considerazione sia della marginalità dell’ipotesi di sequestro o confisca penale, sia dell’irragionevolezza di ammettere, invece, la deducibilità nei casi di «sequestro e di confisca derivanti da illeciti di natura diversa da quella penale, quali ad esempio la confisca ed il sequestro amministrativo»;

  • nel caso in cui l’indeducibilità sia fatta derivare da una presunzione assoluta della loro non inerenza al reddito d’impresa, tale interpretazione «non sarebbe praticabile in considerazione dell’illegittimità costituzionale di presunzioni assolute non corrispondenti – come nella specie – a massime d’esperienza»;

  • «la disposizione censurata vìola anche gli artt. 3 e 27Cost., perché l’indeducibilità dei costi riconducibili a fatti qualificabili come reati integra una irragionevole ed arbitraria sanzione, in violazione della presunzione di non colpevolezza, ove si ritenga detta sanzione applicabile sulla base della sola trasmissione di una notizia di reato al pubblico ministero, cioè prima ancora della verifica dell’effettiva sussistenza del reato».

Senza risolvere alcuna questione generale in merito alla legittimità costituzionale delle disposizioni contestate, la Corte ha affermato che le questioni poste dal giudice rimettente erano manifestamente inammissibili per inadeguata motivazione sulla rilevanza, dato che:

  1. la società ricorrente non potrebbe «essere chiamata a rispondere di reati contestati ai propri amministratori»;

  2. ai sensi del comma 4-bis dell’articolo 14 della L. n. 537/1993, i costi riconducibili a fatti di reato dovrebbero ritenersi non deducibili solo nel caso in cui detti costi fossero correlati a proventi che non concorrono alla formazione del reddito imponibile;

  3. non erano state indicate le ragioni dell’asserita sussistenza del reato;

  4. non deve ritenersi sufficiente, per l’indeducibilità dei costi, che questi siano riconducibili a fatti iscritti nel registro delle notizie di reato.

Giacché tali motivi di ricorso sono stati ritenuti «logicamente e giuridicamente prioritari rispetto alle questioni di legittimità costituzionale del denunciato comma 4-bis», la Commissione tributaria rimettente avrebbe preliminarmente dovuto affermare – motivando sul punto – l’infondatezza dei motivi di ricorso, perché questi, se accolti, avrebbero determinato l’annullamento degli avvisi di accertamento impugnati e la conseguente irrilevanza delle questioni prospettate.

 

10 giugno 2011

Fabio Carrirolo

1 Peraltro, per la Corte di Cassazione, il quarto comma dell’art. 14L. legge n. 537/1993, sebbene testualmente riferito solo alle imposte dirette, trova applicazione anche agli effetti dell’IVA (sentenze n. 1372 del 2006 e n. 3550 del 2002).

2Nella prospettiva dell’accertamento sintetico, il «costo» illecito non potrà rilevare come tale, ma semmai come giustificazione dell’indisponibilità del reddito astrattamente imputabile al contribuente.

3 Essa risulta quindi applicabile solamente in relazione ai costi e alle spese sostenuti a partire dal 1° gennaio 2003, data di entrata in vigore della legge n. 289/2002 (ciò interessa, evidentemente, per i contenziosi che fossero ancora in corso).

4 A tale riguardo, riconoscendo che la tutela esplicita dei diritti del contribuente non assurge al rango costituzionale (limitandosi a quello «superprimario» della L. n. 212/2000), non può non riconoscersi che le posizioni soggettive dei contribuenti sono «coperte» anche da alcune norme costituzionali (artt. 3, 23, 53, etc.), e che ciò richiederebbe un approfondimento quanto alla possibile «assimilazione», con i costi della difesa, anche degli oneri ricollegabili alla rappresentanza e tutela in sede amministrativa (ad esempio, aventi gli uffici tributari).

5 Si tratta degli «enti forniti di personalita giuridica e alle società» e delle «associazioni anche prive di personalità giuridica», a norma dell’art. 1, secondo comma, del decreto legislativo.