Erede con beneficio di inventario e Fisco – con Sentenze di Cassazione

L’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario costituisce l’attuazione di un diritto potestativo che la legge attribuisce all’erede beneficiario, cui corrisponde una soggezione a carico dei creditori e dei legatari…

responsabilità degli eredi per i debiti tributariL'”accettazione” dell’eredità “con beneficio d’inventario” costituisce, propriamente, “l’attuazione di un diritto potestativo che la legge attribuisce all’erede beneficiario,… cui corrisponde una soggezione a carico dei creditori e dei legatari.

Secondo l’articolo 490 cc, l’effetto dell’accettazione con beneficio d’inventario consente all’erede di tenere distinto il patrimonio personale da quello del defunto: l’erede non è tenuto al pagamento dei debiti ereditari e dei legati oltre il valore dei beni a lui pervenuti.

 

 

L’eredità con beneficio d’inventario

La legge consente l’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario, giacché all’apertura della successione non è sempre possibile conoscere la reale situazione patrimoniale del defunto, in modo da stabilire se sia economicamente conveniente accettare o meno l’eredità.

L’istituto è posto a favore dell’erede, il quale, pur essendo succeduto in tutte le attività e passività, limita la propria responsabilità patrimoniale, in quanto successore, ai soli beni pervenutigli, cioè al solo attivo; pertanto, il suo patrimonio personale non sarà coinvolto dalle vicende obbligatorie già facenti capo al defunto.

Quando l’erede abbia accettato l’eredità con beneficio d’inventario

“può essere convenuto in giudizio dai creditori del de cuius, i quali possono ottenere la condanna al pagamento del debito ereditario per l’intero, salva la limitazione della responsabilità dell’erede stesso entro il valore dei beni ereditari, qualora egli la abbia fatta valere, proponendo la relativa eccezione”.

L’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario non determina automaticamente il venir meno della responsabilità patrimoniale dell’erede per i debiti (anche tributari),

“ma fa solo sorgere il diritto dell’erede a non rispondere ultra vires hereditatis, ovverosia al di là della capacità dei beni lasciati dal de cuius”.

 

Rientra nelle giurisdizione delle Commissioni Tributarie stabilire se la somma dovuta dal de cuius a seguito di avviso accertamento vada circoscritta per l’erede nei limiti derivanti dall’accettazione della eredità con beneficio di inventario (Sent. n. 7792 del 17 febbraio 2005 dep. il 15 aprile 2005 della Corte Cass., SS.UU. civ.).

La giurisprudenza tributaria, avendo ad oggetto sia l’an che il quantum della pretesa tributaria, comprende anche l’individuazione del soggetto tenuto al versamento dell’imposta o dei limiti nei quali, esso per la sua qualità, sia obbligato”.

In altri termini, in caso di contestazioni, rientra nella giurisdizione delle Commissioni tributarie decidere in che misura l’erede, che abbia accettato con beneficio d’inventario, sia tenuto al pagamento del debito d’imposta.

La sottoscrizione di un atto in qualità di erede lascia presumere la volontà del soggetto di accettare l’eredità con conseguente assoggettamento alla piena potestà impositiva in mancanza di accettazione con beneficio d’inventario (Cass. civ. Sez. V, 26 novembre 2007, n. 24529).

 

 

Responsabilità dell’erede per i debiti tributari del de cuius

eredità con beneficio dell'inventario e responsabilità col FiscoL’accettazione dell’eredità con beneficio di inventario non determina, di per sé sola, il venir meno della responsabilità patrimoniale dell’erede per i debiti (anche tributari) ma fa solo sorgere in capo a quest’ultimo il diritto a non rispondere ultra vires hereditatis.

Di conseguenza, è legittima la cartella di pagamento emessa nei confronti dell’erede salvo il diritto di costui a procedere al pagamento solo nei limiti dell’attivo ereditario (Sent. n. 6488 del 31 gennaio 2007 dep. il 19 marzo 2007 della Corte Cass., Sez. tributaria).

L’erede che abbia accettato con beneficio di inventario – istituto che impedisce la commistione tra il patrimonio personale e quello del defunto – risponderà dei debiti del de cuius (e quindi anche di quelli tributari) nei limiti del valore dei beni ereditati e non ultra vires hereditatis

Chi accetta l’eredità con beneficio d’inventario è erede a tutti gli effetti, con l’unica particolarità che, ai sensi degli articoli 484 e 490, secondo comma, n. 2, cc, tiene distinto il proprio patrimonio da quello del defunto.

Di conseguenza, non viene meno la responsabilità patrimoniale dell’erede per i debiti tributari del de cuius.(Corte di cassazione con sentenza n. 6488 depositata il 19 marzo 2007).

Il chiamato all’eredità che abbia accettato con beneficio di inventario è soggetto passivo dell’Invim essendo un acquirente a titolo gratuito ex art. 4, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 643; in virtù degli artt. 484 e 490, comma 2, n. 2 del codice civile egli tiene distinto il patrimonio del defunto dal proprio, ma risponde dell’intera imposta nei limiti dei valori ereditati (Sent. n. 16046 del 30 aprile 2001 dep. il 20 dicembre 2001 della Corte Cass., Sez. tributaria).

È legittima la cartella di pagamento relativa ad un omesso versamento d’imposta emessa nei confronti di un contribuente che risulti essere legittimo erede dell’obbligato principale, dovendosi ritenere, in mancanza di prova di accettazione dell’eredità con beneficio di inventario, che detto contribuente sia succeduto universalmente anche per la parte debitoria del patrimonio del de cuius (Sent. n. 29 del 21 marzo 2006 dep. il 6 aprile 2006 della Comm. trib. reg. di Roma, Sez. XIV).

In materia d’imposta di successione, l’erede che abbia accettato con beneficio d’inventario è, comunque, tenuto a corrispondere il tributo, ma in misura non superiore al valore dei beni a lui pervenuti, con la conseguenza che, ai fini della quantificazione del debito tributario, deve prima essere completata la procedura di formazione dell’ inventario, con la definitività correlabile alla mancata opposizione, solo successivamente potendo quantificarsi l’imponibile e procedersi, quindi, alla liquidazione dell’imposta (Cass. civ. Sez. V Sent., 28 maggio 2008, n. 13906).

La limitazione della responsabilità dell’erede per i debiti ereditari, derivante dall’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario, è opponibile a qualsiasi creditore, ivi compreso l’erario. Quest’ultimo, di conseguenza, pur potendo  procedere alla notifica dell’avviso di liquidazione nei confronti dell’erede (anche nel caso in cui questi abbia rilasciato i beni ereditari in favore dei creditori), non può liquidare od esigere nei confronti dell’erede l’imposta ipotecaria, catastale o di successione sino a quando non si sia chiusa la procedura di liquidazione dei debiti ereditari, e sempre che sussista un residuo attivo in favore dell’erede (Cass. civ. Sez. V Sent., 21 febbraio 2008, n. 4419).

In caso di rilascio dei beni ereditari in favore dei creditori e dei legatari, a seguito di accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario, l’Amministrazione finanziaria, pur non potendo insinuare nella procedura di liquidazione il proprio credito relativo all’imposta di successione, il quale sorge nei confronti dell’erede in relazione a quanto residuerà a seguito della definitività dello stato di graduazione, può controllare le operazioni della procedura, notificando l’avviso di liquidazione, oltre che all’erede, anche al curatore nominato ai sensi dell’art. 508 cod. civ., il quale è legittimato ad impugnarlo, in qualità di assegnatario ed amministratore dell’eredità medesima, risultando “inutiliter data” una sentenza eventualmente pronunciata in assenza di uno dei predetti soggetti (Cass. civ. Sez. V Sent., 21 febbraio 2008, n. 4419).

 

Mariagabriella Corbi

25 Novembre 2008

 

ALLEGATO

(1) Sent. n. 25670 dell’11 marzo 2008 (dep. il 24 ottobre 2008) della Corte Cass., Sez. tributaria –

Svolgimento del processo – Con ricorso notificato (nel domicilio eletto) il 21 giugno 2004 a G.A.M., a G.C. ed a G.B. (depositato il 5 luglio 2004), il MINISTERO dell’ECONOMIA e delle FINANZE e l’AGENZIA delle ENTRATE, – premesso che: 2) “ricorrendo” avverso l'”avviso del 22 novembre 1989″ con il quale il competente Ufficio aveva liquidato “in L., 30. 1.73. 000” i “tributi successori, INVIM ed ipocatastale” dovuti, per la successione di “G.G. recte, C.)”, deceduta il 21 aprile 1986, “la parte” aveva dedotto (oltre “un’ipotetica decadenza…respinta dalla C.T.P. e non riproposta…”) che esso Ufficio aveva “illegittimamente non considerato il passivo”; 2) avverso “l’avviso integrativo del 19 gennaio 1990”, con il quale l’Ufficio aveva chiarito che “il passivo era escluso perché non documentato”, gli eredi avevano opposto a) che essi non rispondevano “dei debiti ereditari” perché avevano accettato l’eredità con beneficio d’inventario, b) che “era in corso la procedura concorsuale di liquidazione dell’attivo che avrebbe ostato alla liquidazione… del tributo” e c) che “non era esigibile la prova delle passività”; 3) “nel 1995” l’Ufficio aveva emesso “un terzo avviso… in palese decadenza” (“riconosciuta con nota 28 aprile 2004”), in forza di un solo motivo, chiedevano di cassare (con refusione delle spese) la sentenza n. 40/28/04 depositata il 10 marzo 2004 dalla Commissione Tributaria Regionale della Puglia (notificata il 22 aprile 2004) la quale, previa riunione, aveva respinto gli appelli dell’Ufficio avverso le decisioni (17/05/97, 18/05/97 e 19/05/97) con cui la Commissione Tributaria Provinciale di Taranto – risultando “dallo stato di graduazione”, non opposto dall’Ufficio, a) “l’accantonamento di L. 55 milioni per tributi” e b) “l’entità del passivo” – aveva annullato tutti, i predetti tre avvisi.

Nessuno degli intimati svolgeva attività difensiva.

Motivi della decisione – 1. La Commissione Tributaria Regionale – premesso che: 1) “C.G.” era deceduta “in Martina Franca il 21 aprile 1986”;
2) gli eredi avevano accettato “l’eredità con beneficio di inventario” il 20 ottobre 1986 ed avevano presentato “denuncia di successione” il 17 aprile 1987; 3) “l’inventario veniva iniziato il 20 gennaio 1981 e completato il giorno successivo”; 4) “lo stato di graduazione” formato dal “notaio incaricato” era stato pubblicato “l’otto giugno 1993 sul F.A.L. previo accantonamento della somma di L. 55 milioni in ragione dell’avviso di accertamento notificato il 17 novembre 1989 dall’Ufficio del Registro che deduceva una imposta di L. 30.113.000 considerati gli eventuali importi per sovrattasse ed interessi”; 5) l’Ufficio aveva emesso il 19 gennaio 1990 “altro avviso di liquidazione di importo uguale al precedente sul presupposto che non potevano essere ammesse le passività perché non documentate” ed il 19 maggio 1995 “ulteriore avviso di liquidazione di imposta suppletiva per L. 39.961.000” – ha disatteso l’appello osservando:
– l'”eccezione” dell’Ufficio secondo cui “gli eredi debbano considerarsi semplicemente come tali in quanto di fatto non erano in bonis nel momento di apertura della successione e quindi di accettazione con beneficio di inventario nel termine più breve ex art. 485 c.c.”, “non è assolutamente proponibile in questa sede essendo stata legittimamente espletata e conclusa la procedura in sede civile”; peraltro “l’Amministrazione non aveva neanche in quella sede il potere di dedurre una diversa situazione di fatto degli eredi spettando esclusivamente al giudice la valutazione e l’esame dell’avvenuto rispetto dei presupposti di ammissibilità” per cui “pare… singolare che ancora in sede di appello si motivi la censura circa il fatto che gli eredi vivano in Martina per dimostrare che fossero in bonis”;

– “l’Ufficio insiste su una pretesa che è assolutamente inaginabile” atteso che:

a) “l’avviso di liquidazione suppletivo in data 19 maggio 1995 è stato notificato ben oltre il termine triennale di decadenza fissato dal D.P.R. n. 637 del 1972, art. 34, con decorrenza dalla dichiarazione di successione presentata il 27 aprile 1987”, riguardando “detto termine… tanto l’imposta principale che la suppletiva”;

b) “la procedura civile sull’accettazione con beneficio di inventario andava rispettata in quella sede” e l’Ufficio, “come creditore privilegiato”, “aveva il diritto – dovere di proporre reclamo ai sensi, dell’art. 501 c.c. avverso lo stato di graduazione effettuato” che “è divenuto “definitivo” perché “ciò non ha fatto”: “le somme ivi portate”, pertanto, “sono intangibili per i creditori ivi considerati” e “l’Ufficio non può, a seguito di ripensamento od assunto di mancanza di documentazione che doveva rilevare a suo tempo e nella sede idonea, notificare anni dopo un ulteriore avviso di liquidazione” (“… la pubblicazione sul FAL, risale all’otto giugno 1993 e la richiesta di liquidazione suppletiva al 19 maggio 1995”).

Il giudice di appello, infine, osserva:
– “lo stato di graduazione, allorché sia divenuto definitivo, vincola tutti i creditori a quanto ivi stabilito e quindi anche l’Amministrazione” (la quale “avrebbe potuto intervenire a suo tempo con la procedura del reclamo”) “in relazione alla imposta di successione”;
– non “è possibile un’ azione nei confronti degli eredi nei limiti dell’attivo perché questa, che è triennale, è prevista solo per i creditori che non si sono presentati”;
– lo “stato di liquidazione… è l’unico, irrevocabilmente tale, il quale contempla e staggisce nel tempo le passività della eredità” e “non oltre può essere chiesto da chiunque non abbia fatto opposizione e non abbia ottenuto una sentenza definitiva di riforma dello stesso”.
2. Con il proprio ricorso le amministrazioni pubbliche denunziano “violazione D.P.R. n. 637 del 1972, art. 46, comma 2, artt. 501 e 502 c.c., artt. 53 e 97 Cost., art. 112 c.p.c.” adducendo che la Commissione Tributaria Regionale:
1) ha confuso l'”accertamento” con la “riscossione” non considerando che un'”eredità… passiva” non esclude il potere dell’Ufficio di “accertare le imposte”;
2) ha violato l’art. 112 c.p.c. perché non ha esaminato la deduzione secondo cui l’accertamento del “passivo successorio” nella procedura di liquidazione non può portare all’annullamento dell’intero avviso del 1990 in quanto questo contiene anche “INVIM e… tributo ipocatastale” i quali sono insensibili al “passivo ereditario”.
Le ricorrenti aggiungono che l’Ufficio non aveva nessun motivo di impugnare l’accantonamento contenuto nello stato di graduazione, perché questo si riferiva alla sola imposta di successione per la quale l’accantonamento stesso era “sufficiente”, ed osservano che il “bilancio” dello “stato di graduazione” (che non “staggisce” le passività) “non accerta i crediti con forza di giudicato ma la cifra che può essere distribuita e gli aventi diritto”.
3. Il ricorso deve essere accolto perché fondato.

A. La sentenza impugnata, in seguito alla riunione processuale operata dalla Commissione Tributaria Regionale, ha ad oggetto le impugnazioni di tre avvisi (notificati, rispettivamente, il 17 novembre 1989, il 19 novembre 1990 ed il 19 maggio 1995) decise con distinte sentenze depositate il 12 settembre 1997 dalla Commissione Tributaria Provinciale.
Nel ricorso per Cassazione le amministrazioni ricorrenti danno espressamente atto della legittimità dell’annullamento (per intervenuta decadenza dell’Ufficio all’emissione dello stesso) dell’ultimo avviso per cui il relativo punto della decisione di appello deve ritenersi coperto dal giudicato interno.
Identico irreversibile effetto di giudicato, por mancata impugnazione della relativa statuizione, poi, copre anche l'”eccezione”, sollevata dall’Ufficio innanzi ai giudici del merito, di decadenza degli eredi dall’accettazione dell’eredità con beneficio di inventario.

B. La riprodotta sequenza “temporale” di notifica degli atti impositivi evidenzia la pendenza delle controversie relative ai primi due avvisi quando (8 giugno 1993) è stato pubblicato nel FAL lo “stato di graduazione” di cui all’art. 499 c.c..

C. Stanti le precedenti precisazioni, la sentenza impugnata – per la quale (in sintesi) “l’Amministrazione avrebbe potuto (recte, dovuto) intervenire a suo tempo con la procedura del reclamo” perché, essendo lo “stato di liquidazione… l’unico, irrevocabilmente tale, il quale contempla e staggisce nel tempo le passività della eredità”, “non oltre può essere chiesto da chiunque non abbia fatto opposizione e non abbia ottenuto una sentenza definitiva di riforma dello stesso” – si rivela inficiata da errori di interpretazione delle norme civilistiche in tema di accettazione dell’eredità con beneficio di inventario e delle conferenti fiscali, nonchè di coordinamento logico tra le stesse.
C1. L'”accettazione” dell’eredità “con beneficio d’inventario”, come evidenziato da autorevole dottrina, costituisce, propriamente, “l’attuazione di un diritto potestativo che la legge attribuisce all’erede beneficiario,… cui corrisponde una soggezione a carico dei creditori e dei legatati che non possono apparsi”.
L’istituto è diretto (art. 498 c.c., comma 1) alla “liquidazione dell’eredità nell’interesse di tutti i creditori e legatati”, cioè a soddisfare le ragioni dei creditori dell’eredità e dei legatari con la collaborazione dell’erede (il quale, in ipotesi di inosservanza della relativa procedura o di specifiche prescrizioni, diviene erede puro e semplice rispondendo illimitatamente con tutti i suoi beni, pure personali, dei debiti ereditari): anche l’attività di conservazione e di gestione ordinaria (limitata agli atti necessari ed urgenti) dei beni inclusi nell’inventario è meramente strumentale rispetto a quella liquidatoria (questa, infatti, nel frattempo acquisisce anche i frutti).
C.2 in base all’art. 495 c.c. “l’erede, quando creditori o legatari non si oppongono ed egli non intende promuovere la liquidazione a norma dell’art. 503 c.c., paga i creditori e i legatari…”: la procedura liquidatoria, quindi, può essere individuale (“a misura che” i creditori ed il legatari “si presentano, salvi i loro diritti di poziorità”) ovvero concorsuale, a scelta dell’erede; questi, però, è obbligato a seguire la seconda se (art. 498 c.c.) un creditore si oppone alla prima; egli, inoltre, decade dal beneficio se provvede a pagamenti individuali nel corso della procedura concorsuale.
C.3 In ipotesi di liquidazione concorsuale dell’eredità accettata con beneficio di inventario, l’art. 506 c.c. vieta (“non possono”) la promozione di “procedure esecutive ad istanza dei creditori” una volta che sia stata “eseguita la pubblicazione prescritta dall’art. 498 c.c., comma 3”.
C.4 In ordine alla natura ed agli effetti prodotti dalla liquidazione concorsuale dell’eredità accettata con beneficio di inventario, vanno ribaditi (in carenza di qualsivoglia argomentazione contraria) i principi già affermati da questa Corte (Cass., 2^, 6 novembre 1991 n. 11848), sulla scia di analoghe precedenti pronunce indicate nella stessa (“sent. n. 4428 del 17 ottobre 1977; sent. n. 4070 del 6 dicembre 1974; sent. n. 1224 dell’8 maggio 1973; sent. n. 1361 del 25 maggio 1960; sent. n. 2544 del 19 agosto 1955; sent. n. 24 del 9 gennaio 1952”), secondo cui “in pendenza della procedura concorsuale di liquidazione, dell’eredità beneficiata, i creditori del defunto, anche se abbiano presentalo la dichiarazione di credito di cui all’art. 498 c.c., comma 3, possono, fuori di detta procedura concorsuale, promuovere contro l’erede, tanto in sede ordinaria che in sede monitoria, per i debiti ereditari, un’azione di condanna o un’azione di semplice accertamento della esistenza e della entità del proprio credito” anche se “il titolo giudiziale di accertamento e di condanna, così ottenuto nei confronti degli eredi beneficiari, può essere fatto valere nei confronti di questi ultimi e dell’eredità beneficiata, nella quale il credito così accertato può in ogni caso trovare soddisfazione sul residuo”.
“La… limitazione” (peraltro “prevista nell’interesse dei creditori concorrenti e non già dell’erede beneficiato”) “della responsabilità dell’erede per i debiti ereditari entro il valore del patrimonio del de cuius” determinata dall'”accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario”, infatti, non produce anche “una limitazione oggettiva ed assoluta della entità dei crediti ereditari, indipendentemente dalla entità delle attività ereditarie” e, di conseguenza, “viene meno ove le attività ereditarie (che, all’occorrenza, vanno liquidate per intero), siano tali da consentire la realizzazione dei crediti ereditari nella loro integrale entità oggettiva risultante incontestabilmente accertata nell'”an” e nel “quantum”, senza che al riguardo l’erede beneficiato possa opporre alcunché”: l'”erede beneficiato”, quindi, non può, invocando le limitazioni di cui all’art. 506 c.c., impedire che, ove vi sia capienza nel valore dei beni ereditari, il credito accertato in modo a lui opponibile e del quale non si contesti la sussistenza e la entità, possa, nel valore del patrimonio ereditario, trovare soddisfazione nella sua interezza”.
Il divieto posto dall’art. 506 c.c. detto, come ripetutamente affermato (Cass.: 3^, 14 marzo 2003 n. 3791; 2^, 30 marzo 2001 n. 4704; 3^, 16 novembre 1994 n. 9690), siccome riferibile alle sole procedure esecutive, non esclude, quindi, che i creditori, potendo avere sempre interesse a procurarsi un titolo giudiziale accertativo o esecutivo, possano promuovere nei confronti dell’erede le opportune azioni sia di accertamento che di condanna: qualora una simile evenienza si verifichi, il titolo giudiziale così ottenuto può essere fatto valere nella procedura di liquidazione dell’eredità beneficiata e il relativo credito può comunque trovare soddisfazione sull’eventuale residuo ex art. 502 e 506 c.c..
L’erede contro cui sia stato formato un titolo esecutivo che lo condanni quale beneficiato, pur essendo tenuto al pagamento non oltre il valore dei beni a lui pervenuti (art. 490 c.c., comma 2, n. 2), per potersi esonerare dal pagamento deve dimostrare (Cass. 3^, 10 novembre 1993 n. 11084) non che l’asse ereditario sia stato originariamente insufficiente a coprire la passività bensì che lo stesso è rimasto esaurito nel pagamento di creditori presentatisi in precedenza.
Tali principi evidenziano l’erroneità giuridica dell’affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui “non oltre” quanto indicato nello stato di liquidazione “può essere chiesto da chiunque non abbia fatto opposizione e non abbia ottenuto una sentenza definitiva di riforma dello stesso” e della conseguente affermazione per la quale la “pretesa” fiscale contenuta nei due avvisi dell’Ufficio è “assolutamente inaginabile” (ovverosia non azionabile).
D. Il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 637 (applicabile alla specie ratione temporis in quanto la successione oggetto dell’imposta si è aperta nel suo vigore), dopo aver individuato (art. 5) negli “eredi” i “soggetti passivi dell’imposta” sulle successioni, con il successivo art. 46 (“responsabilità degli eredi”) dispone (rispettivamente al comma 2 e 3):
– “l’erede che ha accettato l’eredità con beneficio d’inventario risponde dell’imposta nei limiti previsti dall’art. 490 c.c.”, quindi mutatis mutandis) “non è tenuto al pagamento” (art. 490 c.c., sec. 2, n. 2) dell’imposta “oltre il valore dei beni a lui pervenuti”;
– “l’ammontare complessivo delle imposte di successione e di trascrizione, dei diritti catastali e delle relative penali, in nessun caso può ripetersi in cifra superiore al valore dei beni sui quali le tasse, soprattasse, diritti e penali si riferiscono, al netto delle passività deducibili” (comma 3).
D.1. Da tali previsioni si evince, in primo luogo, a) che quella relativa alle imposte di “successione… trascrizione,… diritti catastali e… relative penali” è una obbligazione propria, cioè personale dell’erede (cfr., per l’INVIM, Cass., trib., 20 dicembre 2001 n. 16046), e b) che tale obbligazione, in ipotesi di accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario, “in nessun caso può ripetersi in cifra superiore al valore dei beni sui quali le tasse, soprattasse, diritti e penali si riferiscono, al netto delle passività deducibili”, ovverosia che “l’ammontare complessivo delle imposte” dette “può ripetersi” solo nei limiti della “cifra” determinata con i criteri dettati dalla norma.
D.2. Dalla natura non ereditaria, ma personale dell’erede, del debito per il pagamento delle imposte conseguenti alla successione discende che (come già affermato da questa Corte nelle sentenze 8 settembre 1983 n. 5529 e 20 maggio 1980 n. 3308, sia pure in relazione a successioni ricadenti nel vigore del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3270) l’amministrazione finanziaria, contrariamente a quanto ritenuto dalla Commissione Tributaria Regionale, non può insinuare il proprio credito nello stato di graduazione della procedura di liquidazione dell’eredità beneficiata perché le stesso, sorgendo nei confronti dell’erede, non costituisce un debito né del de cuius né della massa ereditaria.
Di conseguenza, ed a fortiori, deve essere riconosciuto all’amministrazione finanziaria il diritto di esercitare tutti i suoi poteri, accertativi ed impositivi, come quello di difendere le proprie ragioni innanzi al giudice competente, sia in via di azione che di reazione all’iniziativa giudiziaria del contribuente.
D.3. Nel vigore del citato R.D. 30 dicembre 1923, n. 3270 – per il cui art. 70 “l’erede beneficiato è(ra) tenuto a pagare la tassa di successione soltanto con le attività a lui pervenute” – questa Corte (Cass., 1^: 8 settembre 1983 n. 5529; 4 giugno 1981 n. 3607; 20 maggio 1980 n. 3308, oltre quella indicata infra) ha affermato che, in caso di accettazione dell’eredità con beneficio dell’inventario seguita dalla procedura di graduazione e di liquidazione dei crediti verso il de cuius ai sensi dell’art. 498 c.c. e segg., la situazione delle passività ereditarie comprovata dallo stato di graduazione divenuto definitivo vincolava l’amministrazione ai fini della determinazione della base imponibile dell’imposta di successione non potendo essa disconoscere quella situazione né invocare il principio della tassatività delle prove legali (previste dal medesimo R.D. n. 3270 del 1923, art. 45) per la deduzione dall’asse dei debiti ereditari in quanto tale principio, riferibile al normale procedimento amministrativo della determinazione della base imponibile, non poteva ritenersi preclusivo, in via assoluta, dell’efficacia probatoria derivante da altre procedure, ugualmente previste dall’ordinamento, anch’esse preordinate all’accertamento del passivo dell’eredità.
Consequenzialmente, per la stessa giurisprudenza (in particolare Cass., 1^, 16 aprile 1983 n. 2626), l’amministrazione finanziaria era onerata a provocare gli opportuni accertamenti giudiziali su quei crediti inseriti nello stato di graduazione dei quali intendeva contestare la verità, riconoscendo alla stessa l’interesse afferente.
Ancora nella decisione 8 giugno 2000 n. 7800 questa sezione, sia pure come affermazione (ivi) del tutto teorica, ha giudicato ipoteticamente esatta “sarebbe esalta (ed è stata ritenuta esatta, sia pure sotto il vigore del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3270, da Cass. nn. 1101 del 1975, 3308 del 1980 e 5529 del 1983)” ) “la tesi… secondo la quale, siccome l’erede beneficiato risponde dell’imposta di successione nel limite del valore dei beni e dei crediti a lui pervenuti (D.P.R. n. 637 del 1972, art. 46, comma 2), sarebbe indispensabile attendere la definitività dello stato di graduazione (art. 502 c.c., comma 1, per determinare l’imposta dovuta sul “valore globale dell’asse ereditario netto” (combinato disposto del D.P.R.
n. 637 del 1972, art. 6, comma 1 e art. 7, comma 1)”.
D.4. in realtà, la “responsabilità”, ai fini dell’imposta di successione, “degli eredi” accettanti con beneficio d’inventario deve ritenersi diversamente regolata dal D.P.R. n. 637 del 1972, art. 46, perché il comma 3 di questa norma, a differenza della analoga del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3270, art. 70 (costituente il dato normativo di riferimento delle richiamate pronunce di questa Corte), attribuisce particolare rilievo alle “passività deducibili”, ovverosia non a tutte le passività che gravano l’eredità ma solo a quelle “deducibili”, quindi unicamente alle passività che possono essere dedotte in base alle norme dello stesso D.P.R. n. 3270 del 1923.
Questo, come noto, non ammette “in deduzione” tutti i debiti del de cuius perché all’art. 15 pone espressamente dei “limiti” (“debiti contratti per l’acquisto di beni non compresi nell’attivo ereditario e quelli per i quali sia stata prestata dal defunto garanzia reale su beni non compresi nell’attivo ereditario”; “debiti derivanti da atti posti in essere negli ultimi sei mesi di vita del defunto, che non siano inerenti all’esercizio di impresa”; “debiti assunti anteriormente agli ultimi sei mesi di vita del defunto” per i quali “l’amministrazione finanziaria può dimostrare la simulazione del relativo atto”; “debiti risultanti da scritture private non autenticate” se e finché “la scrittura” non abbia “acquistato la data certa a norma del codice civile”) al principio, valido per il codice civile, della generale “deducibilità dei debiti” del de cuius.
Da tale rilievo discende che non vi è necessaria corrispondenza tra i debiti deducibili fiscalmente e quelli che possono confluire nello “stato di graduazione” perché riconoscibili civilmente.
D.5. L’efficacia probatoria che la richiamata giurisprudenza di questa Corte attribuisce ai fini della determinazione del passivo fiscalmente deducibile ad altre procedure previste dall’ordinamento, quand’anche preordinate all’accertamento del passivo dell’eredità, di poi, non appare condivisibile perché non considera le diverse finalità delle stesse e, comunque, confligge apertamente con la pur riconosciuta tassatività delle prove legali per la deducibilità fiscale dei debiti (D.P.R. n. 637 del 1972, art. 16, “dimostrazione dei debiti”: “la deduzione dei debiti è subordinata alla produzione…”): la stessa, infatti, elude del tutto detta tassatività, né la salvaguarda in alcun modo, perché da un lato consente, senza alcun supporto normativo, di opporre all’amministrazione finanziaria (attraverso la vincolatività dello stato di graduazione) debiti non documentati secondo la previsione della norma fiscale (quindi anche debiti, mancanti di qualsivoglia prova scritta, semplicemente riconosciuti dall’erede; e pure eventuali debiti c.d. d’onore del de cuius) e dall’altro determina una ingiustificata ed inammissibile inversione di posizione di detta amministrazione facendo carico alla stessa di impugnare le risultanze di quel procedimento privato, sottratto peraltro (in carenza di impugnazione) ad un generale e preventivo controllo giurisdizionale.
Il riconoscimento dell’opponibilità all’amministrazione finanziaria delle risultanze dello “stato di graduazione” formato in sede di procedura di accettazione dell’eredità con beneficio di inventario comunque divenuto definitivo, nondimeno, produce una ingiustificata (e, pertanto, costituzionalmente insostenibile) disparità di trattamento (rilevante, ex art. 3 Cost., anche in sede interpretativa) tra contribuenti in identica posizione perché, a differenza dell’erede accettante puramente e semplicemente, senza nessuna valida giustificazione, né logica né giuridica, consente solo agli eredi accettanti con beneficio di inventario (e non pure a quelli accettanti puramente e semplicemente) sia di opporre debiti non deducibili che di provare i debiti deducibili con mezzi diversi da quelli (documenti) prescritti dalla norma fiscale.

Lo stesso riconoscimento, inoltre, non considera affatto la possibile eventuale decadenza dell’erede, anche se accettante con beneficio di inventario, dalla facoltà di documentare la passività deducibili esposte in dichiarazione per inosservanza del termine triennale, decorrente dalla data di apertura della successione, previsto dal D.P.R. n. 637 del 1972, art. 16, comma 4, per la produzione della documentazione relativa a quelle passività (cfr., Cass., trib., 27 agosto 2001 n. 11268, per la quale la natura decadenziale del termine si desume dalla locuzione “non oltre”, usata dal legislatore con riferimento alla data di scadenza per la produzione di detta documentazione, locuzione lessicalmente equivalente a “perentoriamente”), decadenza che, invece, grava certamente sull’erede accettante puramente e semplicemente.
D.6. Per vero, le norme del codice civile sull’accettazione dell’eredità con beneficio di inventario e quelle fiscali che regolano l’imposta di successione (e delle imposte connesse), operano su piani diversi e trovano il loro necessario raccordo unicamente nella già richiamata disposizione del
D.P.R. n. 637 del 1972, art. 46.
Questo, invero, ai fini della determinazione dell’imposta di successione (che, per il D.P.R. n. 637 del 1972, art. 6, comma 1, si determina “mediante l’applicazione delle aliquote… della tariffa al valore globale dell’asse ereditario netto”), non prevede nessun trattamento fiscale differenziato a seconda che l’eredità sia stata accettata puramente e semplicemente ovvero con beneficio di inventario: nessuna disposizione (come nessun argomento logico), infatti, consente di affermare che la “base imponibile” vada determinata come definita dal D.P.R. n. 637 del 1972, art. 7, comma 1 (per il quale “il valore globale dell’asse ereditario netto”, su cui applicare l’aliquota del caso, “è costituito dalla differenza tra il valore venale complessivo dei beni e dei diritti che compongono l’attivo ereditario, determinato secondo le disposizioni del capo II, e l’ammontare complessivo delle passività deducibili, diminuita dall’ammontare degli oneri diversi da quelli indicati nell’art. 32, comma 3”) solo per le eredità accettate puramente e semplicemente né che per quelle accettate con beneficio di inventario sia possibile determinare altrimenti (in particolare, con riferimento all’eventuale “stato di graduazione” definitivo) “il valore globale dell’asse ereditario netto”.
Il raccordo detto, infatti, non è operato a livello di determinazione dell’imposta ma esclusivamente in quello, successivo, di “responsabilità degli eredi”, con la previsione dettata, come osservato da Cass., 1^, 12 maggio 1998 n. 4775, dall'”esigenza di ridurre il sacrificio economico del soggetto passivo delle predette imposte entro l’ambito del suo effettivo arricchimento”), in favore del solo erede accettante con beneficio di inventario, di un limite di esigibilità dell’imposta come ordinariamente determinata (considerate le preclusioni e le decadenze previste dalle norme fiscali), limite posto in “cifra” (cioè nel risultato numerico dell’operazione di sottrazione) non “superiore al valore dei beni” indicati nell’art. 46, comma 3, detratte (“al netto”) le sole “passività deducibili”.
D.7. in definitiva, deve affermarsi che, ai fini dell’imposta di successione regolata dal D.P.R. n. 637 del 1972:
– l’accettazione dell’eredità con beneficio di inventario non importa una deducibilità (sostanziale e probatoria) delle “passività” diversa da quella ordinaria prevista (art. 12 e segg.) per l’accettazione pura e semplice né, quindi, la “determinazione” di quella imposta in maniera diversa da quanto stabilito dall’art. 6, comma 1;
– le risultanze dello “stato di graduazione” divenuto definitivo, considerato il rinvio all’art. 490 c.c. operato dall’art. 46, comma 2, assumono rilevanza (e solo per tal verso deve riconfermarsi il potere – dovere dell’amministrazione finanziaria all’eventuale impugnazione dello stesso innanzi al giudice ordinario competente, attesa la sua qualità di creditore dell’erede) per determinare il “valore dei beni” concretamente ed effettivamente “pervenuti” all’erede beneficiato e così stabilire la “cifra” costituente il limite della sua responsabilità per l’imposta di successione determinata secondo le regole fiscali ordinarie.
E. Ultimo errore della sentenza impugnata, denunziato dalle ricorrenti sub specie di violazione dell’art. 112 c.p.c., è dato dalla mancata considerazione, ai fini del confermato integrale annullamento dell’atto impositivo, della irrilevanza del “passivo successorio” accertato nello “stato di graduazione” ai fini della determinazione dell’INVIM e del “tributo ipocatastale”.
In proposito va confermato che (Cass., 1^, 12 maggio 1998 n. 4775, cit.) “ai fini dell’applicazione delle imposte di trascrizione e catastale, l’imponibile di un immobile…va determinato secondo la disciplina ordinaria dell’imposta di successione concernente gli immobili considerati in sé” in quanto “le imposte di trascrizione e catastale si applicano in relazione alle forme di pubblicità concernenti singoli beni immobili ed il loro presupposto è costituito dall’aggiornamento delle risultanze dei registri immobiliari (tenuti rispettivamente dalle conservatorie e dagli uffici del catasto), anche se non si verifichi un trasferimento di ricchezza o un’attribuzione patrimoniale… (v. sentenza n. 1963 – 1991)”.
F. Per le considerazioni esposte, la sentenza impugnata deve essere cassata e la causa, siccome bisognevole dei conferenti accertamenti fattuale, va rinviata a sezione diversa della Commissione Tributaria Regionale che ha emesso tale decisione affinché:
1) nel riesame dell’appello dell’Ufficio faccia applicazione dei principi giuridici innanzi svolti, per i quali, in ipotesi di accettazione dell’eredità con beneficio di inventario,
a) ai fini della determinazione dell’imposta di successione le passività gravanti sull’eredità sono deducibili nei limiti fissati e con le forme previste dalle norme fiscali, con irrilevanza dei risultati dello “stato di graduazione” formatosi nella procedura di accettazione detta;
b) ai fini della determinazione dell’INVIM nonché delle imposte ipotacastali, il valore degli immobili caduti nella successione va determinato senza considerare le passività che fiscalmente incidono sulla determinazione del “valore globale dell’asse ereditario netto”;
c) la responsabilità patrimoniale dell’erede per tutte dette imposte non deve, “in nessun caso”, superare la “cifra” determinata sottraendo le “passività deducibili” fiscalmente al “valore dei beni sui quali le tasse, soprattasse, diritti e penali si riferiscono”;
2) decida anche in ordine alle spese dei presente giudizio di legittimità.

P.Q.M. – La Corte
Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese di questo giudizio di legittimità, ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale della Puglia.

 

(2) Sent. n. 25666 del 11 marzo 2008 (dep. il 24 ottobre 2008) della Corte Cass., Sez. tributaria

Svolgimento del processo – Con ricorso notificato il 3 gennaio 2004 a
M.V. ed a M.M. (quest’ultima minore, rappresentata dalla madre S.P.), ricorso depositato il 23 gennaio 2004, il MINISTERO dell’ECONOMIA e delle FINANZE e l’AGENZIA delle ENTRATE, – premesso che: 1) il 26 ottobre 2001 le M., “eredi con b.i., di M.F.M.”, avevano impugnato “l’avviso di liquidazione dell’imposta di successione notificato il 4 settembre 2001” assumendo “aver titolo all’applicazione delle più favorevoli norme di cui alla L. n. 342 del 2000, art. 69, … comma 15 … in quanto per loro, entrambe minori all’apertura della successione (11 agosto 1992), il termine di presentazione della dichiarazione di successione avrebbe dovuto ritenersi scadente dopo il 31 dicembre 2000 poiché … i sei mesi per la dichiarazione sarebbero decorsi dalla scadenza del termine per la formazione dell’inventario (D.Lgs.
n. 346 del 1990, art. 31, lett. d) … individuabile ex art. 489 c.c., nell’anno di raggiungimento della maggiore età”; 2) “nella specie … l’inventario, iniziato il 2 gennaio 1992 (cioè entro i tre mesi dall’accettazione, 26 ottobre 1991, ex art. 481 c.c.), era stato in pari data sospeso e poi ripreso e concluso il 22 marzo 2002” per cui “le parti” ritenevano che il detto “della L. n. 342, art. 69, comma 15, avrebbe consentito l’applicazione della nuova disciplina alle dichiarazioni regolarmente presentabili dopo il 31 dicembre 2000 anche se di fatto presentate prima, in anticipo” -, in forza di TRE motivi, chiedevano di cassare (con le “conseguenti statuizioni … anche in ordine alle spese”) la sentenza n. 87/26/03 depositata il 28 ottobre 2003 dalla Commissione Tributaria Regionale della Puglia (notificata il 6 novembre 2003) la quale aveva respinto l’appello dell’Ufficio avverso la decisione (102/02/02) con la quale la Commissione Tributaria Provinciale di Foggia aveva accolto il ricorso delle contribuenti.

Nel controricorso notificato il 13 febbraio 2004 (depositato il 20 febbraio 2004) le M. instavano per il rigetto dell’avversa impugnazione “con vittoria di spese, competenze ed onorari di lite”.

Motivi della decisione – 1. Preliminarmente va dichiarata l’inammissibilità, evidenziata dalle contribuenti, del ricorso per cassazione proposto dal Ministero.
A. Il titolo quinto, capo secondo, del D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, come noto, ha operato un trasferimento di funzioni e di rapporti inerenti le entrate tributarie, anche pregresse, dal Ministero dell’Economia e delle Finanze alle Agenzie Fiscali (tra cui, l’Agenzia delle Entrate), le quali, in base al D.M. 28 dicembre 2000, art. 1, sono divenute operative a partire dal primo gennaio 2001.
Da tale giorno, quindi, ogni Agenzia è subentrata nei precedenti rapporti tributari concernenti le entrate a ciascuna attribuite.
B. Nel caso, l’atto gravato è stato notificato il 4 settembre 2001 e impugnato con ricorso del 26 ottobre 2001: il processo, quindi, si è svolto, fin dal primo grado, esclusivamente tra le contribuenti e l’Ufficio locale dell’Agenzia delle Entrate, con totale estraneità del Ministero dell’Economia e delle Finanze, il quale, di conseguenza, non è legittimato a proporre alcuna impugnazione avverso sentenza resa in processo svoltosi, nei precedenti gradi, soltanto tra altre parti.
2. La Commissione Tributaria Regionale, “preliminarmente”, ha giudicalo “inammissibile” l’appello dell’Ufficio “per violazione del disposto dell’art. 342 c.p.c., e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53” assumendo che esso “si limita a riprodurre le stesse deduzioni avanzate in primo grado” senza indicare “con chiarezza … le specifiche critiche indirizzate alla motivazione che sostiene le statuizioni investite dal gravame” e senza consentire di “valutare esattamente la portata delle stesse, riferendosi ad una violazione di legge senza specificare in modo chiaro ed analitico l’errore e/o violazione posto in essere dai primi giudici”.
La stessa Commissione, quindi, “in ogni caso”, ha giudicato “infondato” l’appello “nel merito” esponendo che “correttamente” i primi giudici avevano ritenuto “applicarsi la L. 21 novembre 2000, n. 342, art. 69” in quanto “dalla documentazione esibita e non contestata da controparte” risultava “in maniera inequivoca” che “le operazioni relative all’inventario a rogito del notaio … nominato con provvedimento del giudice tutelare … del 2 dicembre 1992 … venivano sospese alle ore 13 del suindicato giorno” e, “mai concluse”, “riprendevano solo il 22 marzo 2002 e chiuse nello stesso giorno come da atto … dello stesso notaio”.
3. Con il primo motivo di ricorso l’Agenzia contesta l’”affermazione di inammissibilità dell’appello dell’Ufficio” (“per carenza di motivi”) contenuta nella sentenza gravata e denunzia “violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 1” nonché “omessa o comunque insufficiente e contraddittoria motivazione” adducendo:
– l’”inammissibilità … non può essere … configurata dal solo fatto che l’atto “si limiti a ripetere le stesse deduzioni avanzate in primo grado” perché “ciò avviene” in quanto “la sentenza non le ha accolte”;
– nel caso l’Ufficio ha dato, “preliminarmente”, una “chiara ricostruzione del quadro normativo, dei fatti verificatisi e della valutazione che avrebbe dovuto esserne data” censurando, poi, “quella data … dalla C.T.P.”;
– “la sentenza di appello” non spiega perché “tale disamina, comunque ampia e dettagliata a prescindere dalla sua valutazione di merito, dovrebbe equivalere a carenza di motivi”.
La censura è inammissibile per mancanza di interesse (art. 100 c.p.c.) in quanto l’affermazione di inammissibilità dell’appello, contenuta nell’incipit motivazionale della sentenza impugnata, non costituisce la vera e propria ratio decidendi della stessa: il giudice di appello, infatti, ha “comunque” (come dallo stesso chiarito) scelto di pronunciarsi sul “merito” dell’impugnazione disponendo il rigetto della stessa e non già la semplice sua dichiarazione (come altrimenti dovuto) di inammissibilità.
Detta argomentazione, quindi, nell’economica della effettiva decisione, si palesa come svolta solo ad abundantiam in quanto (Cass. 5 giugno 2007 n. 13068) non ha spiegato alcuna influenza sul dispositivo della stessa.
4. Con il secondo motivo l’Agenzia – assumendo aver “la parte” affermato, “nel suo ricorso”, “la pretesa eccessività dell’imposta liquidata, perché non fondata sui criteri e le aliquote di cui alla più favorevole L. n. 342 del 2000, ma non la totale non debenza dell’imposta stessa” – denunzia “violazione dell’art. 112 c.p.c., per ultrapetizione ed omessa pronuncia” adducendo che i “giudici di merito” 1) hanno annullato “integralmente la liquidazione impugnata” (“il che era fuori dal petitum”) e
2) non si sono pronunciati sul “quantum”.
Il motivo, esposto nei riprodotti ristretti termini, è inammissibile per un duplice, concorrente ordine di considerazioni.
In primo luogo, va osservato che l’Agenzia attribuisce il preteso vizio, in entrambi i profili prospettati, ai “giudici di merito”, quindi sia a quello di primo grado che al giudice superiore senza, però, neppure allegare di aver censurato sul punto la decisione di primo grado, totalmente
.favorevole alle contribuenti, né di avere sottoposto al giudice di appello il vizio in questione.
Il vizio di ultra, petizione in cui incorra il giudice di primo grado, come noto, stante i limiti posti dall’effetto devolutivo dell’appello, non è rilevabile d’ ufficio da parte del giudice di grado superiore (Cass. 22 marzo 2007 n. 6935) per cui – in carenza di specifica censura in proposito da parte dell’interessato – il secondo giudice ha il dovere di esaminare la questione dovendosi di necessità logica ritenere che detto interessato, non spiegando apposito gravame, abbia comunque accettato il contraddittorio; il vizio di ultra od extrapetizione in cui sia incorso il giudice d’appello, poi (Cass. 26 luglio 2005 n. 15629), non è rilevabile d’ ufficio da questo giudice di legittimità.
La doglianza in esame, inoltre, è formulata in aperta violazione dell’art. 366 c.p.c., e, quindi, si rivela non autosufficiente, perché la sua prospettazione non permette in alcun modo di apprezzare le probabilità di una definizione della controversia diversa da quella adottata dalla decisione gravata, comunque più favorevole alla ricorrente, non essendo indicato quale sia il residuo quantum su cui i giudici del merito avrebbero dovuto giudicare né spiegato quale influenza abbiano le nuove norme ai fini di una diversa decisione: scindendo il vizio denunziato in quello di ultrapetizione (“annullare integralmente la liquidazione impugnata”) e di omessa pronuncia (“minore quantificazione dell’obbligazione tributaria”), invero, l’Agenzia ha trasformato in error in procedendo un vizio propriamente in indicando perché investente il “tipico accertamento di fatto” (cfr. sulla distinzione tra interpretazione della domanda e violazione del principio di cui all’art. 112 c.p.c., Cass. 31 gennaio 2007 n. 2096) costituito dalla interpretazione della domanda, operata (nell’esercizio dei suoi compiti istituzionali) dal giudice di appello, quale necessariamente sottesa alla pronuncia impugnata e desumibile dai limiti dalla stessa.
5. Con il terzo (ed ultimo) motivo l’Agenzia – assumendo che “nel caso … l’inventario iniziato il 2 dicembre 1992 è stato immediatamente sospeso e ripreso (senza alcuna autorizzazione del giudice) quasi dieci anni dopo”, con conseguente “decadenza delle eredi dal beneficio” – denunzia “violazione del D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 31, comma 1, lett. d), e dell’art. 485 c.c., comma 1 e art. 487 c.c., comma 2, nonché una falsa applicazione dell’art. 489 c.c., e L. n. 342 del 2000, art. 69, comma 15” adducendo:
“la prima norma, impone, per la presentazione della dichiarazione di successione, un termine di sei mesi che nel caso dell’eredità beneficiata decorre dall’ultimazione della redazione dell’inventario, ovvero, ovviamente, dalla decadenza del beneficio o rinuncia ad esso”;
– “la seconda e la terza che tale ultimazione deve avvenire entro tre mesi dall’accettazione beneficiata, a pena di decadenza dal beneficio e salvo proroga massima di altri tre mesi concessa dall’A.G. (di cui nella specie non vi è traccia)”.

Secondo la ricorrente, poi, il fatto che “nella specie l’art. 489 c.c., consentisse loro, in quanto minori, di non risentire pregiudizio dalla sospensione dell’inventario protrattasi … per un tempo ben superiore alla sua massima possibile durata legale, e di proseguire e concludere l’inventario stesso entro l’anno successivo alla maggiore età … non ha rilevanza a fini fiscali, e dunque neppure per la definizione dei termini di presentazione della dichiarazione” perché “l’art. 489 c.c.,… è inteso solo a tutelare l’erede minorenne dal rischio di trovarsi … a dover rispondere ultra vires”.
In definitiva, per l’amministrazione pubblica, poiché “dalla l.r. è stata ugualmente presentata la dichiarazione di successione (il 10 febbraio 1993, data rispettosa del termine L. n. 346, ex art. 31)” e poiché “è stata altresì pagata l’intera imposta principale per un ammontare di circa L. 300 milioni” (“della quale la somma contestata è solo integrativa”), “non vi era ragione di ritenere che la dichiarazione potesse essere presentata nei sei mesi dal 22 marzo 2002 (data di presunta ultimazione dell’inventario) anziché dal 2 dicembre 1992, né di considerare anticipata quella del 10 febbraio 1993 (se non rispetto all’ultima data possibile del 2 giugno 1993), e tanto meno quindi invocare l’applicazione della L. n. 342 del 2000, art. 69, comma 15”.
Il motivo è infondato.
A. Per il D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, art. 31, comma 1, (nel cui vigore si è aperta la successione di M.F.M., deceduta il giorno undici agosto 1992), invero, la “dichiarazione” di successione ” deve essere presentata entro sei mesi” (poi “dodici”) “dalla data di apertura della successione”; per il comma 2, lett. d), tale “termine decorre … dalla scadenza del termine per la formazione dell’inventario, se l’eredità è accettata con beneficio d’inventario entro il termine di cui al comma 1”.
La norma tributaria, quindi, in ipotesi di accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario, ai fini del rispetto del termine di cui al comma 1, impone al chiamato solo di accettare l’eredità con beneficio d’ inventario nel termine stesso perché ai fini della presentazione della dichiarazione di successione fissa al medesimo la decorrenza di quel termine con la “scadenza del termine per la formazione dell’inventario”, ovverosia con la “scadenza” del termine stabilito dalla legge per tale formazione (senza alcun riferimento, quindi e peraltro, all’eventuale effettiva formazione dell’inventario anteriormente a tale scadenza).
Si deduce che, in ipotesi di accettazione dell’eredità con beneficio d’ inventario, il “termine” per la vera e propria “presentazione” della dichiarazione di successione non comincia neppure a decorrere fino a quando non scade quello legale “perla formazione dell’inventario”.
B. L’art. 471 c.c., come noto, vieta (“non si possono”) di “accettare le eredità devolute ai minori e agli interdetti, se non col beneficio d’inventario” (“osservate le disposizioni degli artt. 321 e 374”) . 

In base a tale norma, quindi, il rappresentante legale dell’incapace non può (Cass. 1 febbraio 2007 n. 2211; 24 luglio 2000 n. 9648; 13 luglio 1999
n. 7417, tra le recenti) accettare l’eredità in modo diverso da quello prescritto dall’art. 484 c.c., (che consiste in una dichiarazione espressa di volontà volta a fare acquistare all’incapace la qualità di erede con limitazione della responsabilità ai debiti e ai pesi intra vires hereditatis) per cui l’incapace non è vincolato dell’eventuale accettazione tacita, fatta dal suo legale rappresentante con il compimento di uno degli atti previsti dall’art. 476 c.c., ma resta nella posizione di chiamato all’eredità fino a quando egli stesso o il suo rappresentante non eserciti il diritto di accettare o di rinunziare all’eredità entro il termine della prescrizione: qualsiasi altra forma di accettazione, espressa o tacita, invero, è nulla ed improduttiva di effetti perché (Cass., 24 luglio 2000 n. 9648) nessuna di tali diverse forme di accettazione conferisce al minore la qualità di erede.
Anche quando l’eredità sia stata accettata con beneficio d’inventario dal rappresentante legale del minore, debitamente autorizzato, poi, quest’ultimo, entro un anno dal compimento della maggiore età, può ancora rinunziare all’eredità (cfr. Cass. 24 luglio 2000 n. 9648, per la quale, in ipotesi di rinunzia, non possono essere poste a carico del minore le spese affrontate per effettuare l’inventario).
C. Dalla disposizione dettata dall’art. 489 c.c., (“i minori, gli interdetti e gli inabilitati non s’intendono decaduti dal beneficio d’inventario, se non al compimento di un anno dalla maggiore età o dal cessare dello stato d’interdizione o d’inabilitazione, qualora entro tale termine non si siano conformati alle norme della presente sezione”), poi, si ricava che per i minori chiamati all’eredità la decadenza dal beneficio d’ inventario può verificarsi (Cass. 24 luglio 2000 n. 9648, cit.) unicamente in ipotesi di mancato compimento dell’inventario entro il termine di un anno dal raggiungimento della maggiore età.
D. In definitiva va confermato che – come statuito da questa Corte (sez. 13 maggio 1983 n. 3307) in riferimento alla disposizione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 637, art. 39, comma 3, (secondo cui “per la eredità accettate con beneficio d’inventario, il termine per la presentazione della dichiarazione decorre dalla scadenza di quello stabilito per la formazione dell’inventario, e, quando questo sia compiuto prima di tale scadenza, dalla data della sua chiusura, ..”), analoga per contenuto e finalità a quella, applicata nel caso, dettata dal D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 31, comma 2, lett. d), la norma fiscale contiene un rinvio al codice civile, in particolare ai tre diversi, termini che, per la formazione dell’inventario sono previsti nei riguardi, rispettivamente, a) dei chiamati all’eredità nel possesso di beni eredi tari, b) di quelli che non lo sono e c) dei minori, degli interdetti e degli inabilitati (artt. 485, 487 e 489 c.c.), ai quali termini, quindi, in quanto recepiti da tale norma tributaria, deve ritenersi collegato il termine per la predetta dichiarazione.
E. Dai ricordati principi discende che la mancata redazione dell’inventario da parte del legale rappresentante del minore chiamato all’eredità, quand’anche protratta oltre il termine fissato ordinariamente per la redazione dell’inventario stesso, diversamente da quanto ritenuto ovvio (“ovviamente”) dall’Agenzia ricorrente, non conserva al minore (sino al primo anno dal compimento della maggiore età) soltanto il diritto di evitare la responsabilità ultra vires ma anche le facoltà sia di evitare la decadenza dal beneficio d’inventario come di rinunziare all’eredità.
In sintesi, deve rilevarsi ed affermarsi che la mancanza detta, ai fini fiscali, non fa neppure sorgere il presupposto che consente la decorrenza del termine fissato per la “presentazione” della dichiarazione di successione, il quale, di contro, comincia a decorrere soltanto con la redazione dell’inventario o con lo spirare del termine ultimo (un anno dal raggiungimento della maggiore età) previsto dalla norma ordinaria.

Correttamente, quindi, il giudice di appello ha ritenuto applicabile alla specie le più favorevoli “disposizioni contenute” nella L. 21 novembre 2000, n. 342, art. 69, in quanto il quindicesimo comma di tale norma prevede espressamente che le stesse “si applicano alle successioni per le quali il termine di presentazione delle relative dichiarazioni scade successivamente al 31 dicembre 2000”; nel caso entrambe le minori chiamate all’eredità hanno raggiunto la maggiore età in epoca successiva “al 31 dicembre 2000” e, quindi, per le stesse il “il termine di presentazione” della dichiarazione di successione non era ancora scaduto non essendo stato redatto l’inventario necessario per perfezionare l’unica forma legale di accettazione dell’eredità loro devoluta.
6. Le spese di questo giudizio di legittimità vanno interamente compensate tra tutte le parti ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2.

P.Q.M. – La Corte:

Dichiara inammissibile il ricorso del Ministero; rigetta il ricorso dell’Agenzia; compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

 

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