La Corte di Cassazione, già con la sentenza n. 37596/14, aveva definito Facebook: “una gigantesca piazza immateriale con milioni di utenti nel mondo, che comunicano in settanta lingue diverse”. Basta poco per diventare “hater e stalker telematici”, un semplice troll può perdere il posto se parla male dell’azienda per cui lavoro, come per il “fannullone” che perde tempo fra post e thread invece di lavorare. In una recente pronuncia, la n. 10762/22 viene dichiarato che rischia la condanna per diffamazione aggravata chi offende qualcuno sul social anche senza fare nomi: è sufficiente che le “querelle” siano riconducibili alla persona di mira. A far scattare la condanna basta il nickname dell’interessato, non c’è bisogno di risalire all’indirizzo Ip, salvo che il titolare del profilo dimostri una sostituzione di persona o l’uso illecito della sua pagina (sentenza 4239/22).
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