Il consorzio nel sistema legale italiano può assumere lo status di imprenditore? Nei consorzi con attività interna tale status risulta impossibile per mancanza dei relativi requisiti? Nei consorzi con attività esterna, invece, la qualifica di imprenditore deve essere valutata di volta in volta?
La nozione civilistica e tributaristica di imprenditore
Per accertare se il consorzio possa essere annoverato tra gli imprenditori, occorre accertare la sua compatibilità con la qualifica di imprenditore.
A tal proposito, l’art. 2082 c.c. dispone che è imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata per la produzione o lo scambio di beni o servizi, intendendo con ciò riferirsi alla non occasionalità del suo svolgimento.
I caratteri distintivi dell’impresa commerciale, in base al predetto art. 2082 c.c., sono la professionalità e l’organizzazione intese come svolgimento abituale e continuo dell’attività.
Volendo lanciare uno sguardo alla definizione tributaristica di impresa commerciale, che non coincide con quella civilistica, occorre rifarsi all’art. 55, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, secondo il quale sono redditi d’impresa quelli che derivano dall’esercizio di imprese commerciali.
Per detto esercizio, si intende “l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività indicate nell’art. 2195 c.c.”, ossia attività:
- industriale diretta alla produzione di beni o di servizi;
- intermediaria nella circolazione dei beni;
- di trasporto per terra, per acqua o per aria;
- bancaria o assicurativa;
- altre attività ausiliarie delle precedenti;
e delle seguenti attività:
- allevamento di animali con mangimi ottenibili per almeno un quarto dal terreno e le attività dirette alla produzione di vegetali tramite l’utilizzo di strutture fisse o mobili, qualora la superficie destinata alla produzione non sia superiore al doppio di quella del terreno su cui la produzione stessa è effettuata [Art. 32, comma 2, lett. b), del D.P.R. n. 917/1986];
- le attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione, sebbene non esercitate sul terreno, di prodotti ottenuti in gran parte dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali [Art. 2135 c.c., richiamato dall’art. 32, comma 2, lett. c), del D.P.R. n. 917/1986];
- i redditi derivanti dall’esercizio di attività organizzate in forma d’impresa dirette alla prestazione di servizi che non rientrano nell’art. 2195 c.c.;
- i redditi derivanti dall’attività di sfruttamento di miniere, cave, torbiere, saline, laghi, stagni e altre acque interne;
- e i redditi dei terreni, per la parte ottenuta dall’esercizio delle attività agricole ut supra a) e b), nei predetti limiti, qualora appartengano alle S.N.C. e S.A.S. nonché alle stabili organizzazioni di persone fisiche non residenti esercenti attività di impresa.
La Corte di Cassazione, sez. V, con ordinanza del 15 luglio 2020, n. 15021, ha affermato che, in tema di qualificazione dell’attività svolta dal contribuente come attività d’impresa, ai fini tributari, occorre risalire all’art. 55, del D.P.R. n. 917/1986, che annovera le attività indicate nel suddetto art. 2195 c.c., anche se non organizzate in forma di impresa, che mostrano caratteristiche di stabilità e ripetitività, anche solo tendenziale e prospettica nel tempo, che possono essere esercitate anche in modo non esclusivo, ovvero in abbinamento con altre attività, rea