Accesso al domicilio del contribuente: limiti e presupposti per autorizzarlo

analizziamo i poteri di accesso del fisco al domicilio del contribuente: quali sono i presupposti su cui si può concedere questa forma di controllo estremamente invasiva? Quali sono i limiti ai poteri ispettivi del fisco

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8547 del 29.4.2016, è intervenuta su un argomento sempre molto controverso: i limiti e presupposti per l’accesso ai fini di controllo fiscale presso il domicilio del contribuente.

Nel caso di specie la Commissione Tributaria Regionale del Veneto aveva confermato la sentenza di primo grado, che aveva accolto il ricorso proposto dal contribuente, titolare di ditta individuale, avverso avviso di rettifica parziale ai fini IVA per l’anno di imposta 1996.

La Commissione Tributaria Regionale, in particolare, affermava che le operazioni di verifica prodromiche all’accertamento, eseguite presso l’abitazione privata, erano da ritenersi afflitte da illegittimità non sanabile, in considerazione della mancanza di formale autorizzazione scritta all’accesso da parte della Procura della Repubblica.

Aggiungeva il giudice inoltre che i medesimi fatti erano già stati oggetto di valutazione negativa da parte della stessa CTR, con sentenze divenute definitive per mancata impugnazione e facenti quindi stato nel giudizio, in ragione del “giudicato esterno”.

L’Agenzia delle Entrate ricorreva quindi per cassazione, denunciando, sul punto in esame, la violazione e falsa applicazione dell’art. 33 del DPR n. 600/1973 e degli artt.52 e 63 del DPR n. 633/1972 e la insufficienza motivazionale in merito alla statuizione con la quale la CTR aveva affermato che la mancanza di autorizzazione da parte della Procura della Repubblica rendeva illegittime le operazioni eseguite durante l’accesso domiciliare.

Sosteneva infatti la ricorrente che la prescritta autorizzazione era stata acquisita presso la Procura delle Repubblica, come documentato in atti dal processo verbale di accesso domiciliare e dalle note intercorse tra l’Amministrazione finanziaria e la Procura della Repubblica e che la eventuale mancanza della autorizzazione in questione non toccava comunque l’efficacia probatoria dei dati trasmessi, né implicava la invalidità degli atti impositivi adottati sulla scorta degli stessi dati.

La Corte di Cassazione, nel respingere il ricorso dell’Amministrazione, evidenzia però che la censura dell’Agenzia non coglie la ratio decidendi adottata dalla CTR e fondata sulla mancanza della formale autorizzazione “scritta” (rilasciata nel caso di specie per telefono), e non già sulla generica mancanza di autorizzazione, profilo questo in realtà non censurato.

Evidenziano inoltre i giudici di legittimità che nel caso in esame l’accesso aveva riguardato la privata abitazione del contribuente e non l’ufficio, per cui non risultava dirimente il richiamo alla sentenza n. 4071/1985 della Corte che aveva escluso la necessità di preventiva autorizzazione del Procuratore della Repubblica per l’accesso presso gli uffici di una società.

L’autorizzazione in questione era dunque da ricondurre alla fattispecie regolata dall’art. 52, c. 2, del DPR n. 633/1972, che disciplina l’accesso disposto dagli uffici IVA in locali non destinati all’attività d’impresa.

In particolare, l’art. 52, cc 1 e 2, del DPR n. 633/1972, così recita, distinguendo tra l’accesso presso l’esercizio commerciale e quello presso altri locali:

“1) Gli uffici dell’imposta sul valore aggiunto possono disporre l’accesso di impiegati dell’Amministrazione finanziaria nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, agricole, artistiche o professionali per procedere ad ispezioni documentali, verificazioni e ricerche e ad ogni altra rilevazione ritenuta utile per l’accertamento dell’imposta e per la repressione dell’evasione e delle altre violazioni. Gli impiegati che eseguono l’accesso devono essere muniti di apposita autorizzazione che ne indica lo scopo, rilasciata dal capo dell’ufficio da cui dipendono. Tuttavia per accedere in locali che siano adibiti anche ad abitazione è necessaria anche l’autorizzazione del procuratore della Repubblica. In ogni caso, l’accesso nei locali destinati all’esercizio di arti e professioni dovrai essere eseguito in presenza del titolare dello studio o di un suo delegato.

2) L’accesso in locali diversi da quelli indicati nel precedente comma puo’ essere eseguito, previa autorizzazione del procuratore della Repubblica, soltanto in caso di gravi indizi di violazioni delle norme del presente decreto, allo scopo di reperire libri, registri, documenti, scritture ed altre prove delle violazioni”.

Leggendo quindi i due distinti commi, conclude la Corte, si evince l’autonoma regolamentazione delle due fattispecie.

Tali attività investigative, inoltre, possono essere svolte, come risulta essere avvenuto anche nel caso in esame, anche dalla Guardia di Finanza in collaborazione con gli uffici IVA, ai sensi dell’art. 63, c. 1, parte 1, del decreto citato, che prevede che

“La Guardia di Finanza coopera con gli uffici dell’I.V.A. per l’acquisizione e il reperimento degli elementi utili ai fini dell’accertamento della imposta e per la repressione delle violazioni del presente decreto, procedendo di propria iniziativa o su richiesta degli uffici, secondo le norme e con le facolta’ di cui agli artt. 51 e 52, alle operazioni ivi indicate e trasmettendo agli uffici stessi i relativi verbali e rapporti,”

Diversa ed autonoma è, invece, la fattispecie disciplinata dall’art. 63, c. 1, parte 2, del DPR n. 633/1972, che stabilisce che

“Essa (la G. di F.) inoltre, previa autorizzazione dell’autorita’ giudiziaria in relazione alle norme che disciplinano il segreto, utilizza e trasmette agli uffici documenti, dati e notizie acquisiti, direttamente o riferiti ed ottenuti dalle altre Forze di polizia, nell’esercizio dei poteri di polizia giudiziaria.”,

disposizione questa che afferisce all’utilizzazione in sede amministrativa di documenti e dati acquisiti nel corso di un’ indagine penale e dunque non pertinente al caso di specie.

In merito a tale ultima disciplina, peraltro, è già stato più volte chiarito che l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria, richiesta per la trasmissione agli uffici dei documenti, dati e notizie acquisiti dalla Guardia di finanza nell’ambito di un procedimento penale, è posta a tutela della riservatezza delle indagini penali, e non dei soggetti coinvolti nel procedimento medesimo o di terzi, con la conseguenza che anche la sua eventuale mancanza (ipotesi nella specie comunque insussistente), se può avere riflessi disciplinari a carico del trasgressore, non tocca l’efficacia probatoria dei dati trasmessi, nè implica l’invalidità dell’atto impositivo adottato sulla scorta degli stessi; l’autorizzazione in parola è stata infatti introdotta per realizzare una maggiore tutela degli interessi protetti dai segreto istruttorio, piuttosto che per filtrare ulteriormente l’acquisizione di elementi significativi a fini fiscali (cfr Cass. nn. 28695 del 2005, 22035 del 2006, 2450 e 11203 del 2007, 27947 del 2009 e 27149/2011).

Queste plurime fattispecie, sottolinea la Suprema Corte, sono quindi oggetto di specifica e differenziata disciplina, sia quanto ai presupposti che quanto agli effetti.

E se è vero che, in materia tributaria, per quanto concerne l’accesso presso locali destinati all’esercizio di attività commerciali, l’irritualità nell’acquisizione di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento per mancanza dell’autorizzazione prevista dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, c. 1, non comporta, di per sè, l’inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tal senso (cfr Cass. nn. 8344/2001, 14058/2006 e 27149/2011), atteso che l’atto di autorizzazione ad accedere ai locali dell’impresa, è reso in esito a valutazione della necessità di incidere sull’andamento e sulla riservatezza della gestione imprenditoriale al fine di riscontrare eventuali evasioni ed infrazioni alla disciplina fiscale (cfr Cass. 18155/2009; 4066/2015), con la conseguenza che eventuali irregolarità nel rilascio della autorizzazione in parola non possono incidere sulla validità dell’accertamento operato dall’Ufficio, sulla scorta degli elementi e dei dati in al modo acquisiti dai dipendenti della stessa Amministrazione, ovvero dalla Guardia di Finanza, è però anche stato precisato che sono da ritenersi esclusi da tale principio i casi, come appunto era quello in esame, in cui viene in discussione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale, come l’inviolabilità della libertà personale o del domicilio.

Il che si verifica nelle ipotesi di accesso in locali adibiti anche, o esclusivamente, ad abitazione, nelle quali è invece richiesta inderogabilmente l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica ai sensi dell’art. 52, comma 2, del DPR n.633/1972, la cui sussistenza e ritualità condiziona la legittima acquisizione degli elementi probatori e, di conseguenza, la legittimità dell’atto impositivo emesso sulla base degli stessi (cfr Cass. 19689/2004; 10704/2009; 27149/2011; 4066/2015) .

La Corte di Cassazione ritiene invece fondato il motivo di impugnazione, sollevato dalla ricorrente, relativo all’efficacia del giudicato, laddove la sentenza della CTR, che aveva affermato l’efficacia del “giudicato” con riferimento all’art.52 del DPR n. 633/1972, nonché il carattere illegittimo dell’acquisizione della documentazione extracontabile rinvenuta dalla Guardia di Finanza, aveva del tutto omesso di valutare un punto decisivo della controversia, afferente alla ulteriore metodologia ricostruttiva utilizzata dall’Ufficio nell’accertamento impugnato, costituita dall’analisi e valutazione di altri elementi istruttori.

Non risultava del resto dalla motivazione della sentenza impugnata se il precedente giudicato esterno si riferisse, oltre che alla illegittima acquisizione della documentazione, anche alla invalida o errata determinazione dell’imposta evasa da parte dell’Ufficio sulla base di questi ulteriori elementi, che pure dovevano ritenersi elemento costitutivo dell’accertamento.

Non era dunque possibile accertare la portata dell’eventuale giudicato esterno e stabilire se detto giudicato si riferisse pure alle altre risultanze investigative (il controllo incrociato presso i clienti, le indagini bancarie, le dichiarazioni confessorie rese dallo stesso contribuente nel corso dell’attività di Polizia Giudiziaria…).

Si sottolinea infine come le stesse conclusioni sopra evidenziate in merito al domicilio privato di persona fisica, potrebbero valere nel caso di enti non commerciali, laddove per accedere ai relativi locali è necessario per i funzionari dell’Amministrazione Finanziaria premunirsi della previa autorizzazione del Procuratore della Repubblica.

Secondo la dottrina prevalente, infatti, nei confronti dei soggetti associativi non titolari di redditi di impresa, l’autorizzazione dell’Autorità giudiziaria è presupposto essenziale ai fini della legittimità dell’accesso.

Da sottolineare, però, che nel caso in cui l’associazione svolga anche attività commerciale (per esempio di ristorazione o somministrazione di bevande) le modalità di controllo attuabili sarebbero invece quelle di cui al comma 1 dell’articolo 52 del DPR 633/72 e non quelle di cui al comma 2 dello stesso articolo.

L’accesso nei locali dove non si svolge alcuna attività commerciale può essere quindi eseguito solo previa autorizzazione del Procuratore della Repubblica e comunque:

– soltanto in caso di gravi indizi di violazione della normativa fiscale;

– allo scopo di reperire libri, registri, documenti, scritture ed altre prove delle stesse violazioni.

Per quanto riguarda gli enti non profit, vale quindi il principio della tutela del “domicilio istituzionale”, intendendosi per tale il domicilio dove si svolge l’ordinaria ed esclusiva attività non commerciale di natura culturale, assistenziale, religiosa…

La tutela dell’inviolabilità del domicilio, garantita dalla autorizzazione del Procuratore della Repubblica, è riconosciuta, del resto solo qualora la destinazione abitativa o associativa dei luoghi a cui si accede sia connotata dai caratteri dell’effettività e dell’attualità, e non invece nei casi in cui sia il frutto di una astratta progettualità o di una dolosa qualificazione.

Si evidenzia infine che, nei casi di accesso in esame, se il contribuente non si è opposto all’accesso, allora, non può poi contestarne gli effetti in termini di legittimità.

La Cassazione, con sentenza 27 luglio 1998, ha infatti a tal proposito per esempio riconosciuto che l’assenso del contribuente supera ogni questione sulla regolarità dell’atto istruttorio, infatti se

“l’accesso si è verificato con il consenso del contribuente, ciò … vale a superare ogni questione sulla legittimità dell’accesso stesso” (vedi anche Commissione Tributaria Centrale, sentenza n. 5030 del 1° ottobre 1992), dato che

“il rifiuto all’accesso deve essere fatto constatare nel processo verbale di verifica, dandosi atto che l’accesso è stato effettuato nonostante l’opposizione”.

18 ottobre 2016

Giovambattista Palumbo