la gestione delle tassazione dei rifiuti è molto travagliata: in pochi anni si è passati dalla TARSU alla TARI passando per TIA e TARES; ogni imposta ha denotato dei vizi genetici che l’hanno resa di difficoltosa applicazione…
Trattasi di un’entrata obbligatoria per tutti i comuni del territorio nazionale che serve a coprire i costi relativi al servizio di gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati avviati allo smaltimento, svolto in regime di privativa comunale.
Va detto innanzitutto che la normativa sulla TARI (così come per le precedenti, discusse T1A 1 e 2) si limita a raccomandare la copertura integrale del costo complessivo del servizio comunale, tacendo del tutto sui limiti per la determinazione delle tariffe individuali, in palese violazione del principio di legalità sancito dall’art. 23 della Costituzione; appare inoltre fuori controllo la fase determinante della quantificazione del costo complessivo del servizio, lasciata alla mercé dei suoi gestori (Comuni, concessionari, società partecipate) attraverso la “costruzione” di un piano finanziario-relazione tecnica sui vari, complessi fattori, attivi e passivi, del costo effettivo del servizio, le cui risultanze conclusive sono le tariffe, da onorare a piè di lista e senza riscontri da parte di organi tecnici esterni di controllo.
La prima regola da imporre è dunque quella di risolvere e sanare, a livello legislativo, le gravi carenze fin qui evidenziate.
Orbene, l’articolo 1, ai commi da 641 a 668, della legge di stabilità per il 2014 (Legge n. 147/2013), si occupa della disciplina della nuova tassa destinata a finanziare i costi del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti, denominata Tari e a carico dell’utilizzatore dell’immobile. La Tari è una articolazione, insieme alla Tasi, della componente servizi della nuova imposta unica comunale (cosiddetta Iuc). Nell’individuarne presupposto, obbligati, riduzioni ed esclusioni, il Legislatore si rifà al regime della Tares, che viene contestualmente abrogata. Tares che a sua volta ha lo stesso presupposto già previsto dal D. Lgs. n. 507/1993 in materia di TARSU (art. 62) e dal D. Lgs. n. 22/1997 in materia di TIA (art. 49, c. 3). Ciò premesso così il comma 641: “La Tari è dovuta da chiunque possieda o detenga a qualsiasi titolo locali o aree scoperte, a qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti urbani”.
Ecco che, con il passaggio dalla Tarsu/Tia alla Tares, e dal 2014 alla Tari, il tributo comunale sui rifiuti cambia nome ma non cambia nella sostanza, rendendo la pressione fiscale per le imprese del settore ricettivo sempre più gravosa.
Per quanto concerne la commisurazione in base a tariffa, così come per la TARSU, anche questo nuovo tributo è determinato in base a tariffa.
Ed infatti, l’art. 1, c. 650 della L. 147/2013 con una formulazione già utilizzata nella Tares (art. 14, c. 8, D.L. 201/2011) e nella previgente Tarsu (art. 64 del D.Lgs. 507/93), stabilisce che la tassa sui rifiuti Tari è corrisposta in base a tariffa commisurata ad anno solare, a cui corrisponde un’autonoma obbligazione tributaria. Il tributo è pertanto determinato applicando alla superficie tassabile dei locali e delle aree soggette la tariffa annuale approvata dal consiglio comunale (c. 683). Il tributo non presenta un’unica tariffa ma, una pluralità di tariffe diversificate sulla base delle tipologie di utenze domestiche e non domestiche e, relativamente a quest’ultime, tenendo conto delle categorie di attività con omogenea potenzialità di produzione di rifiuti.
In realtà le similitudini della Tari con i precedenti prelievi non finiscono qui. Ebbene la Tari si paga sulle superfici calpestabili degli immobili, anche a destinazione ordinaria, fino a quando i comuni non avranno la possibilità di fare riferimento alle superfici catastali. I contribuenti, però, non sono tenuti a ripresentare le dichiarazioni se hanno già assolto all’obbligo per Tarsu, Tia o Tares. Lo prevede l’articolo 1, commi 645, 646 e 647, della legge di stabilità (147/2013).
In sede di prima applicazione la nuova tassa rifiuti si paga sulla superficie calpestabile. Dunque, come per la Tares, viene rinviata sine die l’applicazione dell’80 per cento della superficie catastale per gli immobili a destinazione ordinaria (classificati nelle categorie A, B e C), come parametro per la determinazione del tributo. Pertanto viene consentito ai comuni di fare ricorso alle superfici già denunciate per Tarsu, Tia e Tares, utilizzando per il calcolo la superficie calpestabile anche per gli immobili a destinazione ordinaria.
Oltretutto, per quel che concerne la determinazione delle tariffe, il comune tiene conto dei criteri determinati con il regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1999, n. 158. In alternativa altro criterio ammesso è quello di cui al comma 652 della legge di Stabilità ovvero commisurare la tariffa alle quantità e qualità medie ordinarie di rifiuti prodotti per unità di superficie, in relazione agli usi e alla tipologia delle attività svolte nonché al costo del servizio sui rifiuti. In esercizio di tale criterio, il comune determina le tariffe per ogni categoria o sottocategoria omogenea moltiplicando il costo del servizio per unità di superficie imponibile accertata, previsto per l’anno successivo, per uno o più coefficienti di produttività quantitativa e qualitativa di rifiuti. Trattasi di un criterio già previsto per la Tares e che altro non è che quello previsto dall’art. 65 co.2 del D.Lgs. n.507/73 già applicabile, per facoltà, in regime di Tarsu. La tariffa, quindi non si suddivide in quota fissa e variabile e rimane unica in valore economico da applicare sulla superficie tassabile (€/mq). Pertanto, anche per la Tari potranno essere utilizzati (previa loro attualizzazione in coerenza con la efficienza della raccolta differenziata) quegli indici già calcolati ed utilizzati per la determinazione delle tariffe Tarsu, ovvero essere determinati solo per le Tari e nello specifico di quello di produttività (IPS) desunto dal rapporto tra la produttività quantitativa specifica, per unità di superficie di un determinato tipo di utilizzazione e la produzione media generale per unità di superficie nota (qs/qm) e di quello di qualità specifica (IQS) desunto dal rapporto tra costo di smaltimento, per unità di peso dei rifiuti prodotti dal tipo di utilizzazione considerata, ed il costo medio generale per unità di peso dei rifiuti.
Pertanto, alla luce di quanto sopra esposto relativamente alle molteplici similitudini della Tari con quelle in materia di Tarsu soprattutto per quel che concerne la determinazione delle tariffe, l’ente impositore, deve considerare la effettiva destinazione dei locali sottoposti a tributo e, quindi, distinguere tra i locali equiparabili alle utenze domestiche e quelli, invece, non assimilabili a queste ultime per quanto si dirà qui appresso.
2) ILLEGITTIMITA’ DELLA TARIFFA APPLICATA.
In proposito, l’art. 4 del D.P.R. del 27.04.1999, n. 158 (cui rinvia il comma 651 della legge n. 147/2013 istitutiva della Tari), prescrive che, la tariffa è calcolata tenendo conto della distinzione delle utenze in due fasce (domestica e non domestica): orbene deve a tal punto essere richiamato l’orientamento della giurisprudenza di merito secondo cui agli alberghi va applicata la tariffa relativa alle civili abitazioni per quanto concerne i locali destinati a stanze atte a ricevere gli ospiti e, invece, quella relativa a locali adibiti ad uso diverso da abitazione per le restanti parti dell’albergo (i.e. locali destinati alla ristorazione).
All’indicato orientamento si sono adeguati i Giudici della Commissione Tributaria Provinciale di Lecce con le sentenze n. 616/09/08 e n. 617/09/08, pronunciate in data 18 novembre 2008 e depositate il 9 dicembre 2008, e, da ultimo, con la sentenza n. 227/02/13, depositata il 9 luglio 2013 con cui hanno affermato che “Nel caso delle attività alberghiere appaiono sussistere aree aventi una diversa potenzialità produttiva di rifiuti: maggiore per le aree destinate a ristorazione, cucine ed altro, minore per le aree destinate alle unità abitative”. Ed in tal senso, le recentissime sentenze della CTR Foggia 825-6-7-8-9 del 7 aprile 2016 e 837 e 838 del 7 aprile 2016. In altre parole, pur ammettendo che alcune aree di un albergo possono essere caratterizzate da una maggiore potenzialità nella produzione dei rifiuti (si pensi alle cucine e al ristorante), lo stesso, però, non può dirsi delle camere che, a ben vedere, possono tranquillamente equipararsi, in termini di attitudine a produrre rifiuti, alle civili abitazioni.
Se, quindi, così come disposto dal comma 651 della Legge di stabilità ”Il comune nella commisurazione della tariffa tiene conto dei criteri determinati con il regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1999, n. 158”, è evidente che nella indicazione degli importi pretesi dal Comune in via commisurata a quelli dovuti a titolo di Tari si deve distinguere tra somme pretese con riferimento a locali equiparati ad utenze domestiche e somme riferite, invece, alle utenze non domestiche.
Oltretutto, occorre precisare che per i coefficienti potenziali di produzione il succitato DPR n. 158/1999 si basa esclusivamente su formule e sigle secondo espressioni numeriche incomprensibili, inidonee a motivare correttamente i risultati esposti e, soprattutto, a consentire al contribuente la verifica dell’esattezza e proprietà della somma pretesa.
Infatti, la Corte di Cassazione ha più volte chiarito che l’elemento della copertura totale del costo del servizio non può essere confuso con quello della determinazione dell’onere individuale da porre a carico degli utenti; oltretutto, la legge si limita a raccomandare la copertura integrale del costo complessivo del servizio, tacendo del tutto sui limiti per la determinazione delle tariffe individuali, in palese violazione del principio di legalità sancito dall’art. 23 della Costituzione. Appunto per questo, la Commissione tributaria provinciale di Lecce con la recente sentenza n. 1891 del 1giugno 2015 ha annullato una cartella di pagamento disapplicando il succitato regolamento con motivazioni valide anche per la TARI.
In ogni caso, si fa presente che il regolamento n. 158/1999, anche se in maniera presuntiva, ha stabilito per le utenze non domestiche coefficienti potenziali di produzione in Kg/mq anno che tiene conto della quantità di rifiuto minima e massima connessa alla tipologia di attività (tabella 4a per le attività in comuni superiori a 5.000 abitanti e tabella 4b per le attività in comuni fino a 5.000 abitanti).
Di conseguenza, se l’ente impositore procede ad individuare ed approvare in base al DPR n. 158/1999, lo stesso deve rispettare le condizioni, seppur presuntive, dello stesso regolamento e quindi non può genericamente ed immotivamente ripartire il costo in misura forfettaria al 50% per le attività domestiche e per quelle non domestiche, altrimenti si è di fronte ad una evidente violazione del principio europeo “chi inquina paga” che è alla base della TARI.
Alla luce di quanto detto va posta però attenzione alla giurisprudenza che è tuttora altalenante sull’obbligo delle amministrazioni locali di motivare le scelte tariffarie per il pagamento della Tari.
Ed infatti, da una parte per il Tar Latina (sentenza 486 del 21 luglio 2016), le tariffe Tari non richiedono la motivazione se i comuni applicano i coefficienti fissati dal regolamento statale per la determinazione della quota fissa e di quella variabile del tributo. Ciò perchè, la delibera che fissa le tariffe Tari non richiede «una particolare o specifica motivazione dato che si tratta di un atto generale». Altresì, laddove i ricorrenti lamentano che la tariffa stabilita per gli stabilimenti balneari non tiene conto della diversa attitudine alla produzione di rifiuti dell’arenile rispetto al chiosco e del carattere stagionale delle attività svolte, stabilisce il Tar «che la valutazione di questi elementi è per così dire insita nel metodo normalizzato, nel senso che i coefficienti previsti dalle tabelle allegate al dpr n. 158 per la determinazione della quota fissa e della quota variabile per gli stabilimenti balneari già tengono conto delle caratteristiche dell’attività». Quello che la legge impone all’amministrazione comunale è che nello scegliere il coefficiente per l’applicazione del metodo normalizzato «si mantenga all’interno del range previsto dalle tabelle» allegate al dpr 158/1999.
Nello stesso senso la Commissione tributaria regionale di Palermo, sezione XXV, sentenza n. 400 del 2 febbraio 2016, laddove le delibere comunali sono atti generali che non vanno necessariamente motivati e qualora non contengano una motivazione dettagliata dei costi del servizio di smaltimento rifiuti che giustifichi le tariffe adottate, non sono in contrasto con l’articolo 7 dello Statuto dei diritti del contribuente (legge 212/2000) e non sono sindacabili per eccesso di potere.
A favore del contribuente con orientamento contrario la decisione del Consiglio di stato (sentenza 5616/2010), che ha stabilito che il comune deve motivare la delibera che prevede un aumento delle tariffe Tarsu. E non può invocare genericamente la necessità di assicurare la tendenziale copertura totale della spesa, senza avere dati certi sullo scostamento tra entrate e costo del servizio.
Nello stesso senso la sentenza 504/2015 secondo cui il comune deve indicare nella delibera le ragioni che hanno comportato l’aumento delle tariffe della tassa rifiuti, con l’obiettivo di coprire integralmente i costi del servizio, ma è insindacabile la scelta di privilegiare le utenze domestiche rispetto alle attività produttive. Ed ancora, il Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia Romagna (sentenza 1056/2015), secondo cui la delibera che fissa le tariffe della tassa rifiuti deve essere motivata e deve indicare i costi di esercizio dell’anno precedente, le stime dell’anno di competenza, il gettito della tassa e le ragioni dell’eventuale aumento dei costi e delle tariffe.
14 settembre 2016
Maurizio Villani
Iolanda Pansardi