Sulla prescrizione dei reati tributari

secondo i giudici europei, la normativa italiana in tema di prescrizione dei reati può risolversi in un ostacolo all’efficace lotta contro le frodi in materia di Iva, in particolar modo nel settore delle frodi carosello

ct-facebookSecondo i giudici comunitari (sentenza Taricco dell’8 settembre 2016), la normativa italiana in tema di prescrizione dei reati può risolversi in un ostacolo all’efficace lotta contro le frodi in materia di Iva, in modo incompatibile con il diritto dell’Unione, in particolar modo nel settore delle frodi carosello.

Il Tribunale rimettente precisava che, nel caso di specie, nonostante l’interruzione della prescrizione, il termine della stessa non poteva essere prorogato, in applicazione del combinato disposto degli articoli 160, ultimo comma e 161 cp, oltre i sette anni e sei mesi, o, per i promotori dell’associazione per delinquere, oltre gli otto anni e nove mesi, a decorrere dalla data di consumazione dei reati.

Secondo il giudice del rinvio, gli imputati, accusati di aver commesso una frode in materia di Iva per vari milioni di euro, avrebbero dunque potuto beneficiare di un’impunità di fatto dovuta allo scadere del termine di prescrizione.

La durata del procedimento, cumulati tutti i gradi di giudizio, sarebbe, infatti, tale che, in casi complessi di questo tipo, l’impunità di fatto costituirebbe in Italia non un’evenienza rara, ma la norma.

La questione fondamentale è dunque se la normativa nazionale richiamata si risolva in un ostacolo all’efficace lotta contro le frodi in materia di Iva in Italia, in modo incompatibile con la direttiva Iva nonché, più in generale, con il diritto dell’Unione.

Infatti, osserva la Corte, se è pur vero che gli Stati membri dispongono di una libertà di scelta delle sanzioni applicabili, al fine di assicurare la riscossione di tutte le entrate provenienti dall’Iva e tutelare in tal modo gli interessi finanziari dell’Unione, conformemente alle disposizioni della direttiva Iva e all’articolo 325 del Tfue, possono, tuttavia, essere indispensabili sanzioni penali per combattere in modo effettivo e dissuasivo determinate ipotesi di gravi frodi, come la costituzione di un’associazione per delinquere allo scopo di commettere delitti in materia di Iva nonché una frode nella stessa materia per vari milioni di euro.

Ebbene, continua la Corte, dall’ordinanza di rinvio emergeva che le disposizioni nazionali di cui trattasi, introducendo una regola in base alla quale, in caso di interruzione della prescrizione per una delle cause menzionate all’articolo 160 cp, il termine di prescrizione non può essere in alcun caso prolungato di oltre un quarto della sua durata iniziale, hanno per conseguenza, date la complessità e la lunghezza dei procedimenti penali che conducono all’adozione di una sentenza definitiva, di neutralizzare l’effetto temporale di una causa di interruzione della prescrizione.

In questo senso, ricordano gli eurogiudici, qualora il magistrato nazionale giungesse alla conclusione che le disposizioni di cui trattasi non soddisfano gli obblighi del diritto dell’Unione relativi al carattere effettivo e dissuasivo delle misure di lotta contro le frodi all’Iva, detto giudice sarebbe tenuto a disapplicare, all’occorrenza, tali disposizioni.

Vista la sentenza del Tribunale del Lussemburgo, sarebbe dunque opportuno, anche per opportune condizioni di certezza del diritto, intervenire (solo per i reati fiscali dichiarativi e senza dunque interferenze con la riforma generale sulla prescrizione) su una modifica della prescrizione nei reati tributari.

Il d.lgs. n. 74 del 2000 non prevede infatti oggi specifici termini di prescrizione dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto; la relativa disciplina, pertanto, si ricava dai principi generali di cui agli articoli 157 e seguenti del codice penale.

La sola previsione speciale prevista per tali tipi di reati è quella di individuare atti interruttivi ulteriori rispetto a quelli elencati dall’art. 160 del codice penale, i quali sono stati tassativamente identificati nel verbale di constatazione e nell’atto di accertamento delle violazioni. Per quanto invece attiene alla sospensione dei termini di prescrizione, il dettato dell’art. 17 nulla dispone.

Perciò si ritengono valide le regole generali dettate dall’art.159 del codice penale.

La legge 148/2011 ha già inciso peraltro sulla disciplina oggi vigente, rispetto a quella già oggetto del giudizio comunitario, attenuando in parte il problema.

In particolare, per quanto di interesse, il regime della prescrizione ha subito un prolungamento.

All’art. 17 rubricato “interruzione della prescrizione” è stato infatti aggiunto il comma 1 bis che prevede che “i termini di prescrizione per i delitti previsti dagli articoli da 2 a 10 […] sono elevati di un terzo” (rispetto al precedente limite di un quarto).

La riforma ha inciso su buona parte delle fattispecie di reato previste dal d.lgs. 74/2000 (gli articoli da 2 a 10), restituendo due categorie di illeciti:

  1. quelli che si prescrivono in sei anni e che diventano sette anni e sei mesi per effetto dell’interruzione e sono, in particolare, i delitti di cui agli artt. 10 bis, 10 ter, 10 quater e 11,

  2. quelli che si prescrivono in otto anni (sei anni base elevati di un terzo), che diventano dieci anni per effetto dell’interruzione e sono, appunto, i delitti di cui agli artt. da 2 a 10.

Gli atti interruttivi del corso della prescrizione sono, come detto, quelli ordinari codificati all’art. 160 c.p. e, per espressa previsione legislativa (art. 17 d.lgs. 74/2000), anche il verbale di constatazione o l’atto di accertamento delle relative violazioni.

Con la sentenza n. 19538 dell’11 maggio 2015, inoltre, la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione è intervenuta chiarendo che il processo verbale di constatazione interrompe la prescrizione del reato anche se il verbale è stato redatto nei confronti di un altro soggetto (elemento importante nel caso delle frodi carosello tra soggetti che hanno emesso le fatture per operazioni inesistenti e soggetti che le hanno utilizzate). La causa interruttiva – sottolinea la Corte – ha pertanto carattere oggettivo, impersonale e non ricettizio. E’ sufficiente, infatti, che si tratti di un’attività nel corso della quale gli Uffici finanziari o la Guardia di Finanza prendano cognizione dell’esistenza del reato, con ciò manifestando la persistenza della volontà punitiva.

Non è vero dunque, a ben vedere, che la normativa è così “arrendevole”.

In ogni caso, laddove si volesse mettere mano al problema, si potrebbe partire da quella che era l’impostazione della vecchia Legge 516/82.

Ante decreto 74/2000, infatti, era prevista per i reati tributari una disciplina speciale in tema di prescrizione.

L’art. 9 del decreto 516/82 prevedeva, in particolare, in deroga all’art 157 cp, per alcuni reati contravvenzionali, un termine più ampio e ciò proprio in considerazione della complessità delle indagini necessarie ai fini dell’accertamento delle violazioni.

Per risolvere il problema della prescrizione nei reati fiscali si potrebbe dunque (re)introdurre una norma ad hoc, com’era nella vecchia legge n. 516/1982.

In conclusione, potrebbe essere opportuna una disposizione speciale nel D.Lgs. 74/2000, naturalmente solo per reati dichiarativi e accessori, come emissione fatture per operazioni inesistenti e distruzione contabilità (per quelli di riscossione e omesso versamento non ha infatti senso, perché lì il reato viene scoperto subito).

Andrebbe poi però allora messa, come contrappeso, una norma che specificasse che i reati tributari non possono mai essere considerati permanenti, neanche se si protrae l’inadempimento fiscale del contribuente. Altrimenti si ottiene l’effetto di renderli praticamente imprescrittibili. E onestamente si finirebbe per esagerare dalla parte opposta.

Basterebbe pertanto modificare l’art. 17, comma 1-bis del Dlgs 74/2000, stabilendo, per esempio, che “I termini di prescrizione per i delitti previsti dagli articoli da 2 a 10 del presente decreto sono elevati della metà” (rispetto all’attuale un terzo).

L’alternativa potrebbe invece essere stabilire un termine fisso di prescrizione, allungando così la prescrizione in maniera uguale per tutti i reati, prevedendo per esempio che i reati previsti dagli articoli da 2 a 10 del decreto 74/2000 si prescrivono in dieci anni, di modo che con le interruzioni diventano 12 anni e 6 mesi. Comunque termini congrui.

In effetti la previsione potrebbe essere molto utile.

Oltre al fatto che senza un intervento tempestivo, dopo la sentenza comunitaria ogni giudice nazionale si sentirà legittimato a disapplicare la disciplina del 74/2000 in tema di prescrizione, almeno nel caso di giudizi relativi a frodi Iva, la giustificazione costituzionale (in termini di eventuale disparità di trattamento rispetto ad altri reati puniti con pene analoghe e quindi considerati di analoga gravità) è fornita dalle particolari dinamiche di accertamento di quei reati.

La scoperta del reato avviene infatti strutturalmente in forte ritardo rispetto alla sua commissione perché in Italia le dichiarazioni, cui è connesso il reato, sono autoliquidate dal contribuente e lo Stato si deve fidare fino a prova contraria, cioè fino all’accertamento, che avviene di solito 4 anni dopo la presentazione della dichiarazione; il che pone i reati fiscali in una posizione molto diversa da quasi tutti gli altri reati, in cui magari c’è una vittima che denuncia o comunque organi di controllo esterni che monitorizzano la situazione in tempo reale e quindi intercettano subito il reato.

Intervenire potrebbe infine risolvere anche un possibile “rischio” di gestire conseguenze esclusivamente giurisprudenziali, anche dai forti effetti politici.

La sentenza della Corte di giustizia ha suscitato infatti reazioni contrastanti presso la giurisprudenza italiana.

Il giorno successivo alla decisione con la quale la terza sezione penale della Cassazione ha per la prima volta dato esecuzione alla sentenza della Corte di giustizia la Corte d’appello di Milano, con ordinanza del 18 settembre 2015, ha rimesso gli atti alla Corte costituzionale, invitandola espressamente ad opporre – per la prima volta nella storia della nostra giurisprudenza costituzionale – l’arma dei “controlimiti” alle limitazioni di sovranità nei confronti dell’ordinamento europeo.

Più in particolare, la Corte milanese ha ritenuto di percorrere la strada di sollevare questione di legittimità costituzionale sull’art. 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130 con cui viene ordinata l’esecuzione nell’ordinamento italiano del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona, nella parte in cui “discende l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli artt. 160 ultimo comma e 161 secondo comma c.p. in presenza delle circostanze indicate nella sentenza, anche se dalla disapplicazione discendano effetti sfavorevoli per l’imputato, per il prolungamento del termine di prescrizione, in ragione del contrasto di tale norma con l’art. 25, secondo comma, Cost.“.

Il possibile ‘controlimite’ rispetto al generale obbligo, per il giudice italiano, di dare applicazione ad una norma di diritto primario dell’Unione (l’art. 325 TFUE) così come interpretata dalla Corte di giustizia, viene dunque identificato dalla Corte d’appello nel principio di legalità in materia penale di cui all’art. 25 co. 2 Cost; principio considerato dal giudice a quo prevalente rispetto ai vincoli assunti dall’Italia nei confronti dell’ordinamento dell’Unione europea all’atto della sua adesione al medesimo.

A prescindere dunque da se la Corte dichiarerà inammissibile o meno la questione (come peraltro possibile) e dal se e come potrebbe decidere, è evidente che il rifiuto, oggi, del giudice italiano di conformarsi all’obbligo sancito dalla Corte significherebbe un’aperta sfida al principio del primato del diritto UE.

E questo in un momento non proprio “tranquillo” nei rapporti tra l’Italia e la comunità Europea.

Come detto, un intervento del legislatore potrebbe senz’altro agevolare la soluzione dell’impasse, rispettando al tempo stesso i principi di certezza della pena e certezza del diritto.

2 giugno 2016

Giovambattista Palumbo