La discplina delle verifiche sui conti black list

di Giovambattista Palumbo

Pubblicato il 22 febbraio 2016

dopo la contestazione della violazione relativa ad un'operazione con un Paese black-list (o paradiso fiscale) si deve ritenere preclusa ogni possibilità di regolarizzazione dato che, ove fosse possibile procedere alla correzione della dichiarazione sino al momento dell'accertamento, tale correzione si trasformerebbe in un mezzo per eludere le sanzioni?

Dopo la contestazione della violazione è preclusa ogni possibilità di regolarizzazione, dato che, ove fosse possibile procedere alla correzione della dichiarazione sino al momento dell'accertamento del maggior reddito, la correzione stessa cesserebbe di essere un rimedio per ovviare ad un errore per trasformarsi in un mezzo elusivo delle sanzioni.

Così si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 14999 del 17.07.2015, con la quale i giudici evidenziano che l'ammissibilità della possibilità di emenda "ex post" all’accesso, ispezione e verifica si porrebbe in contrasto, oltre che con il principio di effettività della sanzione, anche con i principi di efficienza e buon andamento, vanificando le attività ispettive e di controllo svolte dagli Uffici finanziari e demandando al contribuente la scelta di evidenziare o meno nella dichiarazione fiscale i costi relativi ad operazioni indicate dal Legislatore come sospette, consentendo così di sanare ex post l’irregolarità mediante presentazione di una dichiarazione integrativa, con evidenti effetti pregiudizievoli sullo scopo antielusivo della norma e sulla stessa efficacia dei controlli.

L'Agenzia delle Entrate, comunque, con la Risoluzione n. 12/E del 17 gennaio 2006, aveva già voluto venire incontro ai contribuenti inadempienti, ritenendo possibile la presentazione di una dichiarazione correttiva, la quale, attraverso la separata indicazione dei costi per operazioni con imprese residenti in paradisi fiscali, ponesse rimedio alla precedente omissione.

La sola (necessaria e logica) condizione per usufruire di tale “sanatoria” era (ed è) però che non fossero iniziati accessi, ispezioni, verifiche o altre attività amministrative di accertamento nei confronti dello stesso contribuente.

In tal caso del resto parlare di buona fede (laddove, si ripete, lo scopo della disciplina è quello di agevolare l’attività investigativa dell’Ufficio) a cui venire incontro non avrebbe alcun senso (una volta cominciata l’attività investigativa e rinvenute le operazioni non indicate in dichiarazione, che senso avrebbe infatti una sanatoria del genere: per premiare la “furbizia” di chi è stato colto in flagranza di omissione?).

Per quanto riguarda poi la disciplina sostanziale, l'intenzione del legislatore, con le modifiche di cui alla L. 296/2006, era quella di consentire al contribuente di poter dedurre i costi effettivamente sostenuti, seppur nell'ambito di operazioni intercorse con soggetti operanti in aree fiscalmente sospette, e all’Erario di veder assicurata un'efficace azione di controllo.

La ratio dell'innovazione legislativa, concludono i giudici di legittimità nella sentenza sopra citata, induce peraltro a concludere per l'applicazione retroattiva anche all'abolizione del regime di assoluta indeducibilità dei costi non separatamente indicati.

Peraltro, pur nell’ambiguità del complessivo contesto normativo, a conforto della soluzione indicata depone la proposizione dell'art. 1, comma 303, 1. 296/2006, che, in esito all'affermazione dell'efficacia retroattiva della sanzione di cui all'art. 8, comma 3 bis, d.lgs. 471/1997, introdotto dal precedente comma 302, in ipotesi di mancata indicazione separata dei costi black list tuttavia comprovati nella loro effettività, dispone che "Resta ferma in tal caso l'applicazione della sanzione di cui all'articolo 8, comma I, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471".

La norma prevede quindi, indubitabilmente, per le sole violazioni dell'obbligo di separata indicazione riferibili a situazioni di diritto transitorio, il cumulo della sanzione proporzionale del 10% (entro limiti prescritti), disposta dal sopravvenuto comma 3 bis, con la sanzione, definita nel minimo e nel massimo, di cui al comma I dell'art. 8 d.lgs. 471/1997 e, trovando ragion d'essere solo sul presupposto dell'estensione della retroattività anche all'abolizione del previgente regime d'indeducibilità, la legittima a sua volta, finendo, così, con il costituire clausola di chiusura dell'intera disciplina.

L'art. 110, c. 10, del Tuir, almeno nella versione fino ad oggi vigente, prima dell’intervento del decreto internazionalizzazione appena licenziato dal Consiglio dei Ministri, prevedeva dunque che "non sono ammessi in deduzione le spese e gli altri componenti negativi derivanti da operazioni intercorse tra imprese residenti ed imprese domiciliate fiscalmente in Stati o territori non appartenenti all'Unione europea aventi regimi fiscali privilegiati ...".

Subito dopo, il comma 11 dell'art. 110, consentiva però la disapplicabilità della norma di sfavore, a condizione che il contribuente italiano fosse in grado di provare, alternativamente, la sussistenza di una delle due circostanze esimenti rappresentate, rispettivamente:

  • dallo svolgimento prevalente, da parte dell'impresa estera, di un'attività commerciale effettiva;

  • ovvero dalla rispondenza delle operazioni, le quali devono avere avuto concreta attuazione, ad un effettivo interesse economico dell'impresa italiana.

Per tale categoria di costi, pertanto, la regola generale era l’indeducibilità, fatta salva la possibilità di ottenerne la disapplicazione con l'assolvimento di due adempimenti:

  • il primo, di natura dichiarativa, rappresentato dalla doppia indicazione dell'ammontare complessivo tra le variazioni in aumento ed in diminuzione nel modello di dichiarazione dei redditi;

  • il secondo, sostanziale, consistente nella dimostrazione di ricadere in una delle due fattispecie esimenti indicate dalla norma.

Il contribuente doveva dunque dimostrare, in alternativa, che:

- il soggetto estero svolgeva prevalentemente un'attività commerciale effettiva;

- che le operazioni poste in essere corrispondevano ad un effettivo interesse economico e (e, non o, [l’alternativa era solo riferita alla prima previsione]) che le stesse operazioni avessero avuto concreta esecuzione.

L'ultimo periodo del comma 7-ter e del corrispondente comma 11, infine precisa(va) che la deduzione delle spese "è comunque subordinata alla separata indicazione nella dichiarazione dei redditi dei relativi ammontari dedotti".

Tale periodo è stato però poi soppresso dall'art. 1, c. 301, lett. b, L. 27 dicembre 2006, n. 296, in vigore dall'1 gennaio 2007.

L’art. 1, c. 301, lett. a, L. 27 dicembre 2006, n. 296, anch’esso in vigore dall'1 gennaio 2007, ha dunque aggiunto il seguente periodo “Le spese e gli altri componenti negativi deducibili ai sensi del primo periodo sono separatamente indicati nella dichiarazione dei redditi”.

L’indicazione in dichiarazione dei costi di cui al comma 10 dell’articolo 110 del Tuir resta quindi un obbligo, ma la mancata indicazione non comporta più, come ribadisce la Cassazione anche nella sentenza in commento, la (automatica) indeducibilità dei costi non indicati, ma una ben più ridotta sanzione.

Sotto il profilo sanzionatorio è stato infatti aggiunto il comma 3-bis all'art. 8 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, il quale prevede che, se l'omissione o l'incompletezza concerne l'indicazione delle spese e degli altri componenti negativi in questione, si applica una sanzione amministrativa pari al 10 per cento dell'importo complessivo dei componenti negativi non indicati nella dichiarazione, con un minimo di euro 500 ed un massimo di euro 50.000.

La nuova sanzione sarà applicabile anche alle violazioni commesse (ma non ancora contestate) fino al 31 dicembre 2006 per le quali però è prevista anche l'applicazione dell'ulteriore sanzione da 58,2 a 2.065,8 euro, prevista dall'art. 8, comma 1, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471.

Con tale previsione pertanto il legislatore ha inteso imporre al contribuente, interessato ad ammettere rilevanza fiscale dei costi derivanti da operazioni intercorse con imprese residenti in paradisi fiscali, l'onere di segnalare l'esistenza di operazioni potenzialmente sospette, rimettendo all'Amministrazione Finanziaria la facoltà di approfondire il controllo con la richiesta di provare la sussistenza di almeno una delle due specifiche esimenti.

Con l’approvazione del decreto attuativo “Misure per la crescita e l'internazionalizzazione delle imprese”, in attuazione dell'articolo 12 della L. 23/2014 (Delega fiscale), si apporta ora, come detto, una sorta di restyling della disciplina, riconoscendo in sostanza la deducibilità dei costi black-list entro il limite del valore normale di beni e servizi acquistati in base a operazioni che hanno avuto concreta esecuzione. Inoltre si prevede la possibilità di dedurre i suddetti costi a prescindere dalla circostanza che l’impresa estera svolga prevalentemente un’attività commerciale effettiva.

Con la nuova proposta normativa viene dunque ora stabilito che tali tipi di costi restano comunque in parte “automaticamente” deducibili (nei limiti del loro valore normale), anche laddove intercorsi con Paesi black list e senza dimostrazione delle esimenti.

Deducibilità che diviene anche integrale laddove si dimostri che l'operazione ha avuto concreta esecuzione e che risponde ad un effettivo interesse.

La prima esimente dello svolgimento prevalente da parte dell'impresa estera di un'attività commerciale effettiva dunque scompare.

Fino ad oggi invece la deduzione dei costi era ammessa in via di eccezione solo se il contribuente esibiva la prova che le imprese estere svolgevano una prevalente attività commerciale effettiva (nota bene che le cose da dimostrare erano in realtà tre: lo svolgimento all'estero di un'attività di tipo commerciale, che fosse effettiva e che fosse prevalente), ovvero che le operazioni poste in essere rispondevano a un effettivo interesse economico e avevano avuto concreta esecuzione.

Mentre dunque la prova della concreta esecuzione è molto semplice e poco significativa (basta la bolletta doganale), quel che resta è oggi la necessità della dimostrazione dell'effettivo interesse economico (a svolgere quell'operazione con quella società con sede nel paradiso fiscale, per intendersi).

La scelta imprenditoriale deve avere, quindi, una valida giustificazione di tipo economico a beneficio dell'attività esercitata con riferimento, in particolare, "all'entità del prezzo praticato, la qualità dei prodotti forniti e la tempistica e puntualità della consegna", cioè al valore normale.

Quel valore normale nei cui limiti la nuova norma riconosce ex se la deducibilità del costo, anche in assenza di ogni prova di esimente.

Ma se la deducibilità viene già consentita nei limiti del valore normale e se questo valore normale (cioè quanto sarebbe stato il costo effettivo dell'operazione in condizioni di libera concorrenza) corrisponde in sostanza alla prova che il contribuente dovrebbe fornire per avere la piena deducibilità del costo, cosa rischia il contribuente "infedele"?

Male che gli vada deduce comunque il costo che avrebbe dedotto se fosse andato (senza fini fiscali reconditi) a comprare i bottoni a Berlino invece che ad Hong Kong (senza possibilità di gonfiarli artatamente per dedurre di più in Italia e farsi un tesoretto esentasse nel paradiso fiscale).

La ratio della norma è infatti contrastare il contribuente che va a comprare i bottoni ad Hong Kong in quanto così gonfia i costi dei bottoni acquistandoli da una società creata ad hoc a lui riconducibile (magari tramite fiduciaria) e invece che dedursi in Italia 10 (quanto sarebbero effettivamente costati) si deduce 50 (mandando 40 di maggiore ricavo nella sua società off shore).

Sorgono del resto altri due problemi “operativi”.

Il primo: il valore normale di cui abbiamo parlato prima a che mercato fa riferimento?

Il secondo: l'effettivo interesse economico a che mercato fa riferimento?

A un Paese dell'Unione Europea o dello spazio economico europeo, oppure ad un paese economicamente comparabile con Hong Kong (anche in termini di spese di trasporto, costo del lavoro etc), come per esempio la Cina? Come logico i valori “normali” a seconda del mercato di riferimento sono ben diversi.

Niente viene a tal proposito specificato nella norma, laddove su questo si gioca peraltro la gran parte dei contenziosi attualmente pendenti.

Per l'Amministrazione è infatti irrilevante cercare di dimostrare che le operazioni contestate hanno comportato costi inferiori a quelli richiesti da aziende italiane o europee (troppo facile), non costituendo una simile circostanza una prova idonea a superare la presunzione legale.

L'interesse economico oggetto di dimostrazione (così come anche il valore normale), quindi, andrebbe valutato in relazione alla motivazione per la quale era stata scelta, come partner commerciale, proprio una società sita in un paradiso fiscale, anziché un'altra, magari anch'essa localizzata in un Paese economicamente vantaggioso (per costo del lavoro etc), ma non catalogato come paradiso fiscale (sempre nell'esempio di Hong Kong, la Cina o la Corea del sud, o altri Paesi della medesima area geografica non costituenti paradisi fiscali).

Insomma la norma non è scritta in modo del tutto chiaro, laddove non definisce esattamente il concetto di valore normale (in tale contesto non è sufficiente, per quanto sopra detto, il richiamo all'art. 9 del Tuir, dovendosi individuare il mercato di riferimento - basterebbe fare per esempio riferimento al mercato economicamente comparabile, come peraltro da sentenze della giurisprudenza nazionale), né il concetto di effettivo interesse economico, vero fulcro dell'intera fattispecie.

22 febbraio 2016

Giovambattista Palumbo