TARSU alberghi: è possibile la maggiorazione rispetto alla tariffa degli appartamenti?

una recente sentenza di Cassazione si pone contro le sentenze di merito e afferma che i Comuni possono legittimamente proporre per gli alberghi una tariffa ai fini TARSU più elevata rispetto a quella delle civili abitazioni

E’ legittima la delibera comunale di approvazione del regolamento e delle relative tariffe TARSU, nella quale la categoria degli esercizi alberghieri viene distinta da quella delle civili abitazioni ed assoggettata ad una tariffa superiore.

Infatti, come spiega il massimo giudice di legittimità nella sentenza n. 4797 del 20 febbraio 2014, ispirandosi a Cass. n. 5732/2007, “la maggiore capacità produttiva di rifiuti di un esercizio alberghiero rispetto ad una civile abitazione costituisce un dato di comune esperienza, emergente da un esame comparato dei regolamenti comunali in materia ed assunto quale criterio di classificazione e valutazione quantitativa della tariffa anche dal D. Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, senza che assuma rilievo il carattere stagionale dell’attività, il quale può eventualmente dar luogo all’applicazione di speciali riduzioni d’imposta, rimesse alla discrezionalità dell’ente impositore”.

 

Non si tratta di un intervento isolato, considerato che al medesimo principio si uniforma anche la sentenza n. 12859, depositata il 23 luglio 2012, così contribuendo a legittimare i Comuni che determinano tariffe maggiorate per le attività alberghiere, potenzialmente più produttive di rifiuti delle abitazioni.

Sulla vexata quaestio emerge da tempo un contrasto fra legittimità e merito: infatti, molte pronunce delle Commissioni tributarie (sia di prima che di seconda istanza) fanno registrare una vittoria dei contribuenti, poi “ribaltata” nel giudizio di legittimità nel quale continua ad essere ribadito il principio che alberghi e abitazioni vanno inseriti in categorie diverse, stante la diversa attitudine alla produzione dei rifiuti, sensibilmente maggiore negli esercizi commerciali rispetto alle utenze private.

Le norme di riferimento per approfondire la questione vanno individuate nell’art. 65 del D. Lgs. n. 507/1992 e nell’art. 68 dello stesso decreto. Il primo stabilisce i criteri di commisurazione delle tariffe, collegati alla quantità ed alla qualità dei rifiuti producibili sulle superfici imponibili, fermo restando che i Comuni dovranno motivare adeguatamente la determinazione delle tariffe in relazione all’uso dell’immobile, cui si correla una maggiore o minore attitudine a produrre rifiuti. L’art. 68, invece, dispone sull’attività regolamentare che deve essere svolta dall’ente locale per dare concreta applicazione alla TARSU e che obbliga i Comuni ad adottare apposito regolamento che, fra l’altro, deve contenere “la classificazione delle categorie ed eventuali sottocategorie di locali ed aree con omogenea potenzialità di rifiuti e tassabili con la stessa misura tariffaria”. Il comma successivo richiama gli enti locali a tenere conto, nella classificazione delle categorie e nello stabilire le tariffe per ciascuna di esse, del criterio di omogeneità e, quindi, a comprendere in ciascuna di esse soltanto i locali e le aree che presentino analoga attitudine a produrre rifiuti, con riferimento alle caratteristiche peculiari delle singole attività (“L’articolazione delle eventuali sottocategorie è effettuata, ai fini della determinazione comparativa delle tariffe, tenendo conto di alcuni gruppi di attività o di utilizzazione”). Lo stesso comma, inoltre, si premura di fornire una casistica (seppure “in via di massima” precisa, con infelice ed approssimativa espressione, il legislatore), riunendo in un’unica categoria, le seguenti attività: “locali ed aree ad uso abitativo per nuclei familiari, collettività e convivenze, esercizi alberghieri”.

A ciò si aggiunga il fatto, tutt’altro che secondario, che l’art. 65 del D. Lgs. n. 507/1993, al primo comma, consente la commisurazione della TARSU “in base alla quantità e qualità medie ordinarie per unità di superficie imponibile dei rifiuti solidi urbani interni ed equiparati producibili nei locali e nelle aree per tipo di uso, cui i medesimi sono destinati”, nell’impossibilità di poter esattamente quantificarne la produzione in relazione alle diverse destinazioni dell’immobile.

Orbene, nel caso delle attività alberghiere, è di tutta evidenza che possono sussistere, nel medesimo immobile, aree aventi una diversa potenzialità produttiva di rifiuti: maggiore per le aree destinate a ristorazione, cucine ed altro, minore per le aree destinate alle unità abitative. Ciò porterebbe a ritenere equa una diversa tassazione delle aree destinate ad uso abitativo rispetto a quelle destinate alla ristorazione et similia ed effettivamente verso tale conclusione conducono, ad esempio, le sentenze della CTP di Lecce del 03/11/2010, n. 629 e n. 329 dell’8/10/2013, ma anche le sentenze CTR Bari n. 71/72/73 del 4/6/2012 (contra, cfr. CTR Sicilia n. 163 del 19.12.2011).

Ad opposte conclusioni addiviene, invece, il Ministero delle Finanze con la ris. n. 156/E/1998 a proposito degli appartamenti adibiti a “casa vacanza” (150 appartamenti/residence nell’ambito di un fabbricato destinato anche ad albergo). La nota di prassi precisa che tali strutture, nelle quali si esercita l’attività ricettiva e turistica, “devono rispondere ai requisiti igienico-sanitari previsti dallanormativa vigente in materia ed ai regolamenti comunali e la gestione diqueste unita’ abitative necessita della preventiva autorizzazione da parte delcomune e dell’iscrizione dei titolari o gestori della suddetta attività nellasezione speciale dei Registri degli esercenti”. Osserva, dunque, il Ministero che “Le unità abitative in questione rientrano pertanto in una vera epropria attività imprenditoriale, tenuto anche conto che nella specie,secondo quanto riportato nella nota in riferimento, risultano compresi nelcorrispettivo ulteriori servizi (oltre quelli minimali e quelli forniti dietropagamento obbligatorio di una quota per persona), nonchè dellecaratteristiche strutturali e ulteriori servizi (oltre quelli minimali equelli forniti dietro pagamento obbligatorio di una quota per persona) nonchè delle caratteristiche strutturali e di gestione sopramenzionate, percui non possono considerarsi oggetto di mero contratto di locazione peraltro di durata inferiore al periodo (anno) cui si riferisce la tassa”. I tecnici delle Finanze concludono ritenendo che gli appartamenti adibiti a casa per vacanze, nell’ambito di un’organizzazione turistica imprenditoriale ed ai fini dell’applicazione della TARSU, “devono essere inseriti in categoria diversa da abitazioni private trattandosi di una prestazione di carattere affine a quella dell’affittacamere o alberghiera e non di locazione di alloggio ad uso abitazione”.

 

Alla opposta tesi sostenuta dai giudici di merito, a favore di un diverso “peso” da attribuire alle superfici di una struttura alberghiera, in ragione della diversa destinazione commerciale, osterebbe anche il principio della c.d. “unitarietà della tariffa”, che si rinviene nella costante prassi delle Finanze1 ed è comunque ricavabile dal combinato disposto degli artt. 65, 68 e 69 del D. Lgs. n. 507/1993 in forza del quale, nel caso di superfici con destinazioni d’uso diverse, ma facenti parte di un unico compendio funzionalmente organizzato, va applicata la tariffa unitaria prevista dal regolamento comunale per l’attività interessata, utilizzando il criterio della prevalenza ed assorbenza dell’attività principale rispetto a quelle accessorie. Dunque, per quanto riguarda i diversi locali degli alberghi (settore abitativo, settore ristorativo, garage…), dovrebbe applicarsi una tariffa unica che tenga opportunamente conto dell’incidenza sulla superficie complessiva delle superfici a bassa produttività di rifiuti.

Verso la medesima direzione va anche la ris. n. 138/1999, la quale chiarisce che “per ogni complesso unitario va prevista una tariffa unica, tenendo ovviamente conto dell’apporto dei singoli reparti o ripartizioni interne alla produttività quantitativa e qualitativa ordinaria di rifiuti. In alternativa può essere prevista l’articolazione in più categorie della medesima attività o uso, che presentino particolari superfici operative non costantemente presenti nella tipologia di attività o uso (ad es. aree espositive con rilevante incidenza sulla superficie complessiva, alberghi con o senza ristorazione, abitazioni con o senza garage ecc.)”.

Come affermato più volte dalla giustizia amministrativa (Consiglio di Stato n. 750/2009 e n. 10658/2006) e dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 8278 e 8274 del 2008), l’ente locale gode di ampia discrezionalità nella determinazione delle tariffe, in funzione dei costi del servizio che è tenuto ad assicurare e del grado di copertura che intende attuare nei limiti di legge2. La legittimità o meno del regolamento di adozione delle tariffe, quindi, non discende dalla differenza tra le aliquote applicate a ciascuna categoria, ma dalla relazione fra le tariffe ed i costi del servizio, secondo le previsioni dell’art. 65 del decreto stesso, che obbliga i Comuni a motivare adeguatamente la determinazione delle tariffe, in relazione all’uso dell’immobile ed ai criteri ivi contenuti, tenuto conto che il dettato normativo (ma anche le successive “evoluzioni” della legislazione sui rifiuti) si fonda sul principio di correlatività tra i rifiuti prodotti e la tassa applicata.

30 aprile 2014

Valeria Fusconi

 

1 Cfr. ex multis, ris. n. 149/1998, circ. n. 95/1994, ris. n. 8/1989.

2L’articolo 61 del D. Lgs. n. 507/93 stabilisce che il gettito complessivo della tassa non può superare il costo di esercizio del servizio, ne’ può essere inferiore, a seconda dei casi, alle seguenti misure: a) 100% (copertura integrale) per gli enti in dichiarato stato di dissesto finanziario; b) 70% per gli enti soggetti a controllo perché in situazioni strutturalmente deficitarie; c) 50% per tutti gli altri enti. Il costo di esercizio del servizio è comprensivo delle spese di acquisto di beni e servizi, degli oneri diretti ed indiretti, compresi i costi del personale, nonché delle quote di ammortamento, calcolate a mente dell’art. 67 del DPR n. 917/1986.