Operazioni antieconomiche: il problema dell'IVA

in caso di accertamento basato sulla contestazione di operazioni antieconomiche, non è detto che i maggiori risultati accertati per le imposte dirette generino un accertamento anche per quanto riguarda l’IVA

Con la sentenza n. 22130 del 27 settembre 2013 (ud. 8 aprile 2013) la Corte di Cassazione ha affermato che l’antieconomicità è senza Iva.

 

IL FATTO

L’Agenzia delle Entrate recuperava a tassazione l’IVA per il periodo di imposta 2001, oltre accessori e sanzioni, nei confronti della ditta Alfa, in dipendenza di costi relativi ad operazioni poste in essere con la società Beta, ritenute prive dei requisiti di economicità.

 

LA SENTENZA

La Corte rileva che viene posta alla sua attenzione la questione concernente la legittimità dell’operato dell’amministrazione finanziaria che provvede alla rettifica delle dichiarazioni dei contribuenti considerando antieconomiche determinate scelte imprenditoriali, in base al principio secondo cui, chiunque svolga un’attività economica dovrebbe, secondo l’id quod plerumque accidit, indirizzare le proprie condotte verso una riduzione dei costi ed una massimizzazione dei profitti, in tal modo valutando negativamente, ai fini fiscali, le condotte improntate all’eccessività di componenti negativi o all’immotivata compressione di componenti positivi di reddito.

Con specifico riferimento alle imposte sui redditi, la sentenza afferma che la Corte “ha reiteratamente riconosciuto che rientra nei poteri dell’amministrazione finanziaria la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni e la rettifica di queste ultime, anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi degli atti giuridici compiuti nell’esercizio d’impresa, con negazione della deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa – cfr.Cass. n. 12813/2000 (con riferimento all’ILOR); Cass. n. 9497/2008 e Cass. n. 3243/2013, Cass. n. 1711/2007 (con riferimento all’IRPEG); Cass. n. 7487/2002; Cass. n. 10802/2002; Cass. n. 5463/2003; Cass. n. 398/2003; Cass. n. 19150/2003”.

Osserva la Corte che, “alla base di questo indirizzo vi è il convincimento che in presenza di un comportamento assolutamente contrario ai canoni dell’economia, rimasto inspiegato da parte del contribuente, è pienamente legittimo l’accertamento ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d). Ragion per cui il giudice di merito che giunga a ritenere illegittimo l’accertamento è tenuto a specificare, con argomenti validi, le ragioni per le quali ritiene che l’antieconomicità del comportamento del contribuente non sia sintomatica di possibili violazioni di disposizioni tributarie – Cass. n. 1821/2001“.

La Corte è dunque chiamata a verificare la possibilità ed eventualmente i limiti entro i quali è possibile estendere i principi giurisprudenziali testè affermati al tributo IVA.

Innanzitutto, afferma la Suprema Corte, non è possibile “applicare direttamente ed automaticamente i principi espressi in tema di imposizione diretta con riguardo al tema dell’antieconomicità all’interno dell’IVA, a ciò ostando la particolare natura del tributo da ultimo descritto, tutto correlato al principio di neutralità che si esprime attraverso il riconoscimento ad ogni fornitore o prestatore di servizio che ha corrisposto l’IVA per l’acquisto di beni o servizi di detrarre l’IVA relativa ai costi sostenuti secondo il noto meccanismo della detrazione. Infatti, il sistema delle detrazioni è inteso ad esonerare interamente l’imprenditore dall’IVA dovuta o pagata nell’ambito di tutte le sue attività economiche. Il sistema comune dell’IVA garantisce, in tal modo, la neutralità dell’imposizione fiscale per tutte le attività economiche, indipendentemente dallo scopo o dai risultati delle dette attività, purchè queste siano, in linea di principio, di per sè soggette all’IVA (v., segnatamente, sentenze Gabalfrisa e a., cit., punto 44; 21 febbraio 2006, Halifax e a., C-255/02, Racc. pag. I 1609, punto 78, nonchè Mahagèben e David, cit., punto 39;Corte giust. 6 settembre 2012, C-324/1 l.Gabor Toth, p. 24“.

La Corte di Giustizia ha sottolineato “la centralità del diritto di detrazione nel meccanismo dell’IVA, diritto che, in linea di principio, non può subire limitazioni, essendo inteso ad esonerare interamente l’imprenditore dall’IVA dovuta o pagata nell’ambito delle sue attività economiche. Ed è proprio questo meccanismo a consentire la perfetta neutralità dell’imposizione fiscale che si interrompe allorchè il bene o servizio viene reso al consumatore finale”.

La Corte Europea ha altresì affermato che “la circostanza che un’operazione economica sia effettuata ad un prezzo superiore o inferiore al prezzo di costo, e dunque a un prezzo superiore o inferiore al prezzo normale di mercato, è irrilevante (v., Corte giust. 20 gennaio 2005, causa C-412/03, Hotel Scandio Gasaback, punto 22)”.

E, “si è, nella medesima direzione, precisato che qualora beni e servizi siano forniti a un prezzo artificialmente basso o elevato fra parti che godono entrambe interamente del diritto a detrazione dell’IVA, non può sussistere, in tale fase, alcuna elusione o evasione fiscale. E’ solo a livello del consumatore finale che un prezzo artificialmente basso o elevato può comportare una perdita di gettito fiscale – cfr. Corte giust. 26 aprile 2012, cause riunite C-621/10 e C-129/11, Balkan p. 47“.

Inoltre, il sistema di tassazione diretta, nel suo complesso, non ha alcun rapporto con quello dell’IVA, e pertanto “non può ritenersi che una soluzione a livello di normativa sull’IVA diversa da quella espressa per i tributi diretti crei un vulnus ai principio di non discriminazione – cfr. Corte giust. 17 marzo 2007, causa C-35/05”.

Ritiene, quindi, il collegio “che in condizioni normali non sia consentito all’amministrazione di rideterminare il valore delle prestazioni e dei servizi acquistati dall’imprenditore escludendo il diritto a detrazione per le ipotesi in cui il valore dei beni e servizi sia ritenuto antieconomico e dunque diverso da quello da considerare normale o comunque sia tale da produrre un risultato antieconomico. Tale verifica l’amministrazione potrà solamente fare allorchè la riscontrata antieconomicità rilevi quale indizio di non verità della fattura, nel senso di non verità dell’operazione, oppure di non verità del prezzo o, ancora, di non esistenza dell’inerenza e cioè della destinazione del bene o del servizio acquistati ad essere utilizzati per operazioni assoggettate ad IVA. Se dunque l’amministrazione riesce a dimostrare l’antieconomicità manifesta e macroscopica, come tale esulante dal normale margine di errore di valutazione economica, spetterà all’imprenditore dimostrare che la prestazione del bene o del servizio presenta omunque le caratteristiche per ritenersi reale ed inerente rispetto all’attività svolta”.

L’antieconomicità può costituire indizio di abuso del diritto che presuppone un uso “artificioso” di una forma giuridica e cioè l’uso concreto di essa non per l’affare per il quale essa è tipicamente prevista, ma per uno scopo diverso, univocamente ed esclusivamente rivolto a perseguire un indebito risparmio fiscale.

Ed invero, è noto che integra gli estremi del comportamento abusivo quell’operazione economica che, tenuto conto sia della volontà delle parti implicate che del contesto fattuale e giuridico, ponga quale elemento predominante ed assorbente della transazione lo scopo di ottenere vantaggi fiscali, con la conseguenza che il divieto di comportamenti abusivi non vale più ove quelle operazioni possano spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi di imposta(Cass. n. 1465/09; v. anche Cass. n. 8772 e 10257/08; Cass. n. 20029/2010). Analogamente, si è ritenuto che in materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio di imposta, in difetto di ragioni economiche apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse alla mera aspettativa di quei benefici. Ne consegue che il carattere abusivo di un’operazione va escluso quando sia individuabile una compresenza, non marginale, di ragioni extrafiscali, che non si identificano necessariamente in una redditività immediata dell’operazione medesima ma possono rispondere ad esigenze di natura organizzativa e consistere in un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda – cfr. Cass. n. 1372 del 21/01/2011; cfr. altresì, Cass. n. 10807 del 28/06/2012 -. Ed è parimenti assodato che la prova sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, incombe sull’Amministrazione finanziaria, mentre grava sul contribuente l’onere di allegare la esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di reale spessore che giustifichino operazioni in quel modo strutturate”.

 

18 novembre 2013

Roberta De Marchi