Ammissibilità dei ricorsi di ultima istanza: ulteriori interventi della Cassazione

la Cassazione sembra oramai orientarsi verso una lettura delle norme processuali improntata a rendere marginali e residuali le pronunce in rito, contenenti sanzioni di inammissibilità o di decadenza del ricorso

Il giudice di legittimità sembra oramai orientarsi verso una lettura delle norme processuali improntata a rendere marginali e residuali le pronunce in rito, contenenti sanzioni di inammissibilità o di decadenza che finiscono con il gravare in capo ad una parte e pregiudicano l’esame ulteriore della domanda.

Ne è un esempio la sentenza n. 10648 del 2 maggio 2017, con la quale le Sezioni Unite civili si sono pronunciate sulla improcedibilità (o meno) del ricorso, ex art. 369, c. 2, n.2 c.p.c. nell’ipotesi di mancata produzione, da parte del ricorrente, della relata di notifica della sentenza tuttavia prodotta dal controricorrente; lo stesso organo ha esaminato anche il caso della validità (o meno) della procura alle liti, posta a margine di un atto e indicante il nome di un difensore, diverso da quello espresso in epigrafe, correlato ad altro difensore, autenticante però del mandato e sottoscrittore dell’atto .

Il primo quesito e la sua soluzione

Ebbene, in ordine alla prima problematica, nonostante l’indirizzo più recente sembrava consolidarsi verso una conclusione di estremo rigore, cioè statuente l’improcedibilità del ricorso, le Sezioni Unite hanno ritenuto di aderire alle motivazioni , sollevate dalla Prima sezione a sostegno della “richiesta” di mutamento giurisprudenziale ed incentrate sul richiamo della circostanza che l’art. 6, p. 1, della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo tutela “il diritto a un tribunale” ed il connesso diritto di accesso.

Lo stesso collegio remittente, a tal proposito ,infatti, aveva sottolineato che il diritto di accesso alla giurisdizione ed in particolare alle impugnazioni, pur regolabile dalla Stato membro , deve tener conto però che “ogni limitazione si concilia con l’articolo 6 p. 1 soltanto se tende ad uno scopo legittimo e se esiste un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi utilizzati e lo scopo perseguito” (Corte Eur. DU 16. 6. 2015 ric. Mazzoni n. 20485/06).

Le Sezioni Unite , viste queste premesse, hanno osservato che “A far propendere il Collegio verso l’orientamento più liberale, sollecitato dall’ordinanza di rimessione, è l’intrecciarsi di più aspetti, portatori di altrettanti valori interni al sistema: l’ordinato svolgersi del giudizio di legittimità, con la possibilità di avviare sollecitamente le verifiche di rito; il controllo sulla tempestività dell’impugnazione e sul conseguente formarsi del giudicato; il diritto della parte resistente di far constare i vizi del ricorso; la necessaria proporzionalità tra la sanzione irrimediabile dell’improcedibilità (art. 387 c.p.c.) e la violazione processuale commessa; la strumentalità che le forme processuali hanno in funzione della attuazione della giurisdizione mediante decisioni di merito; la giustizia della decisione (SU 10531/13; 26242/14; 12310/15) quale scopo dell’equo processo. Il Collegio reputa che non sia possibile applicare la sanzione dell’improcedibilità allorquando il documento mancante sia nella disponibilità del giudice per opera della controparte o perchè la documentazione sia stata acquisita mediante l’istanza di trasmissione del fascicolo d’ufficio. In tal caso le ragioni della tempestiva conoscenza, che avevano sorretto la lettura rigorista, cedono alla verifica di ragionevolezza delle regole del procedimento e di proporzionalità della sanzione, che è costituita dal divieto di accesso al giudice… La sanzione massima sarebbe incongrua, irragionevole e sproporzionata secondo i parametri normativi di cui si è discusso sopra… Ancora una volta non avrebbe senso, alla luce delle normative della Carte Europee, rifiutare l’accesso al giudice dell’impugnazione perchè l’atto da valutare è presente nel fascicolo dell’Ufficio – grazie a un’istanza della parte ma non può essere esaminato per il ritardo nel produrne la copia”.

Il secondo quesito e la sua soluzione

Le Sezioni Unite pervengono ad una conclusione che salva la parte ricorrente da una sanzione di inammissibilità anche in ordine al secondo quesito, attinente la validità della procura intestata ad un avvocato differente da quello descritto in epigrafe e con la precisazione della sottoscrizione da parte di quest’ultimo dell’atto e della autenticazione del mandato.

In questo caso, il supremo organo di nomofilachia si è discostato dal pensiero espresso dalla Prima Sezione e, intervenendo nell’ambito del contrasto giurisprudenziale formatosi in materia , ha ritenuto che in tale ipotesi si è “in presenza di mero errore materiale nell’indicazione del nome del professionista incaricato, errore che tuttavia non ha in alcun modo inficiato lo scopo per il quale le forme stabilite dall’art. 83 c.p.c., sono prescritte e, cioè, il controllo della certezza, provenienza e tempestività della procura”.

Anche in questo caso il collegio giudicante assume come criterio distintivo quello della ragionevolezza, precisando che (con tale conclusione) risulta così ulteriormente assecondato quell’orientamento antiformalistico che ha portato proprio le Sezioni Unite (cfr. nel testo SS.UU n. 21624/06) a ribadire che il principio affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 189 del 13 giugno 2000, secondo cui le ipotesi d’inammissibilità dei rimedi giurisdizionali debbano essere limitate ai casi indispensabili, svolge un vero e proprio effetto d’irraggiamento dell’intero sistema, comportando una rigorosa interpretazione conforme a Costituzione, se necessario adeguatrice, della disciplina normativa degli atti processuali e, in particolare, dei requisiti degli atti con cui si introduce il giudizio.

I precedenti da abbandonare

I due chiarimenti forniti dalle Sezioni Unite, inevitabilmente, impongono l’abbandono delle tesi e delle letture rigorose, precedentemente interposte su entrambe le questioni.

Per quel che attiene la prima tra le due problematiche descritte, è (ad esempio) svilita l’affermazione resa con l’ordinanza n. 6657 del 15 marzo 2017 , ove si affermava l’improcedibilità del ricorso relativamente ad una notifica della sentenza impugnata, eseguita nelle forme della notifica in proprio tramite PEC ai sensi della legge n. 53 del 1994; in quella occasione la copia della sentenza allegata alla produzione del ricorrente, sebbene recasse in calce la relazione di notifica a mezzo PEC, era priva di qualsivoglia attestazione di conformità della stessa all’originale. Da notare che tale arresto finiva con il concretizzare un esito doppiamente severo poiché oggi, mentre il difensore ha il potere di attestare la conformità della notifica eseguita tramite PEC (notifica attiva) nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 9 comma 1 bis della legge n. 53 del 1994, il difensore che riceve la notifica via PEC (notifica passiva) non gode dell’attribuzione normativa del medesimo potere.

Cade” poi anche l’orientamento restrittivo, prospettato sin da epoca risalente (cass. civ. n. 6509/1988) ed arroccato sul fatto che a norma dell’art. 83 c. 2 c.p.c. la procura alle liti deve essere conferita per atto pubblico o per scrittura privata autenticata e, nella seconda forma, può essere apposta anche a margine degli atti processuali indicati nel terzo comma, nel quale caso l’autografia della sottoscrizione della parte è certificata dallo stesso difensore incaricato. Secondo il pensiero che oggi le Sezioni Unite hanno disconosciuto, detta norma indicherebbe trattarsi evidentemente di un requisito di forma ad substantiam, dalla cui mancanza o inosservanza non può che discendere la inesistenza della procura stessa al difensore che se ne assume investito; né può pervenirsi a diversa conclusione nel caso in cui il testo del documento, nella sua parte essenziale e qualificante, indica a difensore investito una persona diversa da quella di chi tale poi si assume

21 settembre 2017

Antonino Russo