Il valore del patteggiamento penale nel processo tributario

la sentenza penale di patteggiamento costituisce un importante elemento di prova per il giudice tributario il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione

La Corte di Cassazione, con la sentenza 24 luglio 2014, n.16848, in aderenza a quanto statuito dalle Sezioni Unite della Corte, cui si sono in prosieguo adeguate le sezioni semplici (nn. 17967/12; 26253/11; 24587/10; 23906/07), ha confermato il principio secondo cui “la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen. costituisce un importante elemento di prova per il giudice di merito il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione. Pertanto la sentenza di applicazione di pena patteggiata, pur non potendosi configurare come sentenza di condanna, presupponendo pur sempre una ammissione di colpevolezza, esonera la controparte dall’onere della prova” (1n. 7289/06).

Infatti, “pur non risolvendosi in accertamento capace di fare stato nel giudizio civile o in quello amministrativo ed essendo quindi, al riguardo, priva di automatica ed ineludibile efficacia probatoria – implica pur sempre un’ammissione di colpevolezza, che costituisce indiscutibile elemento di prova almeno di natura presuntiva” (n. 20133/12).

Non può perciò “farsi discendere dalla sentenza di cui all’art. 444 cod. proc. pen. la prova della ammissione di responsabilità da parte dell’imputato e ritenere che tale prova sia utilizzabile nel procedimento civile” (8421/11), ma le “risultanze del procedimento penale … possono essere liberamente apprezzate dal giudice civile ai fini degli accertamenti di sua competenza” (26250/11;15715/12; 2279/13), di modo che, se talora si è creduto di poter trarre da detta sentenza un indiscutibile elemento di prova utilizzabile, anche in via esclusiva, per la formazione del proprio convincimento (17967/12), in ogni caso l’inequivoca valenza presuntiva che ad essa concordemente si accorda orienta il giudizio probatorio a non trascurare, proprio perché il giudice è tenuto altrimenti a spiegare le ragioni “per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità“, le ulteriori evidenze emergenti in questa direzione.

Breve nota: il patteggiamento fa prova

A norma dell’art. 651 c.p.c., la sentenza penale irrevocabile di condanna pronunciata a seguito dell’applicazione dell’art. 444 del c.p.c. (cd. Patteggiamento, in dibattimento o con rito abbreviato) ha efficacia di giudicato relativamente alla sussistenza del fatto, alla sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, così che il soggetto condannato definitivamente per reati tributari, in relazione ai fatti costitutivi dei quali sia pendente un giudizio tributario amministrativo, non potrà opporsi a quanto è stato provato in sede penale.

Sul punto, la Corte di Cassazione, con sentenza 24.2.2001 n. 2724 ha affermato che, pur non svolgendo la sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 c.p.c. alcuna efficacia di giudicato nell’accertamento tributario e nella sua proiezione processuale, appare incontestabile che la richiesta di patteggiamento dell’imputato implica pur sempre il riconoscimento del fatto – reato.

Secondo la giurisprudenza della Corte (sentenza 10 novembre 1998, n. 11301), la sentenza penale emessa ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. costituisce un importante elemento di prova e il giudice di merito, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua responsabilità insussistente e il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione. Tale riconoscimento, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall’efficacia del giudicato, può ben essere utilizzato come prova dal giudice tributario nel giudizio di legittimità dell’accertamento.

Sempre la Cassazione (sent. n. 10264 del 7 marzo 2007, dep. il 4 maggio 2007) ha affermato che il cd. patteggiamento di cui all’art. 444 C.p.p. costituisceelemento di prova per il giudice di merito e l’omesso suo esame puòcostituire vizio della motivazione rilevabile ex art. 360, n. 5, c.pc.. Occorre, però, che l’Amministrazione deduca ilcollegamento fra i fatti oggetto del processo penale ed i fatti oggetto delprocedimento tributario. La Corte, dopo aver premesso che “la sentenza penale di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale non implica un’affermazione di colpevolezza dell’imputato, posto che il giudice si limita a controllare l’esattezza della qualificazione giuridica del fatto, l’insussistenza di cause di proscioglimento ex art. 129 del codice di procedura penale e la congruità della pena richiesta, applicandola poi a prescindere da un accertamento della responsabilità dell’imputato, il quale, peraltro, può indursi al cosiddetto patteggiamento, indipendentemente dalla propria responsabilità in ordine ai fatti contestati, sulla base di una serie di considerazioni, tra le quali, ad esempio, la sussistenza di obiettive difficoltà a dimostrare la propria innocenza, la ritenuta convenienza di una pena in ogni caso considerevolmente inferiore a quella prevedibile in caso di condanna, la necessità di evitare il danno di immagine che potrebbe derivare dal protrarsi di un dibattimento pubblico, rileva ‘che, in ogni caso, l’utilizzazione della sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 del codice procedura penale come elemento di prova da parte del giudice tributario presuppone un collegamento tra i fatti oggetto del procedimento penale conclusosi con sentenza di patteggiamento e i fatti oggetto del procedimento tributario, ma nella specie i ricorrenti, omettendo di riportare in ricorso il contenuto testuale della sentenza in questione (peraltro citata senza neppure elementi di identificazione quali data e numero), hanno impedito a questo giudice di legittimità (che la natura el vizio dedotto non abilita alla lettura degli atti) di apprezzare il suddetto collegamento e quindi di valutare la decisività dell’elemento asseritamene trascurato nella motivazione della sentenza impugnata’”, rigettando così il ricorso principale.

Ancora la Suprema Corte, con sentenza n. 24587 del 3 dicembre 2010 (ud. del 12 ottobre 2010), dopo aver ribadito che “è ormai ius receptum che, ove la contabilità della società sia apparentemente corretta (come pacificamente nella fattispecie) spetta alla Amministrazione provare che detti dati contabili (che di per sè fanno prova delle operazioni registrate) sono fittizi e che le operazioni oggetto delle fatture in realtà non sono mai state poste in essere (v. per tutte Cass. n. 15395 del 2008)”, ha affermato che “è altrettanto consolidato il principio che, ove la Amministrazione fornisca validi elementi, alla stregua del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, per affermare che almeno alcune delle operazioni contabilizzate sono fittizie, passa sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate”. Infatti, “la sentenza penale di applicazione di pena su richiesta ex art. 444 c.p.c., per costante insegnamento di questa Corte (v. Cass. nn. 9358/2005, 18635/2006) costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito, il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione; detto riconoscimento, pertanto, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall’efficacia del giudicato, ben può essere utilizzato come prova nel corrispondente giudizio di responsabilità in sede civile, e quindi anche in ambito tributario”. La Corte, quindi, cassa le argomentazioni sul punto della Commissione tributaria regionale, in quanto errate, poiché “ferma restando la irrilevanza del richiamo all’art. 445 c.p.p. che si limita ad escludere il valore di giudicato in un diverso processo, non è contestato che i fatti oggetto della sentenza penale siano gli stessi oggi considerati in sede tributaria; ed irrilevante è il fatto che oggetto dell’accertamento fiscale sia in questa sede la società ed in sede penale imputato fosse l’amministratore della medesima, perchè ciò risponde alla diversa struttura dei giudizi, essendo la responsabilità penale unicamente personale”. I Giudici rilevano che “non essendo dubbia la rilevanza del dato ai fini probatori, la sentenza impugnata deve essere cassata e la causa rinviata per nuovo esame a diversa sezione della CTR della Lombardia, onde valuti se tale fatto accertato, unitamente agli altri considerati in sentenza, (cessazione dalla attività delle ditte apparentemente fornitaci, assenza di documentazione di pagamento) siano sufficienti ad integrare a favore dell’Ufficio la prova ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2”.

E con la sentenza n. 20133 del 16 novembre 2012 la Corte di Cassazione ha affermato che il riconoscimento – in sede di patteggiamento – delle somme truffate ha valore ai fini fiscali. La Corte, innanzitutto, premette che “ il giudizio tributario è annoverabile, non tra quelli di impugnazione-annullamento, ma tra quelli di impugnazione-merito, in quanto (essendo il giudice tributario giudice investito della cognizione, non solo dell’atto, ma anche del rapporto) detto giudizio è diretto, non solo all’eliminazione dell’atto impugnato, ma, anche, alla pronunzia di una decisione di merito sostitutiva dell’accertamento dell’amministrazione finanziaria (ovvero della dichiarazione del contribuente); con la conseguenza che il giudice, che ritenga invalido l’avviso di accertamento per motivi (non formali, ma) di carattere sostanziale, non deve limitarsi ad annullare l’atto impositivo, ma deve esaminare nel merito la pretesa tributaria, e, operando una motivata valutazione sostitutiva, eventualmente ricondurla alla corretta misura entro i limiti posti dalle domande di parte (cfr. Cass. 28.770/05, 3309/04, 4280/01, 16171/00)”. Premesso ciò, la Suprema Corte osserva che, secondo consolidate principio interpretativo, “la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. (cd. di ‘patteggiamento’) – pur non risolvendosi in accertamento capace di fare stato nel giudizio civile o in quello amministrativo ed essendo quindi, al riguardo, priva di automatica ed ineludibile efficacia probatoria – implica pur sempre un’ammissione di colpevolezza, che costituisce indiscutibile elemento di prova almeno di natura presuntiva (cfr.: Cass. 5756/12, 26263/11, 10280/08, 17289/06, 19505/03, 2724/01), utilizzabile, in particolare, dal giudice tributario nel giudizio sull’accertamento ex art. 14, comma 4, l. 537/1993. Deve, peraltro, considerarsi che, in tal caso, l’indicata ammissione ed il conseguente rilievo presuntivo non possono ritenersi circoscritti all’’an’ della pretesa fiscale, ma, in relazione alle indicazioni emergenti dal capo d’imputazione ‘patteggiato’ ed alle risultanze delle indagini penali che ad esso hanno portato, si proiettano necessariamente sui relativi i profili quantitativi, concorrendo a definirli”.

5 novembre 2014

Gianfranco Antico