La tassazione degli artisti per esibizioni all'estero

Se un artista italiano svolge attività all’estero, quali sono le modalità di tassazione dei suoi compensi? Partiamo dal caso pratico di un artista italiano che ha svolto concerti in Francia: i redditi derivanti dalle prestazioni estere sono assoggettabili ad IRPEF?

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 23984 del 24.11.2016, ha affrontato un tema sempre molto interessante: la tassazione dei redditi degli artisti per esibizioni all’estero.

Nel caso di specie la ricorrente era un’artista che effettuava spesso esibizioni canore all’estero.

Nel 2004 la contribuente aveva percepito redditi in Francia, provento di tale sua attività, che però non aveva dichiarato in Italia, e che l’Agenzia delle Entrate, a seguito di verifiche incrociate, aveva tuttavia individuato e sottoposto a tassazione.

La ricorrente aveva allora fatto presente di avere dichiarato quei guadagni in Francia, dove aveva anche pagato le imposte, documentando tale circostanza a seguito di relativa richiesta da parte dell’Agenzia.

Il Fisco, tuttavia, aveva ritenuto di dover applicare al caso di specie l’art. 17 della Convenzione con la Francia, in base al quale, secondo l’interpretazione data dall’Amministrazione, il fatto che l’artista avesse versato le imposte in quel Paese non impediva all’Italia di poter considerare comunque imponibile il reddito estero, salva la dichiarazione del credito di imposta.

La Commissione Tributaria Provinciale accoglieva il ricorso, mentre quella Regionale, su appello dell’Agenzia, riteneva doversi applicare la regola del concorso, ai fini lrpef, delle potestà impositive dei due Paesi. Tuttavia, riconoscendo la buona fede della contribuente, la CTR annullava l’avviso di accertamento quanto alle sanzioni applicate.

Ricorreva, infine, davanti alla Suprema Corte la contribuente, denunciando nullità della sentenza e violazione di legge, e proponeva ricorso incidentale anche l’Agenzia delle Entrate quanto alle sanzioni.

La ricorrente principale sosteneva quindi che il giudice di appello aveva pronunciato anche sulla esistenza del potere impositivo del Fisco italiano, ai sensi dell’art. 17 della Convenzione, anche se tale questione, decisa in primo grado, non era stata riproposta in appello in modo specifico, come impone l’art. 53 del D.Ivo 546 del 1992.

In sostanza, i giudici di primo grado avevano ritenuto che, ai sensi dell’art. 17 del Trattato con la Francia, l’Italia non avesse potere impositivo per i redditi degli artisti prodotti nello stato estero.

Tale punto di sentenza, secondo il contribuente, non era stato impugnato esplicitamente e dunque doveva ritenersi formalmente coperto da giudicato.

Invece, in violazione sia dell’art. 53 D.Lgs. 546 del 1992 che dell’art. 329 c.p.c., i giudici di secondo grado avevano comunque affrontato la questione, nonostante non riproposta, ribaltandone la soluzione.

Tale motivo di impugnazione, secondo la Corte, era infondato, dato che “nel processo tributario, ove l’Amministrazione finanziaria si limiti a ribadire e riproporre in appello le stesse ragioni e argomentazioni poste a sostegno della legittimità del proprio operato, come già dedotto in primo grado, in quanto considerate dalla stessa idonee a sostenere la legittimità dell’avviso di accertamento annullato, è da ritenersi assolto l’onere d’impugnazione specifica previsto dall’art.. 53 del D. Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, secondo il quale il ricorso in appello deve contenere “i motivi specifici dell’impugnazione” e non già “nuovi motivi”, atteso il carattere devolutivo pieno dell’appello, che è un mezzo di impugnazione non limitato al controllo di vizi specifici della sentenza di primo grado, ma rivolto ad ottenere il riesame della causa nel merito” (Cass. n. 3064 del 2012, in termini analoghi Cass. ord. n. 1200 del 2016).

E l’Agenzia, invero, aveva riproposto in appello la questione della legittimità dell’avviso di accertamento, ribadendo le ragioni poste a fondamento della legittimità del suo operato, ragioni che la commissione di secondo grado conseguentemente aveva preso in considerazione.

La ricorrente richiamava comunque anche la violazione sia dell’art. 17 del Trattato con la Francia, che degli articoli 3 e 165 TUIR sotto due profili connessi. Secondo la contribuente, infatti, la Commissione aveva errato nel ritenere applicabili le norme del testo unico, ed a farle prevalere su quelle del Trattato.

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Ed inoltre aveva erroneamente inteso quest’ultimo, ritenendo che l’articolo 17 non prevedesse l’esclusiva potestà impositiva dello stato estero (nella fattispecie la Francia).

Più in particolare, la sentenza impugnata, sulla scorta di una circolare ministeriale, aveva dunque ritenuto che l’Italia possa rinunciare alla sua potestà impositiva solo quando questa è attribuita in via esclusiva allo Stato estero, mentre quando ciò non è espressamente previsto (come sarebbe avvenuto nel caso in questione), l’Italia mantiene comunque la sua potestà impositiva ed il pericolo della doppia tassazione è evitato concedendo al contribuente, che abbia pagato all’estero, un credito di imposta.

Secondo la ricorrente, invece, era proprio l’art. 17 del Trattato con la Francia a doversi applicare, in quanto norma di diritto internazionale che deroga alle disposizioni interne.

Queste ultime, che prevedono l’imponibilità del reddito anche se conseguito all’estero, si potevano dunque applicare, ad avviso del contribuente, solo ove non ci fosse stata una norma pattizia con lo Stato interessato, che disponesse diversamente.

Infine il ricorrente evidenziava che l’Agenzia delle Entrate, per dare dell’art. 17 della Convenzione e del suo rapporto con le norme interne, l’interpretazione che poi aveva dato, aveva fatto altresì leva sull’art. 24 della Convenzione stessa. E dal significato di tale norma aveva tratto conferma che l’art. 17 consente la concorrente potestà impositiva dell’Italia.

Ciò in quanto il medesimo articolo prevede meccanismi, interni, di eliminazione degli effetti della doppia imposizione.

Secondo la ricorrente, però, questa era una interpretazione sbagliata, proprio perché fatta a prescindere dal confronto con le altre norme della Convenzione e segnatamente con lo stesso art. 17.

Anche tale contestazione, secondo la Corte, era infondata.

In materia di imposte sui redditi, l’obbligazione tributaria grava, infatti, in linea di principio, su tutti i possessori di reddito (D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 1 Tuir: presupposto oggettivo) residenti o meno nel territorio dello Stato (art. 2 Tuir: soggetti passivi).

I primi vengono incisi in base al criterio soggettivo dell’utile mondiale (nel senso che “l’imposta si applica sul reddito complessivo del soggetto, formato per i residenti da tutti i redditi posseduti”, come precisa l’art. 3, par.1 TUIR), mentre per i soggetti non residenti il prelievo fiscale avviene in base al criterio oggettivo di “territorialità” della fonte del reddito (nel senso che il reddito complessivo imponibile per i non residenti è formato soltanto da quelli prodotti nel territorio dello Stato).

L’adozione del doppio criterio di prelievo (inteso ad escludere “zone franche” della imposizione), in base all’utile mondiale” del soggetto e alla territorialità della fonte del reddito, espressione della sovranità dello Stato sui cittadini e sul territorio, implica dunque il rischio di doppie imposizioni rispetto a quei Paesi che utilizzano gli stessi criteri.

Di qui l’esigenza di adottare appositi accordi tra gli Stati, che prevalgano sulla normativa interna, prevalenza che deriva altresì da espressa disposizione di legge (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 75, che stabilisce che “nell’applicazione delle disposizioni concernenti le imposte sui redditi sono fatti salvi gli accordi internazionali resi esecutivi in Italia”) (così Cass. n. 12595/04 ed in senso conforme Cass. n. 29455/08; id.n.3556/09; da ultimo Cass. n. 14474 del 2016).

E invero, sia l’art. 3 del TUIR, il quale fissa il principio dell’utile mondiale, sia l’art. 165 TUIR, che impone regole interne per evitare l’eventualità della doppia imposizione, si applicano solo in assenza di norme pattizie di segno contrario, non applicandosi quindi quando la questione sia regolata da apposita Convenzione.

I giudici di legittimità evidenziano inoltre che, in relazione al Trattato con l’Irlanda, ma l’argomento valeva anche nel caso in esame del Trattato con la Francia, la stessa Suprema Corte ha già affermato che la “Convenzione tra l’Italia e l’Irlanda conclusa a Dublino 1’11 giugno 1971, ratificata e resa esecutiva con L. 9 ottobre 1974, n. 583, …. per il carattere di specialità del suo ambito di formazione, così come le altre norme internazionali pattizie – prevale sulle corrispondenti norme nazionali, dovendo la potestà legislativa essere esercitata nei vincoli derivanti, tra l’altro, dagli obblighi internazionali (art. 117 Cost., comma 1, nel testo di cui alla L. Cost. 18 ottobre 2001, n. 3, art. 3).” (Cass. n. 1138 del 2009) e che “le convenzioni bilaterali in materia di doppia imposizione hanno la funzione di dettare norme internazionali di conflitto, le quali eliminino la sovrapposizione dei sistemi fiscali nazionali, perché, diversamente, i contribuenti dovrebbero subire, in relazione al reddito percepito all’estero, un maggior carico fiscale, con conseguente ostacolo all’attività economica internazionale. Tale scopo viene perseguito mediante l’attribuzione del potere d’imposizione fiscale ad uno Stato contraente e, corrispondentemente, con la rinuncia all’esercizio di tale potere da parte dell’altro Stato. In alcuni casi viene prevista una potestà impositiva concorrente dello Stato fonte. Deve, pertanto, considerarsi coerente con tali finalità la sola esistenza del potere impositivo principale di uno Stato contraente, indipendentemente dall’effettivo pagamento dell’imposta in tale Paese” (Cass. 29 gennaio 2001 n. 1231; Cass. 21 febbraio 2001 n. 2532).

Ciò posto, la questione diventava allora quella di come la Convenzione con la Francia, ratificata e resa esecutiva dalla legge 7 gennaio 1992, n. 20, ripartiva effettivamente la potestà impositiva, quanto ai redditi degli artisti, tra i due sistemi fiscali.

Di regola, infatti, le Convenzioni, che sfruttano modelli predisposti dall’OCSE, prevedono o una potestà esclusiva dello Stato estero, o una potestà concorrente dei due Stati. In questa ultima ipotesi, come detto, il rischio della doppia imposizione è evitato concedendo al contribuente, che abbia pagato le imposte all’estero, un credito di imposta in Italia.

Per stabilire a quale delle due ipotesi facesse riferimento l’art. 17 relativo agli artisti, bisognava innanzitutto guardare al dato letterale (l’interpretazione letterale delle Convenzioni è infatti il primo criterio ermeneutico, come stabilisce la stessa Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei Trattati internazionali, all’art. 31), laddove la norma prevede che “i redditi sono imponibili in detto altro Stato”, con riferimento appunto a quello in cui i redditi degli artisti sono prodotti.

Non dice però la norma che tali redditi sono imponibili “soltanto” nello Stato in cui sono prodotti, lasciando dunque intendere, conclude la Corte, che le due potestà impositive concorrono.

La stessa Convenzione, infatti, sottolinea ancora la Corte, sia all’art. 18, relativo alle pensioni percepite in Francia, che all’art. 19, relativo a remunerazioni da pubblico impiego diverse da pensioni, prevede che la tassazione avvenga soltanto in Francia.

E così è anche per alcune ipotesi di lavoro subordinato privato (art. 15), rispetto alle quali la norma distingue tra casi in cui la tassazione è soltanto francese e casi in cui non lo è.

All’interno della medesima Convenzione, quindi, alcuni redditi sono espressamente assoggettati alla potestà impositiva esclusiva dello Stato fonte, ed altri invece no.

Non solo, ma lo stesso articolo 17, accanto all’ipotesi in esame, nella quale, come detto, non è usata l’espressione “soltanto” a significare l’esclusiva potestà di uno Stato, nei commi successivi (terzo e quarto) invece usa l’avverbio in questione per affermare quella esclusività se per i compensi dell’artista vengano usati fondi pubblici.

Ed è significativo quindi, afferma la Corte, che, all’interno della stessa norma, per un’ipotesi si dica che la potestà è soltanto dello Stato di residenza (uso di fondi pubblici) e per altra ipotesi (compensi senza contributo pubblico) invece no.

Una interpretazione diversa da quella letterale è peraltro consentita unicamente nei casi in cui quest’ultima conduca a conclusioni oscure, o in conflitto con altre regole del sistema. Ma nella fattispecie l’esito della interpretazione letterale non era né oscuro, nè in conflitto con altri significati del sistema.

La prestazione degli artisti, infatti, ha caratteri particolari in ragione della ridotta permanenza dell’interessato nel territorio dello Stato estero, circoscritta al tempo necessario alla rappresentazione, ed al fatto che gli artisti non dispongono all’estero di una base fissa, a differenza di quanto può accadere per altri prestatori d’opera. E ciò può quindi ragionevolmente comportare che lo Stato in cui è eseguita la prestazione e prodotto il reddito relativo non sempre è in grado di registrare fiscalmente l’avvenimento, che può essere particolarmente fugace, cosi che è lasciata sempre la possibilità che sia lo Stato di residenza, dove normalmente l’artista fa la dichiarazione, a potere effettuare l’imposizione mancata nello Stato fonte.

E se invece, in quest’ultimo, il reddito è stato regolarmente tassato, il rischio della doppia imposizione è evitato con il riporto a credito da parte dell’artista nello Stato di residenza.

La Suprema Corte rigettava comunque anche il ricorso incidentale, laddove l’Agenzia delle Entrate censurava la sentenza impugnata nella parte in cui il giudice di appello, pur ritenendo dovuta la dichiarazione dei redditi in Italia, ed accertata quindi l’illegittimità della sua omissione, aveva ritenuto non applicabili le sanzioni per obiettiva incertezza normativa.

Sottolinea infatti la Corte che, quando il comportamento della contribuente era stato posto in essere non v’erano pronunce sulla portata dell’art. 17 della Convenzione.

E la giurisprudenza di legittimità ha più volte riconosciuto la buona fede del contribuente in caso di obiettiva incertezza della norma, tale da avere indotto il contribuente in errore, quando, come appunto anche nel caso di specie, l’errore di interpretazione non sia meramente soggettivo o dipeso da condizioni proprie del contribuente, ma generato dalla obiettiva incertezza di significato (Sez. 5 n. 7308 del 2006; Sez. 5 n. 13076 del 2015).

In conclusione, facendo una riflessione più generale, la norma di riferimento è in questi casi l’art. 17, paragrafo 1, della schema di Convenzione Ocse contro le doppie imposizioni, che al riguardo prevede che “nonostante le disposizioni degli articoli 14 e 15 della presente Convenzione, i redditi che un residente di uno Stato contraente ritrae dalle sue prestazioni personali esercitate nell’altro Stato contraente in qualità di artista dello spettacolo, quale artista di teatro, del cinema, della radio o della televisione o in qualità di musicista, nonché di sportivo sono imponibili in detto altro Stato”.

L’esigenza di tutelare la potestà impositiva dei singoli Stati ha dunque suggerito l’opportunità di adottare un criterio di imponibilità diverso da quelli previsti dagli artt. 7 e 15 con riferimento ai professionisti indipendenti e ai lavoratori dipendenti, in modo da prevedere che i redditi da essi conseguiti siano imponibili nello stesso Stato in cui traggono origine.In deroga a quanto previsto dagli artt. 14 e 15, pur in assenza di una base fissa o di un periodo minimo di permanenza nello Stato della fonte, i redditi conseguiti dagli artisti e sportivi sono dunque imponibili nello Stato in cui viene svolta l’attività da cui traggono origine.

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Da un punto di vista soggettivo l’attività svolta deve possedere il carattere della professionalità richiesto dall’art. 17 e deve trattarsi di un’attività di contenuto artistico.

Sotto il profilo oggettivo, invece, va in primo luogo rilevato che gli artisti e sportivi possono percepire una vasta gamma di corrispettivi in forme differenti. A livello OCSE, è già stato preso in considerazione, del resto, quali fattispecie ricomprendere nell’ambito applicativo dell’art. 17, rilevandosi come la molteplicità delle attività svolte dagli artisti e la complessità ed articolazione dei contratti da cui sono regolate non permettono un’agevole individuazione dei diversi elementi che compongono i corrispettivi complessivamente percepiti da tali soggetti.

Il Comitato Affari fiscali dell’OCSE, ha in sostanza ritenuto opportuno privilegiare l’interpretazione per cui, visto che le autorità fiscali dei diversi Stati avrebbero difficoltà ad individuare tutti i redditi che l’artista può percepire in modo diretto o indiretto, anche all’estero, in dipendenza dell’attività esercitata nell’ambito del territorio del proprio Stato, con il conseguente rischio di doppie imposizioni o, al contrario, di non imposizione, l’art. 17 deve ritenersi applicabile ai redditi percepiti dall’artista in dipendenza dell’attività propriamente artistica svolta in un determinato Stato.

Al fine di attenuare la doppia imposizione internazionale dei redditi conseguiti dagli artisti il Commentario OCSE suggerisce quindi, per l’appunto, di adottare il metodo del credito d’imposta, in base al quale il reddito di fonte estera conseguito dall’artista residente è comunque imponibile nello Stato di residenza, salvo il riconoscimento di un credito tendenzialmente pari alle imposte assolte all’estero sul medesimo reddito.

27 marzo 2018

Giovambattista Palumbo

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Sullo stesso argomento vedi anche: La tassazione dei compensi erogati ad artisti stranieri 

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