Ricorso contro il silenzio rifiuto su istanza di autotutela

il contribuente può ricorrere contro il silenzio rifiuto formatosi su istanza di annullamento in autotutela di un atto impositivo? Le valutazioni…

Nel procedimento tributario, al pari del più ampio ambito del diritto amministrativo, trova applicazione – come noto – l’istituto dell’autotutela1, volto a garantire agli organi competenti all’emissione di provvedimenti autoritativi la potestà discrezionale di annullamento, revoca o rettifica degli stessi atti, al ricorrere di determinati presupposti, nell’interesse della Pubblica Amministrazione.

Benché l’esercizio di tale potestà possa essere conseguente ad istanza di parte, l’istituto in argomento non può essere giuridicamente annoverato quale ulteriore strumento di difesa del contribuente; infatti, la formulazione – da parte del privato – di apposita istanza di annullamento in autotutela di un provvedimento dell’Amministrazione Finanziaria non sospende i termini di decadenza per la proposizione del ricorso innanzi alle competenti Commissioni Tributarie Provinciali, né il medesimo contribuente è titolare di specifico diritto ad una risposta espressa da parte dell’organo amministrativo adito.

Ciò premesso, occorre evidenziare la sussistenza di un interessante dibattito dottrinale, nonché di un corposo esame giurisprudenziale in ordine alle questioni dell’impugnabilità del silenzio-rifiuto formatosi su un’istanza di autotutela, nonché dell’impugnabilità del diniego espresso di autotutela.

In linea generale, la Corte di Cassazione – con la sentenza n. 698 del 19 gennaio 2010 – ha ampiamente chiarito che tale istituto, per quanto concerne l’ambito tributario2, pur rappresentando un importante strumento deflattivo e, quindi, un “filtro amministrativo” al contenzioso, rientra nel potere discrezionale dell’Amministrazione Finanziaria che resta libera di attivarsi o meno d’ufficio o a seguito della presentazione di apposita istanza da parte del contribuente. Pertanto, qualora l’Amministrazione, all’uopo attivata, non eserciti espressamente tale potere discrezionale, il contribuente non può adire, avverso tale “silenzio”, gli organi giurisdizionali preposti, potendo tutelare la propria posizione giuridica soggettiva in sede di impugnazione dell’atto principale ritenuto illegittimo/infondato innanzi alla competente Commissione Tributaria; il sindacato giurisdizionale è ammesso solo in presenza di un diniego espresso all’esercizio dell’autotutela e limitatamente al corretto esercizio dello stesso potere discrezionale alla luce dei principi generali di cui alla Legge n. 241/1990 e all’art.97 della Costituzione.

Nello specifico – con riguardo alla questione dell’impugnabilità del silenzio-rifiuto formatosi su un’istanza di autotutela – la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 181 del 13 luglio 2017, ha recentemente contribuito a chiarire la natura dell’istituto in esame e, quindi, la posizione giuridica del contribuente in conseguenza del mancato esercizio, da parte dell’Amministrazione, della potestà di autotutela.

Nella sentenza richiamata la Corte ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale avanzate da una Commissione Tributaria Provinciale ed inerenti:

  • l’articolo 2-quater, comma 1, del decreto legge 564/1994, nella parte in cui non prevede né l’obbligo dell’amministrazione finanziaria di adottare un provvedimento amministrativo espresso sull’istanza di autotutela proposta dal contribuente, né l’impugnabilità – da parte di questi – del silenzio tacito su tale istanza;

  • l’articolo 19, comma 1, del decreto legislativo 546/1992, nella parte in cui non prevede l’impugnabilità, da parte del contribuente, del rifiuto tacito dell’amministrazione finanziaria sull’istanza di autotutela proposta dal medesimo.

Dall’esame della citata sentenza, emerge il principio secondo cui qualora venisse affermato il dovere dell’Amministrazione Tributaria di pronunciarsi sull’istanza di autotutela, si finirebbe per riconoscere impropriamente una ulteriore possibilità di difesa, con la conseguenza che – in presenza di un atto impositivo divenuto definitivo – l’istituto dell’autotutela finirebbe per offrire in via generalizzata una seconda possibilità di tutela, dopo la scadenza dei termini per il ricorso per impugnare il medesimo atto impositivo e si verrebbe a creare una nuova situazione giuridicamente protetta del contribuente, azionabile sine die dall’interessato, il quale potrebbe rimettere in qualsiasi momento al vaglio del giudice questioni già ampiamente concluse, superando il principio della definitività del provvedimento amministrativo.

In altri termini, a detta della Corte, non sussiste un interesse giuridicamente protetto volto a ottenere una decisione amministrativa espressa sull’istanza di autotutela; pertanto, non è possibile ipotizzare l’esistenza di un vuoto di tutela, considerato che contro il provvedimento dell’amministrazione finanziaria oggetto della richiesta di annullamento d’ufficio, rimasta inevasa, l’interessato dispone degli ordinari rimedi di protezione giurisdizionale dei suoi diritti e interessi legittimi.

In conclusione, l’istituto dell’autotutela nel settore tributario non prevede l’applicabilità della figura del silenzio-rifiuto e in tal senso manca un’espressa volontà del legislatore che, solo nel caso di silenzio-rifiuto all’istanza di rimborso di tributi e accessori, ha previsto a carattere eccezionale la possibilità di giurisdizionalizzare la pretesa tramite ricorso.

Occorre chiarire – d’altra parte – che il mancato esercizio dell’autotutela nei confronti di un atto palesemente illegittimo, nel caso di pendenza di giudizio, può portare alla condanna alle spese dell’amministrazione oltre al fatto che, come previsto dall’art.1 del D.M. 37/1997, si può verificare, in presenza di grave inerzia, il ricorso in sostituzione all’istituto in analisi da parte della Direzione Regionale sovraordinata.

Infatti, la citata sentenza n. 698 del 19 gennaio 2010 della Corte di Cassazione – fermo restando che l’Ufficio ha il potere ma non il dovere giuridico di ritirare l’atto viziato ed il contribuente, a sua volta, non ha un diritto soggettivo a che l’ufficio eserciti tale potere – sottolinea che, laddove il soggetto privato abbia sostenuto delle spese per ottenere l’annullamento in via di autotutela di un provvedimento amministrativo poi dichiarato illegittimo presso le competenti sedi giurisdizionali, l’Amministrazione Finanziaria, che non abbia esercitato il potere di annullamento in autotutela, è tenuta al rimborso di tali spese a titolo di risarcimento di danno ingiusto.

Pertanto, la discrezionalità accordata alla Pubblica Amministrazione in merito all’esercizio del potere di annullamento degli atti in autotutela non esime da responsabilità aquiliana3 laddove l’intempestiva o l’omessa adozione del contrarius actus abbia cagionato un danno al contribuente costringendolo ad adire la giurisdizione ed a sostenere oneri e spese per la difesa

In conclusione, a detta della Corte di Cassazione, “ove il provvedimento di autotutela non venga tempestivamente adottato, al punto di costringere il privato ad affrontare spese legali e d’altro genere per proporre ricorso e per ottenere per questa via l’annullamento dell’atto, la responsabilità della P.A. permane ed è innegabile”; in tale ambito, pertanto, non si è verifica una “indebita interferenza della giurisdizione sulle modalità di esercizio del potere amministrativo”, ma la legittima constatazione che “il danno conseguente all’atto illegittimo ha esplicato tutti i suoi effetti, per non essere la P.A. tempestivamente intervenuta ad evitarli, con i mezzi che la legge le attribuisce”.

La stessa Corte di Cassazione, con la sentenza n. 13801 del 23 luglio 2004, aveva affermato che, in base alla tutela generale in materia di risarcimento del danno e di illecito della Pubblica Amministrazione, le spese sostenute dal privato per ottenere l’annullamento in via di autotutela di un provvedimento amministrativo illegittimo ben possono costituire danno ingiusto risarcibile e possono essere ritenute a tale titolo risarcibili quando rappresentino una conseguenza del fatto illecito, secondo le comuni regole dell’accertamento del nesso causale.

Con riguardo alla seconda questione inerente l’impugnabilità del diniego espresso di autotutela, sembra utile fare riferimento alla sentenza n. 55/02/11 del 9 maggio 2011 della Corte di Cassazione, ove – in linea con le medesime posizioni emergenti nelle sentenze 27 marzo 2007, n. 7388 e 10 agosto 2005, n. 16776 – viene riconosciuta la possibilità, per il provvedimento espresso di diniego di autotutela, di essere assoggettato al sindacato da parte del giudice tributario, con il limite insuperabile, tuttavia, del merito dell’esercizio del relativo potere, sul quale la giurisdizione tributaria non ha alcuna capacità di incidere poiché, diversamente, finirebbe per costituire un’indebita invasione dell’attività amministrativa.

Nelle menzionata pronuncia la Suprema Corte ritiene ammissibile l’impugnazione del diniego di autotutela espresso, escludendo, comunque, la possibilità per il giudice tributario di entrare nel merito delle ragioni sottese al rifiuto. In altre parole, a seguito di istanza, il contribuente non è certamente titolare di un pieno diritto ad ottenere in via di autotutela l’annullamento o la revoca dell’atto ma, nel caso l’Amministrazione “adita” esprima la propria valutazione sulla legittimità dell’atto tramite un provvedimento finale positivo o negativo, il privato è, in tal caso, titolare di un interesse soggettivo4 al che il provvedimento stesso sia conforme alle norme ed ai principi che lo regolano in astratto.

Al riguardo, in due sentenze delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza nr.7388 del 27.03.2007 e sentenza nr.16776 del 10.08.2005), si afferma che: “In tema di contenzioso tributario, e con riferimento all’impugnazione degli atti di rifiuto dell’esercizio del potere di autotutela da parte dell’Amministrazione finanziaria, il sindacato del giudice deve riguardare, ancor prima dell’esistenza dell’obbligazione tributaria, il corretto esercizio del potere discrezionale dell’Amministrazione, nei limiti e nei modi in cui esso è suscettibile di controllo giurisdizionale, che non può mai comportare la sostituzione del giudice all’Amministrazione in valutazioni discrezionali, né l’adozione dell’atto di autotutela da parte del giudice tributario, ma solo la verifica della legittimità del rifiuto dell’autotutela, in relazione alle ragioni di rilevante interesse generale che, ai sensi dell’art. 2-quater del decreto-legge 20 settembre 1994, n. 564, convertito con modificazioni dalla legge 30 novembre 1994, n. 656, e dell’art. 3 del d.m. 11 febbraio 1997, n. 37, ne giustificano l’esercizio.”

6 settembre 2017

Nicola Monfreda e Serena Aveta

1 Nell’ambito del diritto tributario, l’istituto dell’autotutela è stato disciplinato dapprima con l’art.68 del D.P.R. 27.03.1992 nr.287, abrogato dall’art.23, comma 1 lett. m) nr.7 del D.P.R. 26.03. 2001 nr.107, in virtù del quale, a tutela dei diritti del contribuente e della trasparenza dell’azione amministrativa, gli Uffici dell’Amministrazione Finanziaria possono procedere all’annulamento totale o parziale di provvedimenti riconosciuti illegittimi o infondati con atto motivato da notificare al contribuente. L’attuale normativa di riferimento è da inquadrare nell’art.2 quater della Legge 30.11.1994 nr.656, di conversione del D.L. 30.09.1994 nr.564, e nel relativo regolamento di esecuzione adottato con il D.M. 11.02.1997 nr.37. L’art.2 quater della Legge nr.656/1994 prevede testualmente che “Con decreti del Ministro delle finanze sono indicati gli organi dell’Amministrazione finanziaria competenti per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio o di revoca, anche in pendenza di giudizio o in caso di non impugnabilità, degli atti illegittimi o infondati. Con gli stessi decreti sono definiti i criteri di economicità sulla base dei quali si inizia o si abbandona l’attività dell’amministrazione.” Inoltre, la disposizione in esame prevede che nella potestà di autotutela è ricompreso, altresì, il potere di disporre la sospensione degli effetti dell’atto illegittimo oltre al fatto che l’istituto di cui trattasi viene riconosciuto esperibile anche da parte degli enti locali in riferimento ai tributi di rispettiva competenza.

2 Il regolamento di esecuzione di cui al D.M. nr.37/1997 prevede, all’art.1, che l’organo competente ad esercitare il potere di annullamento e di revoca o di rinuncia all’imposizione in caso di autoaccertamento è riservato all’ufficio che ha emanato l’atto illegittimo o infondato o, in caso di grave inerzia, alla Direzione regionale sovraordinata. Il successivo art.2 delinea in maniera non esaustiva e tassativa le ipotesi di annullamento d’ufficio o di rinuncia all’imposizione in caso di accertamento disponendo che l’Amministrazione Finanziaria ha la potestà di annullare in tutto o in parte, senza la necessità di una istanza di parte ed anche in pendenza di giudizio o, altresì, in caso di non impugnabilità, quegli atti che si ravvisano essere illegittimi poiché si è innanzi a: errore di persona; evidente errore logico o di calcolo; errore sul presupposto dell’imposta; doppia imposizione; mancata considerazione di pagamenti di imposta, regolarmente eseguiti; mancanza di documentazione successivamente sanata, non oltre i termini di decadenza; sussistenza dei requisiti per fruire di deduzioni, detrazioni o regimi agevolativi, precedentemente negati; errore materiale del contribuente, facilmente riconoscibile dall’Amministrazione. Il potere discrezionale di autotutela tributaria in analisi è limitato dallo stesso legislatore attraverso l’ultimo comma dell’art.2 nella parte in cui esclude il ricorso a tale istituto per quei motivi di diritto o di fatto oggetto di sentenza passata in giudicato favorevole per l’Amministrazione Finanziaria.

3 Ai sensi dell’art.2043 c.c., qualunque fatto colposo o doloso obbliga colui che lo ha commesso ha risarcire il danno ingiusto cagionato.

4 Per interesse legittimo deve intendersi quella situazione giuridica soggettiva consistente in una posizione di vantaggio che l’ordinamento riconosce ad un privato rispetto ad un determinato bene, interesse oggetto di atto/provvedimento da parte della Pubblica Amministrazione, di modo che sussiste nei confronti del privato stesso la pretesa che l’atto amministrativo sia legittimo.