E’ del giudice tributario la cognizione della controversia relativa all’impugnazione del provvedimento finale adottato in conseguenza dell’attività di accertamento svolta dall’Amministrazione finanziaria anche per il tramite della Guardia di Finanza in veste di polizia tributaria.
Con decisione n. 6045 del 15 luglio 2008 (dep. il 5 dicembre 2008) il Consiglio di Stato, Sez. IV, ha affermato che è del giudice tributario la cognizione della controversia relativa all’impugnazione del provvedimento finale adottato in conseguenza dell’attività di accertamento svolta dall’Amministrazione finanziaria anche per il tramite della Guardia di Finanza in veste di polizia tributaria.
Il provvedimento di autorizzazione da parte della competente Procura della Repubblica, all’uopo richiesto in conseguenza del segreto professionale opposto sulla corrispondenza intrattenuta fra il professionista ed il cliente, non costituisce atto suscettibile di autonoma impugnazione bensì elemento del procedimento di accertamento la cui legittimità è pienamente sindacabile dal giudice tributario. La valutazione da parte dell’autorità giudiziaria sia pure sommaria ed inaudita altera parte non costituisce esercizio di potere discrezionale in senso proprio né può ledere il diritto alla difesa del contribuente in quanto essa è assicurata dalla facoltà di contestare il provvedimento conclusivo dell’attività di accertamento posta in essere dall’Erario.
Opposizione del segreto professionale – Il fatto
Il 20 settembre 2007 militari appartenenti al Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Milano si recavano presso lo Studio Legale e Tributario B. – N. per eseguire una verifica parziale ai fini delle imposte sui redditi per gli anni 2005, 2006 e 2007.
Durante le operazioni di rinvenimento e di acquisizione della documentazione ritenuta significativa, il rappresentante legale del predetto studio associato “eccepiva il segreto professionale con riguardo alla corrispondenza, custodita nei locali in uso ai singoli professionisti associati, intrattenuta con la clientela”.
I militari a quel punto sospendevano le operazioni e chiedevano alla Procura della Repubblica di Milano l’autorizzazione di cui all’art. 52, comma 3, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, richiamato dall’art. 33 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, per l’esame e/o l’acquisizione di documentazioni in deroga al segreto professionale.
Il Pubblico Ministero, con provvedimento n. 5113/Mod. 45 del 20 settembre 2007, autorizzava l’esame dei documenti custoditi nei locali dello Studio Legale B.N. utili ai fini della ricerca e della repressione di eventuali violazioni alla normativa tributaria, ordinando, peraltro, la trasmissione degli atti all’uopo redatti alla stessa Procura.
Lo Studio Legale e Tributario Associato B. – N., con ricorso giurisdizionale notificato il 26 settembre 2007 chiedevano al TAR della Lombardia l’annullamento della predetta autorizzazione, deducendone l’illegittimità per tutta una serie di motivi.
“In sintesi, secondo i ricorrenti, poiché non può dubitarsi che la libertà e la segretezza della corrispondenza costituiscano un diritto fondamentale ed inviolabile di ogni persona e che la relativa limitazione può essere ammessa solo in ipotesi eccezionali e previo atto motivato dell’autorità giudiziaria, l’autorizzazione rilasciata nel caso di specie era priva della indispensabile indicazione delle ragioni che la giustificavano, tale non potendosi ritenere la sola mera richiesta da parte dei militari della Guardia di Finanza; l’atto impugnato, peraltro, non conteneva neppure alcuna valutazione degli interessi pubblici e privati in gioco, né dal suo laconico e tautologico contenuto era possibile desumere la ragionevolezza e la proporzionalità (rispetto agli interessi pubblici in gioco) della disposta deroga al segreto professionale, tanto più che anche la richiesta di autorizzazione era stata assolutamente generica”.
L’adito tribunale dichiarava inammissibile il ricorso per difetto di giurisdizione, ritenendo che la controversia appartenesse alla giurisdizione del giudice tributario.
Gli originari ricorrenti, con rituale e tempestivo atto di appello, hanno chiesto la riforma di tale statuizione. Secondo gli appellanti, invero,
“in maniera assolutamente semplicistica i primi giudici avevano escluso la giurisdizione del giudice amministrativo, erroneamente ritenendo che la questione controversa riguardasse la legittimità del provvedimento autorizzatorio, quale presupposto dell’attività impositiva dell’amministrazione finanziaria, laddove, invece, la contestazione riguardava esclusivamente la legittimità delle concrete modalità di esercizio del potere autorizzatorio attribuito al Procuratore della Repubblica, in quanto incidente sul diritto alla riservatezza dell’attività professionale e quale manifestazione del potere discrezionale della pubblica amministrazione; né poteva sostenersi, sempre secondo gli appellanti, la tesi della inimpugnabilità dell’atto autorizzatorio, evidente essendo in tal caso il contrasto con i principi costituzionali”.
La Procura della Repubblica di Milano, la Guardia di Finanza, il Ministero dell’economia e delle finanze e la Presidenza del Consiglio dei Ministri, costituendosi in giudizio, hanno dedotto l’inammissibilità e l’infondatezza dell’avverso gravame, sostenendo che, poiché l’impugnata autorizzazione si inseriva nel procedimento latamente impositivo, per un verso, essa non era autonomamente impugnabile e, per altro verso, sussisteva la giurisdizione del giudice tributario come correttamente ritenuto dai primi giudici; in via subordinata, a voler ritenere che l’impugnazione non riguardasse l’atto autorizzatorio in quanto tale, bensì le concrete modalità di esercizio del potere conferito al Procuratore della Repubblica di derogare al segreto professionale, poiché si asseriva la lesione del diritto del professionista alla riservatezza della propria attività professionale, la cognizione della controversia spettava al giudice ordinario, non potendo in nessun caso configurarsi la giurisdizione del giudice amministrativo.
Opposizione del segreto professionale – La sentenza
L’appello proposto dai contribuenti è stato ritenuto infondato e quindi respinto. In punto di fatto occorre rilevare che l’autorizzazione rilasciata dal sostituto Procuratore della Repubblica Milano consentiva ai militari del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Milano di esaminare i documenti custoditi presso tale studio (documenti rispetto ai quali era stato eccepito il segreto professionale) ai fini della ricerca e della repressione di eventuali violazioni della normativa tributaria.
“Essa si colloca, pertanto, all’interno di un procedimento di verifica fiscale, di natura impositiva (in quanto finalizzato all’accertamento dell’effettivo assolvimento dell’obbligazione tributaria), cosa che – secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale – ne comporta la impugnabilità soltanto con l’atto finale impositivo innanzi al giudice tributario.
E’ stato, infatti, più volte rilevato che in materia di accertamento delle imposte sui redditi il provvedimento del procuratore della Repubblica, autorizzativo della perquisizione del domicilio del contribuente (ex artt. 52, comma 2, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e 33, comma 1, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600), è un atto amministrativo attraverso il quale l’amministrazione finanziaria esercita il potere impositivo e partecipa direttamente della natura amministrativa del provvedimento considerato, condizionandone la legittimità, ed è pertanto sindacabile dal giudice tributario in base ai principi generali che regolano l’attività dello Stato (Cass. Pen, sez. V, 3 dicembre 2001, n. 15230); inoltre sempre in tema di accertamenti fiscali, ed in particolare di indagini svolte ex artt. del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e 52 e 62 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, è stato precisato che:
a) la Guardia di Finanza, che coopera con gli uffici finanziari, procedendo ad ispezioni, verifiche, richieste ed acquisizioni di notizie, ha l’obbligo di conformarsi alle dette disposizioni, sia quanto alle necessarie autorizzazioni che alle verbalizzazioni;
b) tali indagini hanno carattere amministrativo, e devono essere tenute distinte dalle indagini svolte dalla stessa Guardia di Finanza in veste di polizia giudiziaria diretta all’accertamento di reati (Cass. Pen., sez. V, 16 aprile 2007, n. 8990)”.
Escluso che nel caso di specie l’attività di indagine svolta dai militari della Guardia di Finanza fosse diretta all’accertamento di fatti penalmente rilevanti, conclude così la sentenza:
“sussiste effettivamente la giurisdizione del giudice tributario, da ritenersi competente ogniqualvolta si faccia questione di uno specifico rapporto tributario (o di sanzioni inflitte da uffici tributari), dal cui ambito restano escluse solo le controversie in cui non è direttamente coinvolto un rapporto tributario o viene impugnato un atto generale ovvero venga chiesto il rimborso di una somma indebitamente versata a titolo di tributo”.
Infatti,
“la giurisdizione tributaria è concepita come comprensiva di ogni questione relativa all’esistenza e alla consistenza dell’obbligazione tributaria (Cass. SS.UU., 4 aprile 2006, n. 7806)”.
Inoltre, la Sezione è dell’avviso che nel caso di specie manchino i presupposti, soggettivi ed oggettivi, necessari ad affermare la giurisdizione del giudice amministrativo.
“Invero, sotto il profilo soggettivo, infatti, deve sicuramente negarsi che il Procuratore della Repubblica possa essere considerato un organo amministrativo, titolare di un potere discrezionale di autorizzazione, idoneo a sacrificare in generale i diritti di libertà del cittadino contribuente sub specie della violazione del principio della riservatezza della sua corrispondenza (intrattenuta con il professionista di fiducia).
Benché, come già delineato, il provvedimento autorizzatorio del Procuratore della Repubblica non abbia carattere penale, ma amministrativo (tributario), partecipando direttamente della natura amministrativa (tributaria) del procedimento in cui si inserisce, esso non è finalizzato direttamente alla tutela di un interesse pubblico o fiscale da valutare comparativamente rispetto all’interesse privato in gioco (con conseguente natura recessiva della posizione del cittadino), ma implica un controllo di carattere sostanziale sulla sussistenza in concreto degli indizi di violazione delle leggi tributarie segnalati dagli uffici finanziari e sulla loro gravità.
La potestà valutativa spettante al Procuratore della Repubblica è pertanto espressione di un controllo giudiziale, sia pur sommario e senza contraddittorio, svolto in posizione di terzietà sulla richiesta degli uffici finanziari e in funzione della tutela dei diritti del cittadino, così che non vi è nell’esercizio di tale potere alcuna discrezionalità amministrativa in senso stretto (volta, com’è noto, alla tutela dell’interesse pubblico della cui cura specifica è titolare l’amministrazione)”.
Sotto il diverso profilo oggettivo, la predetta autorizzazione non può configurarsi come esercizio di attività amministrativa in senso stretto:
“invero, in materia tributaria anche l’attività di verifica, in quanto finalizzata all’accertamento dell’esatto adempimento dell’obbligazione tributaria, risulta del tutto priva di qualsiasi carattere discrezionale, circostanza questa che esclude l’esercizio da parte degli uffici finanziari di poteri amministrativi sindacabili innanzi al giudice amministrativo; inoltre, poiché, com’è notorio, l’obbligazione tributaria nasce soltanto quando si siano realizzati tutti i presupposti stabiliti dalla legge, senza alcuna concorrenza di poteri discrezionali da parte degli uffici finanziari, la posizione del contribuente deve essere qualificata sempre e soltanto di diritto soggettivo e giammai di interesse legittimo”.
La giurisdizione amministrativa non può neppure trovare fondamento sulla disposizione contenuta nell’ultimo comma dell’art. 7 della legge 27 luglio 2000, n. 212, secondo cui “la natura tributaria dell’atto non preclude il ricorso agli organi di giustizia amministrativa quando ne ricorrano i presupposti”.
Ed invero la predetta norma deve essere necessariamente letta ed interpretata sistematicamente, nel senso che, proprio coerentemente ai principi costituzionali delineati dagli articoli 24 e 113,
“se deve sicuramente postularsi la giustiziabilità degli atti provenienti dalla pubblica amministrazione, detta giustiziabilità è tuttavia subordinata alla specifica ricorrenza dei presupposti stabiliti dalla legge, presupposti che, come si è accennato, nel caso di specie non sussistono”.
Ricordato, infine, che non può considerarsi sussistente alcun vulnus ai principi predicati dall’art. 24 e 113 della Costituzione per il fatto che l’impugnazione del provvedimento autorizzatorio del Procuratore della Repubblica può essere proposta solo col provvedimento impositivo finale, la Sezione osserva ancora che la pur interessante prospettazione degli appellanti, secondo cui il procedimento potrebbe concludersi senza alcun provvedimento impositivo (qualora si accerti che l’obbligazione tributaria è stata perfettamente adempiuta) e che in tal caso il provvedimento autorizzatorio resterebbe inammissibilmente sottratto ad ogni sindacato giurisdizionale, non è idonea a fondare la giurisdizione amministrativa.
Per un verso, “la Sezione è dell’avviso, anche sulla scorta della ricordata consolidata giurisprudenza in materia, che la natura amministrativa (tributaria) dell’atto autorizzativo non può dipendere dal fatto che il procedimento tributario si concluda o meno con un provvedimento tributario (accertamento); d’altra parte, anche ad ammettere che l’atto autorizzatorio abbia un’immediata, concreta ed effettività lesività, quest’ultima si riverbera esclusivamente su di una posizione di diritto soggettivo, e non già di interesse legittimo: è sufficiente al riguardo rinviare a quanto già precisato in ordine alla natura del controllo svolto dal Procuratore della Repubblica ed alla impossibilità di predicarne la natura di organo amministrativo in senso stretto; a ciò consegue che l’eventuale tutela del diritto alla riservatezza della corrispondenza, in tesi violato nella presente fattispecie, se ammissibile, deve essere azionata davanti al giudice dei diritti”.
La Sezione non ha accolto neanche la richiesta di rinvio pregiudiziale ex art. 234 del Trattato CEE, avanzata sin dal primo grado di giudizio, proprio per gli stessi principi finora affermati.
Il segreto professionale del consulente fiscale – Considerazioni (1)
Già il TAR Lombardia, con ordinanza n. 1548 del 9 ottobre 2007, aveva negato la sospensione cautelare dell’autorizzazione rilasciata dal Procuratore della Repubblica alla Guardia di Finanza per l’esame di documenti custoditi nei locali di uno studio legale tributario, relativamente ai quali era stato eccepito il segreto professionale, considerato che gli effetti lesivi della contestata autorizzazione sono sindacabili nel momento in cui si ripercuotono in via derivata sull’atto di accertamento tributario finale, censurabile innanzi alla competente Commissione tributaria.
In senso conforme si era attestato sempre il TAR Lombardia (5 febbraio 2008, n. 261). In pratica, l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica sarebbe un atto endoprocedimentale, e quindi tutelato in via derivata, dopo l’emissione dell’avviso di accertamento.
Sul punto, tuttavia, per completezza va segnalata la sentenza n. 18603/03 del 24 luglio 2008 della Corte europea dei diritti dell’uomo, che va in senso contrario, sostenendo che l’autorità giudiziaria non può autorizzare ispezioni in uno studio legale (francese, nel caso di specie) per il rischio di far venir meno il rapporto di fiducia fra il legale e il cliente.
Come è noto, se l’accesso presso l’azienda può svolgersi anche in mancanza del titolare, per l’accesso nei confronti del professionista – sottoposto a controllo – è necessaria la presenza del titolare dello studio o di un suo delegato.
In assenza di una tutela costituzionale diretta, il segreto professionale è tutelato dagli artt. 13 e 14 della Costituzione, nell’ambito dei diritti di libertà personale, che nel prevedere l’inviolabilità di tale libertà, ammettono delle deroghe solo dietro atto motivato dell’autorità giudiziaria.
In via generale, la tutela del segreto professionale si impernia sull’art. 622, c.p., ove è previsto il delitto di indebita rivelazione di notizie apprese in ragione del proprio stato, ufficio o professione.
Tale segreto è salvaguardato in ragione dell’esigenza di tutelare l’interesse privato alla riservatezza dei clienti che si rivolgono ad un professionista e dell’esigenza di tutelare l’interesse pubblico a non scoraggiare il ricorso a prestazioni professionali che richiedono la conoscenza di notizie riservate sul conto del cliente.
Sul piano penal-processuale, la tutela del segreto professionale è garantita sotto i profili:
– della facoltà di astenersi dal testimoniare su quanto conosciuto per ragione della propria professione (art. 200, c.p.p.);
– della possibilità di opporsi all’esibizione di atti e documenti richiesti dall’A.G., dichiarando per iscritto che si tratta di notizie coperte dal segreto professionale (art. 256, c.p.p.).
Nel procedimento tributario di controllo (inteso in senso lato), al segreto professionale è attribuita una specifica valenza “limitativa” dei poteri del Fisco, in forza dell’art. 52 del D.P.R. 633/1972, ove è attribuito al professionista la facoltà di eccepire, in sede di accesso, il segreto professionale su documenti e notizie richiesti dai verificatori.
In particolare, l’art. 52, comma 3, del D.P.R. 633/1972, dispone che l’esame di documenti e la richiesta di notizie per i quali è eccepito il segreto professionale possono verificarsi soltanto con l’autorizzazione del procuratore della Repubblica o dell’A.G. più vicina.
Il segreto in questione assume quindi rilevanza solamente se il professionista lo eccepisce nel corso dell’ispezione e, in ogni caso, l’ A.G. può consentire all’organo ispettivo di derogarvi, fatti salvi i limiti imposti dall’art. 103 c.p.p. in tema di garanzie del difensore.
L’eccezione del segreto professionale può riguardare soltanto fatti e circostanze che attengono direttamente alla tutela del diritto alla riservatezza.
Se le notizie riguardanti un proprio cliente sono invece spontaneamente rivelate dal professionista ai verificatori, non avviene alcuna acquisizione illegittima di dati e informazioni da parte di questi ultimi, e le notizie apprese possono essere utilizzate nell’accertamento (in tal senso si confronti la sentenza della C.T.C., Sez. VII, del 18.5.1994, n. 1662).
La decisione del Consiglio di Stato, va quindi sulla scia di un principio consolidato, secondo cui l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica è un atto endoprocedimentale, e quindi tutelato in via derivata, successivamente, dopo l’emissione dell’avviso di accertamento.
In caso di contestazione, all’atto dell’impugnazione dell’avviso di accertamento, – sulla scorta dei vigenti oneri probatori nel processo – potrà quindi essere verificata la legittimità dell’autorizzazione. Si incardinerebbe, dunque, quella sorta di valutazione amministrativa incidentale, cui spesso è chiamato il giudice tributario, tutte le volte in cui si sollevano vizi procedurali che attengono all’area endoprocedimentale che conduce all’avviso di accertamento.
Gianfranco Antico
26 Gennaio 2009
NOTE
(1) Cfr. ANTICO, Accessi, ispezioni e verifiche negli studi professionali: l’opposizione del segreto professionale, in “il fisco”, n. 13/2008, pag. 2333
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