Il tempo impiegato dal dipendente per indossare la tuta o la divisa aziendale rientra nell’orario di lavoro? La risposta non è sempre scontata e può incidere sensibilmente sui diritti del lavoratore. Tutto dipende da chi decide tempi, luoghi e modalità della vestizione. Un approfondimento sui casi concreti aiuta a fare chiarezza.
Indossare la divisa è lavoro? Quando il tempo tuta va retribuito
L’orario di lavoro rappresenta uno degli elementi centrali del rapporto tra azienda e dipendente, dal momento che qualifica, ai sensi del Decreto Legislativo numero 66/2003, il periodo nel corso del quale il lavoratore è al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni.
La definizione di orario di lavoro
La definizione dell’orario di lavoro ha effetti tanto disciplinari (il dipendente assente ingiustificato nel corso delle fasce temporali di esecuzione della prestazione incorre in sanzioni che possono portare sino al licenziamento per giusta causa senza preavviso) quanto economici (il datore di lavoro è tenuto a corrispondere la retribuzione per i periodi di esecuzione dell’attività).
Assunta la definizione, sopra citata, di cui al Decreto Legislativo 8 aprile 2003, numero 66, articolo 1, comma 2, lettera a), la giurisprudenza di Cassazione considera orario di lavoro l’arco temporale comunque trascorso dal dipendente all’interno dell’azienda nell’espletamento di attività accessorie e prodromiche allo svolgimento, in senso stretto, delle mansioni affidategli (a meno che l’azienda non provi che il lavoratore è libero di autodeterminarsi ovvero non è assoggettato al potere gerarchico).
Partendo dal pensiero della Corte di Cassazione sorge spontaneo il dubbio circa il cosiddetto tempo tuta. In quali ipotesi è da considerarsi orario di lavoro?
Analizziamo la questione in dettaglio.
Cos’è il tempo tuta?
Il tempo tuta identifica le attività di vestizione e svestizione che il datore di lavoro impone ai propri dipendenti, al fine di indossare una divisa aziendale.
Sempre l’azienda si preoccupa di definire il tempo e il luogo di esecuzione dell’operazione.
Alle condizioni descritte il tempo tuta si qualifica, secondo la giurisprudenza di Cassazione, come orario di lavoro e, pertanto, dev’essere retribuito.
Nel rapporto di lavoro subordinato infatti, il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale rientra nell’orario di lavoro se è assoggettato al potere direttivo del datore di lavoro, il quale impone l’utilizzo della divisa prima di iniziare il servizio.
La vestizione – svestizione conferiscono al dipendente il diritto alla retribuzione soltanto se non rientrano, in definitiva, nella libera discrezionalità del lavoratore stesso.
Come si esprime l’etero-direzione del datore di lavoro?
Per verificare l’esistenza di un potere direttivo da parte dell’azienda, in merito agli indumenti del lavoratore è necessario accertare in concreto (in alternativa):
- l’esistenza o meno di un’obbligazione scritta, ad esempio contenuto in un regolamento interno o indicata nella lettera / contratto di assunzione;
- la presenza di spogliatoi ed armadietti in cui devono essere riposte le divise al termine del servizio;
- la presenza di un divieto del datore di lavoro di uscire dai luoghi di lavoro indossando la divisa;
- l’esistenza di un servizio offerto dalle aziende di sanificare e lavare le divise dei dipendenti, appositamente fornite per lo svolgimento della prestazione lavorativa (dal momento che genera necessariamente l’obbligazione di lasciare gli indumenti sul posto di lavoro).
Un caso tipico di etero-direzione del datore di lavoro è quello che interessa il personale sanitario, posto che tutti i dipendenti sono obbligati, tanto dall’azienda quanto per legge, ad indossare il camice e determinati dispositivi (compresi i DPI) prima di iniziare il turno di lavoro.
Stando alla Cassazione (sentenza numero 16180/2019) trattasi in queste ipotesi di esigenze aziendali imprescindibili e come tali devono rientrare nel tempo di lavoro retribuito, non avendo il dipendente la possibilità di agire diversamente ed indossare la divisa da casa.
Altra ipotesi è quella dei dipendenti di supermercati, in particolare quelli che lavorano nei reparti in cui si è a stretto contatto con i cibi e il loro confezionamento (reparto macelleria, gastronomia e pescheria) dove, per ragioni igieniche, non è possibile uscire dai locali con la divisa aziendale per il rischio di contaminare i prodotti.
Le conseguenze dell’etero-direzione: il tempo percorrenza
Nel momento in cui l’attività di vestizione – svestizione è imposta dal datore di lavoro (in maniera esplicita o implicita) nell’esercizio del suo potere direttivo, rientra nel concetto di orario di lavoro anche il cosiddetto “tempo di percorrenza”.
Tale si intende il tempo impiegato dal dipendente per recarsi dallo spogliatoio al reparto, quale luogo deputato allo svolgimento della prestazione lavorativa manuale e / o intellettuale dedotta nel contratto o nelle intese successivamente intercorse.
Quando il tempo tuta non è orario di lavoro?
Nelle ipotesi in cui il dipendente è libero di determinare le modalità e il luogo di vestizione – svestizione, senza alcun esercizio esplicito o implicito del potere direttivo aziendale, l’attività in parola non rientra nell’orario di lavoro e, pertanto, non dev’essere retribuita.
Come comportarsi con i DPI?
I Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) non rientrano automaticamente nel concetto di indumenti di lavoro e, di conseguenza, il loro utilizzo non si qualifica in maniera assoluta come orario di lavoro.
Se risulta accertato che il dipendente può indossare i DPI prima di iniziare il turno ovvero gli stessi possono essere dismessi una volta terminato il turno, non sorge alcun diritto retributivo in capo al lavoratore stesso.
Il tempo-tuta è orario di lavoro: quali conseguenze?
Qualificare il tempo-tuta come orario di lavoro comporta che lo stesso è da parificarsi, tanto a livello retributivo quanto normativo, all’attività manuale e / o intellettuale svolta dal dipendente.
Dalla parificazione citata si generano una serie di conseguenze, quali:
- l’assoggettamento del dipendente al potere disciplinare dell’azienda, anche con riguardo al comportamento tenuto nel corso del tempo-tuta;
- la qualificazione in cedolino paga del tempo-tuta come vero e proprio orario di lavoro da retribuire;
- la rilevanza dei minuti svolti come tempo-tuta ai fini del riconoscimento di eventuali straordinari o supplementari, così come nell’ottica del rispetto delle disposizioni normative in materia di pause giornaliere, riposi giornalieri e settimanali ed orario massimo di lavoro.
Conclusioni
Il datore di lavoro – professionista incaricato che intende proteggersi con riguardo a possibili contestazioni circa la qualificazione del tempo tuta come orario lavorativo è chiamato a:
- verificare se esiste una previsione contrattuale (all’interno degli accordi nazionali, territoriali o aziendali) circa la categorizzazione del tempo tuta come lavorativo;
- in assenza di una disposizione contrattuale esplicita, è necessario accertarsi se gli indumenti di lavoro e i DPI possono essere indossati e rimossi necessariamente sul luogo di lavoro o, al contrario, è possibile realizzare le operazioni descritte anche al proprio domicilio / residenza;
- se risulta un’etero-direzione da parte del datore di lavoro, in merito alle modalità e al luogo di vestizione – svestizione determinare la durata delle suddette operazioni (al fine della corretta compensazione delle stesse in busta paga) eventualmente attraverso l’adozione di appositi regolamenti o policy
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Paolo Ballanti
Martedì 15 aprile 2025