Le prime valutazioni sulla sentenza di Cassazione sulla validità degli atti firmati dai dirigenti illegittimi, con tanti spunti utili per il contenzioso futuro

ha fatto molto scalpore la decisione della Cassazione di salvare gli atti sottoscritti dai dirigenti definiti illegittimi; la lunga sentenza della Cassazione nasconde molti aspetti da analizzare, non basta leggere il titolo gridato sulla stampa

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 22810 del 09.11.2015, ha messo la parola fine sulla annosa questione della legittimità degli atti sottoscritti dagli ex incaricati dirigenziali dell’Agenzia delle Entrate, decaduti a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 37/2015.

Afferma infatti la Corte che le cause di nullità degli avvisi di accertamento sono tassative e tra queste non rientra la mancanza della qualifica dirigenziale dei funzionari che abbiano sottoscritto rispettivamente la delega di firma o i predetti avvisi.

L’articolo 42 del Dpr 600/1973, nel precisare i requisiti dell’avviso di accertamento, prevede soltanto che l’atto sia sottoscritto dal capo dell’ufficio, o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato, senza richiedere quindi che il soggetto che firma debba anche rivestire una qualifica dirigenziale.

La sentenza ha peraltro affrontato quella che era la fattispecie a maggior “rischio” per l’Agenzia e cioè quella in cui la delega di firma a un funzionario della terza area funzionale era stata rilasciata da un capo ufficio, che, a sua volta, non aveva la qualifica dirigenziale.

La Corte ha inoltre anche ribadito che le forme di invalidità dell’atto tributario non sono rilevabili d’ufficio, né possono essere fatte valere per la prima volta successivamente alla proposizione del ricorso in primo grado (in tal senso, Cassazione, sentenze 18448/2015, 21307/2015 e 22803/2015).

La Cassazione ha dunque individuato nel capo dell’ufficio “per il solo fatto di essere stato nominato tale, l’agente capace di manifestare la volontà dell’amministrazione finanziaria negli atti a rilevanza esterna” e ha chiarito che gli impiegati della ex carriera direttiva sono attualmente riconducibili ai funzionari della terza area funzionale, a cui, ordinariamente, tali deleghe erano conferite.

Analoghi principi e comunque analoghe conclusioni sono state infine affermate (seppur più focalizzate su questioni procedurali) dalla Corte anche con le sentenze 22800 e 22803 dello stesso giorno (quest’ultima, ha per esempio specificato che la delega non può essere in bianco).

La Corte suprema, nella sentenza in commento, ha quindi enunciato i seguenti principi di diritto:

i) l’avviso di accertamento è nullo se non reca la sottoscrizione del capo ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva; in base al principio della tassatività delle cause di nullità non occorre che i funzionari deleganti o delegati siano dirigenti;

ii) alla luce delle evoluzioni normative e contrattuali succedutesi dal 1973 sono riconducibili agli impiegati della ex carriera direttiva i funzionari della attuale terza area funzionale;

iii) ove il contribuente contesti la legittimazione alla sottoscrizione dell’atto impugnato, è onere dell’Agenzia delle entrate fornire la prova del possesso dei requisiti soggettivi indicati dalla legge, nonché della esistenza della delega in capo al delegato; e ciò in virtù dei principi di leale collaborazione e della vicinanza della prova”.

La questione dunque che i dirigenti dell’Agenzia delle Entrate, che hanno rivestito il ruolo di “dirigenti di fiducia” presso l’Amministrazione finanziaria, non perché avessero vinto il concorso, ma solo per coprire dei posti vacanti per un certo periodo di tempo, erano illegittimi, non rileva in alcun modo con la legittimità degli atti dagli stessi funzionari sottoscritti.

Ma per verificare se tali atti fossero eventualmente illegittimi bisognava del resto necessariamente partire da se la delega conferita, nell’ambito delle specifiche regole stabilite in sede tributaria dall’art. 42 del Dpr 600/73, fosse o meno legittima.

Delega, che, nel caso di specie, non era, in realtà, delega di funzioni, ma mera delega di firma, che appunto, in quanto tale, dal citato articolo riceveva in campo tributario specifica e determinata disciplina.

La delega è infatti, in generale, un atto amministrativo datoriale, per effetto del quale, nei casi previsti dalla legge, un organo o un ente, investito in via originaria della competenza a provvedere in una determinata materia, conferisce ad altro organo o ente, autoritativamente ed unilateralmente, una competenza di tipo derivato in quella stessa materia.

Il soggetto che adotta l’atto di delega deve averne dunque la competenza. La mancanza della competenza è causa di nullità o annullabilità dell’atto, secondo la gravità dell’incompetenza (difetto assoluto di attribuzione o incompetenza relativa) ai sensi degli articoli 21-septies e 21-opties della l. n. 241/1990.

La competenza è stabilita per legge, che individua e ripartisce i poteri tra i diversi soggetti, organi e uffici delle pubbliche amministrazioni. Lo spostamento della competenza si può attuare attraverso la delega di funzioni (cosa diversa dalla delega di firma), laddove lo spostamento della competenza può avvenire tra due organi dello stesso ente (iterorganica), o tra due enti (intersoggettiva).

Ma nel caso di specie non c’era spostamento di competenza, trattandosi in realtà di mera delega di firma.

La delega di firma intercorre infatti, come appunto avveniva anche nei casi di specie, tra soggetti che fanno parte dello stesso organo–ufficio.

Essa quindi non comporta spostamento della competenza e il delegante può firmare in qualsiasi momento gli atti per i quali ha dato la delega di firma, che viene conferita per le attività strumentali all’attività provvedimentale (conclusiva del procedimento).

Così appunto esattamente accadeva nel caso degli incaricati, poi risultati illegittimi, laddove il Direttore Provinciale o il Direttore Regionale delegavano alla firma i funzionari temporaneamente incaricati.

In ambito tributario, quindi, ciò che rilevava e rileva è la norma “speciale”, laddove il primo comma dell’art. 42 del D.P.R. 600/73, nel disciplinare gli aspetti formali e sostanziali del provvedimento amministrativo, prevede che: “Gli accertamenti in rettifica e gli accertamenti d’ufficio sono portati a conoscenza dei contribuenti mediante la notificazione di avvisi sottoscritti dal capo dell’ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato…”.

Si parla dunque solo di “sottoscrizione” e si parla solo di capo dell’Ufficio (anche quindi non dirigenziale, ma individuato come tale nell’organizzazione del lavoro dell’Amministrazione), o di altro impiegato della carriera direttiva, sul cui esatto significativo la Corte fa una ricostruzione evolutiva della relativa disciplina, laddove comunque l’impiegato della carriera direttiva, alla fine dei conti, individua semplicemente i funzionari della terza Area dell’Agenzia, cioè quelli assunti a seguito di pubblico concorso, a cui accedere in possesso di laurea.

Spesso, anche per fini mediatici, su tale dizione “impiegato della carriera direttiva” si è invece fatta molta confusione. Con tale espressione non ci si riferisce infatti a dirigenti, ma a funzionari, laddove il CCNL delle Agenzie fiscali prevede un sistema di classificazione del personale non dirigenziale articolato in tre aree. I funzionari appartenenti alla terza area professionale sono dunque quelli che appartengono alla citata carriera direttiva.

In conclusione, restando in ogni caso il diritto del contribuente verificare l’esistenza di una delega e soprattutto verificare che il delegato sia in possesso dei requisiti professionali che gli permettano di agire per conto del capo dell’ufficio (appartenere cioè alla carriera direttiva), come ora confermato dalla Corte, era piuttosto pacifico che, nella sostanza, non si potesse escludere la piena validità dell’atto.

Laddove, come detto, si tratti di mera delega di firma, si poteva anzi addirittura affermare anche un principio di insindacabilità della delega del capo ufficio innanzi all’autorità giurisdizionale, riconducibile al fatto che la delega non risulterebbe suscettibile di verifiche di legittimità in virtù della sua qualità di atto interno agli uffici. Ma per trasparenza e rispetto dei principi dello Statuto del contribuente, come anche concluso dalla Corte, tale diritto di verifica resta in capo al contribuente, essendo anzi onere dell’Agenzia, laddove contestato, fornire la prova della legittimità, anche formale, della delega, dovendo in essa precisare, oltre alla persona delegata, anche l’oggetto, i limiti temporali della delega e nello specifico gli atti che il delegato dovrà e potrà compiere in sostituzione del delegante.

Il solo dubbio poteva esserci, semmai, laddove la delega all’incaricato fosse stata a sua volta conferita da un soggetto illegittimo (come peraltro nel caso affrontato dalla Corte). Ma questo sempre nel caso in cui si fosse trattato di delega di funzioni.

Ma in realtà, come detto e come implicitamente confermato anche dalla Corte, si trattava solo di delega di firma, rispondente a mere esigenze di deconcentrazione del lavoro amministrativo, senza possibilità di creare particolari rapporti tra delegante e delegato; come anche dimostrato dal fatto che tutti gli atti erano indicati con la dizione “Firma su delega del Direttore Provinciale”.

La delega di firma è quindi un istituto assimilabile più alla rappresentanza che non alla delega vera e propria, in quanto la firma del funzionario impegna direttamente il titolare della funzione, sul quale grava tutta la responsabilità dell’atto emanato.

Ciò che dunque nel caso di specie era illegittimo non erano gli atti firmati dagli incaricati illegittimi, ma, come espressamente affermato dalla Consulta, gli incarichi dirigenziali conferiti a tali funzionari. Ma questo non aveva alcun rilievo ai fini della legittimità degli atti dagli stessi nel frattempo sottoscritti.

Insomma, l’istituto della delega di firma non risponde in alcun modo alle logiche della delega di funzioni, poiché ha una consistenza e una natura del tutto diverse, trattandosi semplicemente di un atto che serve a definire l’organizzazione del lavoro all’interno di un ufficio.

A tal proposito anche parte della dottrina ha rilevato che la designazione del responsabile del procedimento, di cui all’articolo 5 della legge 241/1990, sarebbe qualificabile come delega di firma: “attraverso tale delega il responsabile dell’adozione del provvedimento amministrativo individua un dipendente del proprio ufficio il quale provvederà all’apposizione materiale della firma sul provvedimento finale, ferma restando la possibilità dell’adozione di questo in capo al primo, ossia al delegante (che sarebbe il dirigente dell’unità organizzativa)” (così F. Caringella, “Corso di Diritto Amministrativo”).

Per concludere, l’art. 42, primo comma, del D.P.R. 600/73 statuisce, come detto, che “Gli accertamenti in rettifica e gli accertamenti d’ufficio sono portati a conoscenza dei contribuenti mediante la notificazione di avvisi sottoscritti dal capo dell’ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato….”.

A sua volta l’ultimo comma rileva che “L’accertamento è nullo se l’avviso non reca la sottoscrizione, le indicazioni e la motivazione di cui al presente articolo.”

Per quanto detto finora si trattava, in sostanza, senz’altro, di delega di firma, con anche un’ulteriore considerazione che “salva” gli atti comunque sottoscritti, come anche in questo caso espressamente evidenziato dalla Suprema Corte.

Il principio della c.d. tassatività delle nullità.

Secondo quanto disposto dall’art. 42 del Dpr 600/73, si ha infatti nullità dell’atto solo se l’avviso di accertamento non reca la sottoscrizione.

Ciò vuol dire che se c’è una sottoscrizione, il problema della delega sarebbe, al massimo, riconducibile ad una difformità i cui effetti si risolvono meramente nella irregolaritàdell’atto.

E del resto, anche dopo la sentenza della Corte Costituzionale, sempre con delega di firma, i funzionari hanno continuato semplicemente a sottoscrivere gli atti e a svolgere le attività che già prima venivano svolte, solo senza essere considerati (né pagati) come dirigenti. Eppure nessuno contesta la legittimità degli atti attualmente sottoscritti.

Insomma, una questione solo organizzativa (seppur con aspetti censurati dalla Consulta) non può avere riflessi sulla validità esterna degli atti, emessi peraltro in ottemperanza al dovere costituzionale di cui all’art. 53 Costituzione.

E allora, per tutti i sopraddetti motivi, i giudici di legittimità, dopo aver evidenziato che il ricorso era comunque inammissibile per motivi procedurali, dato che “l‘eccepito aggiramento della regola costituzionale di accesso alla carriera dirigenziale quanto a quel soggetto, per aver rivestito la qualifica senza superamento delle legittime procedure, non risulta affatto dall’impugnata sentenza, né è evidenziata in termini di autosufficienza nel ricorso per cassazione. Il quale ricorso non documenta neppure se la parte ricorrente abbia mai invitato l’amministrazione a dichiarare quale fosse la qualifica del soggetto delegante e/o del soggetto firmatario dell’atto fiscale, in modo da potersi in qualche misura apprezzare che sia mai stato in effetti posto in dubbio (quanto meno) il possesso, nel primo o nel secondo, della qualifica funzionale”, con obiter dictum, visto che “la questione si presenta di particolare importanza avendo determinato, con ampio risalto mediatico, caotiche interpretazioni in sede di merito”, risolvono chiaramente e definitivamente la vicenda, affermando che:

  • Le questioni dell’esistenza del potere di firma (non a caso la Corte parla solo di potere di firma) del soggetto preposto e/o della esistenza e della validità della delega conferita all’eventuale soggetto sottoposto possono certamente essere contestate e verificate in sede giurisdizionale tributaria, implicando l’indagine e l’accertamento sul tema un controllo, non sull’organizzazione interna della p.a., ma sulla legittimità dell’esercizio della funzione amministrativa prevista a pena di nullità quanto agli atti integranti la relativa estrinsecazione.

  • Tuttavia che, ai fini della valida sottoscrizione di un atto impositivo, sarebbe necessario in chi ha sottoscritto l’atto, ovvero ha conferito la delega, il possesso di una qualifica dirigenziale, non è giustificato dal dato normativo, e dunque non è corretto, dato che il d.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, 1c. 1, si limita a prevedere che gli avvisi, con cui sono portati a conoscenza dei contribuenti gli accertamenti in rettifica e gli accertamenti d’ufficio, sono sottoscritti dal “capo dell’ufficio” o “da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato“, senza richiedere che il capo dell’ufficio abbia a rivestire anche una qualifica dirigenziale.

  • La norma, quindi, individua nel capo dell’ufficio, per il solo fatto di essere stato nominato tale, l’agente capace di manifestare la volontà dell’ amministrazione finanziaria negli atti a rilevanza esterna. In tal modo identifica quale debba essere in definitiva la professionalità per legge idonea a emettere atti suscettibili di produrre i previsti effetti nella sfera giuridica del destinatario.

  • L’atto impositivo può essere del resto sottoscritto anche da un “altro” impiegato della carriera direttiva delegato dal capo dell’ufficio, laddove tale “altro” impiegato può essere un funzionario di area direttiva non dirigenziale, evincendosi peraltro “per proprietà transitiva” che la medesima qualifica di impiegato della carriera direttiva può rivestire, in base alla stessa norma di legge, anche il capo ufficio delegante (altrimenti non si sarebbe detto “altro” impiegato della carriera direttiva); “posizione in tal misura necessaria ma anche sufficiente ai fini specifici della validità degli atti”.

In conclusione, le norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, pur se di rango paritario rispetto all’art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973, non interferiscono col regime di validità degli atti “solo da tale norma derivante”.

L’autonoma valenza riconosciuta all’art. 42 trova conforto, del resto, evidenzia ancora la Corte, nella costante affermazione giurisprudenziale secondo cui va esclusa, in materia tributaria, l’applicazione del principio desumibile dall’art. 21-octies della 1. n. 241 del 1990, secondo il quale è in sé invalido l’atto amministrativo emanato in violazione di una norma di legge. Sicché la nullità, nel caso di specie, “è soltanto quella rigidamente circoscritta dai limiti dell’art. 42 citato”, anche considerato che la ratio della previsione normativa ex art. 42 cit. mira a circoscrivere, per quanto possibile, le fasi di interruzione dell’azione amministrativa di accertamento, coincidenti, per esempio, con la durata di espletamento di concorsi per l’attribuzione di qualifiche dirigenziali (altrimenti, in sostanza, fino a che non fossero dichiarati i nuovi dirigenti vincitori di concorso l’Amministrazione resterebbe paralizzata), anche tenuto conto del fatto che, in ambito fiscale, come in altri di rilevanza essenziale per l’ordinamento, la celerità dell’azione amministrativa coincide con l’efficienza, ed è presidiata da altrettante norme costituzionali (art. 53 e 97 cost.).

In definitiva, la richiamata pronuncia n. 37 del 2015 “non supera, sul piano effettuale, i confini del rapporto interno (di impiego o di servizio) tra l’amministrazione e il personale direttivo, e non attinge la sorte degli atti, rispetto ai quali rileva in modo autosufficiente (solo) l’art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973”.

12 novembre 2015

Giovambattista Palumbo