La formale regolarità della contabilità non salva dalla verfica fiscale fondata sulla "resa oraria"

la mera regolarità formale di una contabilità non esclude che il Fisco possa accertare maggiori redditi in base ad indizi che nascono da anomalie rilevate nella gestione complessiva dell’attività esercitata dal contribuente

 

Con la sentenza n. 13734 del 3 luglio 2015 (ud. del 16 aprile 2015) la Corte di Cassazione ha confermato che la contabilità formalmente regolare non salva il contribuente dalla rettifica dell’ufficio (nel caso specifico officina, la ricostruzione dei ricavi era fondata su un solo elemento costituito dalla “resa oraria”).

La pronuncia

La Corte rileva che ha già avuto modo di affermare che “l’accertamento induttivo del reddito è consentito anche in presenza di scritture contabili formalmente corrette qualora la contabilità possa essere considerata complessivamente inattendibile, in quanto confliggente con regole fondamentali di ragionevolezza (Cass. 5870/2003)”.

Nel caso di specie “risultano una pluralità di elementi evidenziati dall’Ufficio che non sono stati in alcun modo valutati dalla CTR, quali l’assoluta antieconomicità dell’attività esercitata dal contribuente alla luce dell’esiguità del reddito dichiarato, la superficie effettiva dell’officina, risultata di gran lunga superiore a quella dichiarata (128 mq. a fronte di 50 mq indicati nel questionario allegato alla dichiarazione dei redditi), l’irregolare indicazione delle rimanenze, in violazione dell’ art. 59 TUIR, non essendo stato indicato né l’anno di formazione, né la suddivisione delle stesse in categorie omogenee”.

Brevi considerazioni

La presenza di scritture contabili formalmente regolari non preclude all’amministrazione finanziaria di procedere, legittimamente, all’accertamento analitico induttivo dei ricavi (o del reddito d’impresa) dichiarati da un contribuente che, nel corso dell’esercizio controllato, abbia posto in essere un comportamento palesemente antieconomico. La norma che dà forza agli uffici è l’art. 39, c. 1, lett. d, del D.P.R. n. 600/1973, secondo cui “…l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti” (ai fini IVA trova applicazione l’art. 54 del D.P.R. n. 633/1972).

La rettifica analitica, con posta induttiva sui ricavi, di cui all’art. 39, c. 1, lett. d, del D.P.R. n. 600/1973, consente infatti di ricostruire i ricavi, in presenza di presunzioni gravi, precise e concordanti, da rendere inattendibili le risultanze documentali per mancanza delle garanzie inerenti a una contabilità sistematica.

Per giurisprudenza costante della Corte di Cassazione1il procedimento presuntivo consiste nella interpretazione di un fatto certo – in quanto pacificamente riconosciuto o acclarato dal giudice attraverso i mezzi di prova legittimamente acquisiti, o desumibili dalle nozioni di fatto che rientrano nell’ambito della comune esperienza – per risalire ad un fatto ignoto, che costituisce in se stesso oggetto del thema probandum e che viene ritenuto provato in quanto correlato con logica conseguenzialità al primo. Devesi tener presente al riguardo: che gravi sono gli elementi presuntivi oggettivamente e intrinsecamente consistenti e come tali resistenti alle possibili obiezioni, precisi sono quelli dotati di specificità e concretezza e non suscettibili di diversa altrettanto (o più) verosimile interpretazione, e concordanti sono quelli non confliggenti tra loro e non smentiti da altri dati ugualmente certi. In altre parole, la gravità dell’elemento indiziario ne esprime la capacità dimostrativa in funzione del tema della prova, la precisione risponde a una esigenza di univocità, e la concordanza soddisfa la necessità di una valutazione integrata e complessiva di tutti gli elementi che presentino singolarmente una almeno parziale rilevanza probatoria positiva. Peraltro, non si richiede che i fatti su cui la presunzione si fonda siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignorato come l’unica conseguenza possibile secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva, essendo sufficiente invece che, alla luce delle regole di esperienza e secondo l’id quod plerumque accidit, il fatto ignoto sia desumibile alla stregua di un canone di probabilità con riferimento a una connessione di accadimenti ragionevolmente verosimile in base a un criterio di normalità2.

Pur legittimo indirizzare il controllo sugli aspetti gestionali, economici e finanziari più significativi e rilevanti ai fini fiscali, resta fermo che “il fisco non può certo interferire nel merito delle scelte imprenditoriali, disconoscendo la deducibilità di costi sostenuti in operazioni che, a posteriori, si sono rilevate un cattivo affare, né sindacare sulla necessarietà o meno di un costo”3.

 

Comunque, rientra nei poteri dell’amministrazione finanziaria la valutazione della congruità dei costi e dei ricavi esposti in bilancio e nelle dichiarazioni e la rettifica di quest’ultime, anche se non ricorrono irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi degli atti giuridici compiuti nell’esercizio dell’impresa, con negazione della deducibilità, totale o parziale, di un costo ritenuto insussistente o sproporzionato.

Pertanto, in presenza di un comportamento assolutamente contrario ai canoni dell’economia, che il contribuente non spieghi in alcun modo, è legittimo l’accertamento del reddito d’impresa ai sensi dell’art.39, c. 1, lett. d, del D.P.R. 29 settembre 1973, n.600, il quale consente di desumere l’esistenza di ricavi non dichiarati anche sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti.

 

Evidenziamo che, con l’ordinanza n. 18244 del 25 ottobre 2012, la Corte di Cassazione aveva ancora una volta legittimato l’accertamento analitico induttivo, ex art. 39, c. 1, lett. d, D.P.R. n. 600/1973, pur in presenza di contabilità formalmente regolare, ma inattendibile complessivamente, per contrasto con i canoni della ragionevolezza. In questa ipotesi, l’accertamento “è assistito da presunzione di legittimità circa l’operato degli accertatori, nel senso che null’altro l’ufficio è tenuto a provare, se non quanto emerge dal procedimento deduttivo fondato sulle risultanze esposte, mentre grava sul contribuente l’onere di dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate, anche in relazione alla contestata antieconomicità delle stesse, senza che sia sufficiente invocare l’apparente regolarità delle annotazioni contabili, perché proprio una tale condotta è di regola alla base di documenti emessi per operazioni inesistenti o di valore di gran lunga eccedente quello effettivo” (cfr Cassazione, sentenze 951/2009 e 24532/2007).

Rileviamo, ancora, che con l’ordinanza n.19550 del 9 novembre 2012 la Corte di Cassazione ha confermato che “in tema di accertamento induttivo dei redditi, l’Amministrazione finanziaria può – ai sensi dell’art. 39 del d.P.R. n. 603 del 1973 – fondare il proprio accertamento sia sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili “dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio dell’attività svolta”, sia sugli studi di settore, nel quale ultimo caso l’Ufficio non è tenuto a verificare tutti i dati richiesti per uno studio generale di settore, potendo basarsi anche solo su alcuni elementi ritenuti sintomatici per la ricostruzione del reddito del contribuente, come nella specie (Cfr. anche Cass. Sentenza n. 16430 del 27/07/2011; Sez. U, Sentenza n. 26635 del 18/12/2009)”. Peraltro, prosegue la sentenza, “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, la presenza di scritture contabili formalmente corrette non esclude la legittimità dell’accertamento analitico – induttivo del reddito d’impresa, ai sensi dell’art. 39, primo comma, lett. d), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, qualora la contabilità stessa possa considerarsi complessivamente inattendibile in quanto confliggente con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo della antieconomicità del comportamento del contribuente. Pertanto in tali casi è consentito ai l’ufficio dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla base di presunzioni semplici – purché gravi, precise e concordanti – maggiori ricavi o minori costi, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente, clic nella specie tuttavia non 1′aveva assolto (V. pure Cass. Sentenze n. 6337 del 03/05/2002, n. 11645 del 2001)”.

E la stessa Corte di Cassazione, con l’ordinanza n.2486 del 1° febbraio 2013, ha confermato che “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, la presenza di scritture contabili formalmente corrette non esclude la legittimità dell’accertamento analitico-induttivo del reddito d’impresa, ai sensi dell’art. 39, primo comma, lett. D), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, qualora la contabilità stessa possa considerarsi complessivamente inattendibile in quanto configgente con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo della antieconomicità del comportamento del contribuente. Pertanto è consentito all’ufficio, in tali casi, dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate, e desumere maggiori ricavi o minori costi sulla base di presunzioni semplici – purché gravi, precise e concordanti – come nella specie. Ad esempio può persino determinare il reddito del contribuente utilizzando le percentuali di ricarico, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del medesimo (Cfr. anche Cass. sentenze n. 7871 del 18/05/2012, n. 6852 del 2009)”.

9 settembre 2015

Francesco Buetto

1 Fra le altre, Cass., Sez.I, Sent. del 28 agosto 1996, n. 7931.

2 In senso conforme, Cass.,Sez.I, Sent. del 14 agosto 1992, n.9583; Sez.I, Sent.del 26 novembre 1994, n. 10058; Sez.I, Sent. del 3 dicembre 1994, n.10408.

3 LUPI, Manuale giuridico professionale di diritto tributario, Milano, 2001, pag. 579.