I passaggi giurisprudenziali più significativi letti attraverso gli interventi di prassi dell’Amministrazione finanziaria

approfondiamo gli aspetti più importanti del contenzioso da studi di settore: il contraddittorio, l’inerzia del contribuente e le sue conseguenze, il valore delle rpensuzioni, le prove da offrire contro lo standard…

Premessa

Come è noto, con le istruzioni confluite nella circolare n. 5/E del 23 gennaio 2008, l’Agenzia delle Entrate ha effettuato, fra l’altro, una seria riflessione in ordine alle modalità di utilizzo, in fase di accertamento, delle risultanze derivanti dall’applicazione degli studi di settore1, escludendo che “l’utilizzo possa avvenire in modo indiscriminato” (o “automatico”), e rappresentando che la motivazione degli atti di accertamento basati sugli studi di settore non deve essere “di regola” rappresentata dal mero, “automatico” rinvio alle risultanze degli studi di settore, ma deve dare conto in modo esplicito delle valutazioni che, a seguito del contraddittorio col contribuente, hanno condotto l’Ufficio a ritenere fondatamente attribuibili i maggiori ricavi o compensi determinati anche tenendo conto degli indicatori di normalità.

Per gli accertamenti basati sugli studi di settore2, l’instaurazione del procedimento di adesione e lo svolgimento del contraddittorio costituiscono un percorso obbligato per giungere ad una più fondata e ragionevole misurazione del presupposto impositivo e per valutare in concreto l’eventuale “prova contraria” – che influisce sul mancato adeguamento -, e che in ogni caso costituisce il momento iniziale di un percorso che potrà portare all’emissione dell’avviso di accertamento.

L’essenzialità del contraddittorio è stata affermata dalla più autorevole dottrina3, “giacché postula che, in quella sede, il contribuente indichi le ragioni che, a suo avviso, non consentono di ritenere applicabile lo studio di settore invocato dall’Agenzia, ovvero le ragioni che giustificano l’anzidetto scostamento. In sede di contraddittorio, quindi, compete al contribuente, che intenda evitare l’emanazione di un avviso di rettifica, l’onere di indicare, anche se non di dimostrare, l’esistenza di circostanze che tolgano rilevanza induttiva al risultato desumibile dallo studio sia per quanto concerne la sua applicabilità alla fattispecie, sia per quanto riguarda quelle (le più varie) che possano spiegare lo scostamento (dagli impedimenti allo svolgimento dell’attività derivanti da fatti personali, alle caratteristiche organizzative dell’attività, alle eventuali crisi del settore nel quale il contribuente opera)”.

Attraverso il contraddittorio l’ufficio viene reso edotto di tutta una serie di elementi di cui magari prima non era a conoscenza, elementi che il funzionario deve “prendere in considerazione e verificare, cosicché non può notificare avviso di rettifica se non corredandone la motivazione con il disconoscimento o la confutazione dell’esistenza dei fatti addotti in sede di contraddittorio amministrativo, fatti indicati anche, in via esemplificativa, ma, ovviamente, senza pretesa di completezza, nelle circolari dell’Agenzia4.

Diversamente, “in caso di mancata partecipazione al contraddittorio, l’Agenzia può, invece, legittimamente emanare l’avviso di rettifica, salva, per il contribuente, la possibilità di proporre le proprie eccezioni in sede processuale, ma, in questa ipotesi, con inversione, a mio avviso, dell’oneredella prova. L’avviso di rettifica, infatti, non si può in tal caso ritenere viziato da nullità per difetto di motivazione ed i fatti dedotti dal contribuente si atteggiano come impeditivi rispetto alla pretesa tributaria, cosicché l’onere di provarli non può che competergli, in quanto, rinunciando e dedurli nella fase amministrativa, egli ha dispensato l’Agenzia dall’obbligo di prenderli preventivamente in considerazione. È, quindi, particolarmente importante avvalersi in modo corretto del contraddittorio, nel quale il contribuente non può limitarsi, come mi è capitato di vedere talvolta, a lamentare la gravosità della determinazione del ricavo attuata in base allo studio, ma deve indicare le ragioni per le quali lo studio medesimo non può essere riferito alla sua attività ovvero le ragioni, per così dire patologiche, in forza delle quali l’attività medesima si pone al di fuori di quella normalità che il risultato dello studio presuppone5.

L’Amministrazione finanziaria ha, quindi, assunto su di se un obbligo di “motivazione preventiva” (da offrire, appunto, in occasione del contraddittorio) che dia contezza delle valutazioni effettuate e delle determinazioni assunte per abbandonare, ridurre o confermare la pretesa impositiva.

In pratica, è cambiato il modo di operare degli uffici che, in linea di massima, non possono più – sic et sempliciter – limitarsi a notificare l’avviso di accertamento (allegando lo studio di settore) dovendo, preliminarmente, porre in essere tutta una completa attività istruttoria.

In questo nostro intervento, verifichiamo come si è evoluta la giurisprudenza di legittimità nel corso di questi anni, che ha certamente influito sulle scelte dell’Amministrazione finanziaria, e le ulteriori indicazioni di prassi fornite dall’Amministrazione Finanziaria con la circolare n. 19/E del 14 aprile 2010, per la gestione del contenzioso pendente.

 

I diversi passaggi giurisprudenziali

Sulla problematica degli studi di settore è ormai copiosa la giurisprudenza, anche di legittimità, che ha assunto posizioni non sempre convergenti, animando il già vivace dibattito dottrinario.

Prima di arrivare alle pronunce a Sezioni Unite, su tutte, corre l’obbligo di segnalare le seguenti pronunce della Corte di Cassazione.

  • La sentenza n. 2891 del 21 dicembre 2000, depositata il 27 febbraio 2002, che nell’avallare le ricostruzioni presuntivo-parametriche, ha sancito che “se lo strumento delle presunzioni viene introdotto legittimamente…, nel dibattito tendente alla ricostruzione del reddito, a favore dell’Amministrazione può determinarsi una situazione probatoria che investe anche la quantità di valori ottenuti sulla base delle presunzioni medesime. E poiché si tratta di presunzioni relative (che ammettono la prova contraria), il contribuente che voglia contestare il risultato delle presunzioni medesime ha l’onere di attivarsi e di mostrare o l’impossibilità di utilizzare le presunzioni in quelle fattispecie o l’inaffidabilità del risultato ottenuto attraverso le presunzioni, eventualmente confermando al contempo con altre presunzioni la validità del suo operato. In tale contesto è vero che si verifica una inversione dell’onere della prova, ma si tratta di un’inversione conseguente e legittima in un sistema che consente l’utilizzazione delle presunzioni a favore dell’amministrazione“.

  • la sentenza n. 8643 del 6 aprile 2007, secondo cui “l’ufficio – allorché ravvisi gravi incongruenze fra i valori dichiarati e quelli ragionevolmente attesi in base alle caratteristiche dell’attività svolta od agli studi di settore – può quindi fondare, senza obbligo di ispezione dei luoghi, se non ritenuto assolutamente necessario, l’accertamento di maggiori ricavi, rispetto a quelli dichiarati, anche su tali gravi incongruenze e quindi anche al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 39 citato…”.

  • La sentenza n. 17229 del 28 luglio 2006 che ha affermato che gli studi di settore necessitano di ulteriori supporti indiziari e/o documentali per assurgere al rango di prova; infatti, “perché si pervenga a tale risultato occorre il completamento dell’attività istruttoria amministrativa, nel rispetto del principio generale del giusto procedimento, consentendo al contribuente, che voglia vincere la presunzione posta dagli studi di settore … di intervenire già in sede procedimentale amministrativa, prima di adire il giudice tributario“. E prosegue la Corte che, in assenza di contraddittorio, “è vano invocare uno studio di settore, che ha struttura oggettiva e soggettiva categoriale e, quindi, di genere, come strumento idoneo a regolare, di per sé, un caso di specie ultima. In questo senso è orientata la giurisprudenza di questa Corte nelle sentenze: 3 maggio 2005, n.9135; 23 giugno 2003, n.9946; 27 settembre 2002, n.13995“.

  • La sentenza n. 9613 del 21 marzo 2008 (dep. l’11 aprile 2008), secondo cui non è censurabile in sede di legittimità l’utilizzo degli studi di settore, quale metodo maggiormente affinato, in luogo dello strumento dei parametri effettuato dal giudice del merito e posto a base dell’iter logico-giuridico sul quale ha fondato il proprio convincimento.

  • La sentenza n. 2876 del 6 febbraio 2009, secondo cui “nella specie, la C.T.R. non ha ritenuto che il metodo seguito dall’Ufficio non fosse corretto, ma ha lamentato che tale metodologia non fosse stata accompagnata da altri elementi di supporto tali da confermare quanto desunto con il metodo induttivo. Tali ulteriori elementi non sono, peraltro, richiesti dalla normativa di cui si deduce la violazione, né il richiamo alla non aderenza dell’accertamento eseguito agli studi di settore può ritenersi decisivo in quanto l’Ufficio non é tenuto a verificare tutti i dati richiesti per uno studio generale di settore, potendosi basare anche solo su alcuni elementi ritenuti sintomatici per la ricostruzione del reddito dei contribuenti (cfr. Cass. n. 17038/2002)”.

 

Le pronunce a Sezioni Unite

E’ in questo quadro che vanno registrate le quattro sentenze della Cassazione a Sezioni unite – nn. 26635, 26636,26637,26638 del 10 dicembre 2009 (ud. del 1° dicembre 2009) -, che nell’occuparsi specificatamente di un caso di un contribuente sottoposto a parametri, estendono le stesse conclusioni agli studi di settore6.

Per i giudici Supremi, gli studi di settore, pur costituendo uno strumento più raffinato dei parametri, soprattutto perché la loro elaborazione prevede una diretta collaborazione delle categorie interessate, restano tuttavia un’elaborazione statistica, il cui frutto è un’ipotesi probabilistica, che, per quanto seriamente approssimata, può solo costituire una “presunzione semplice”.

In buona sostanza, gli studi di settore, anche se caratterizzati da una minore approssimazione probabilistica rispetto ai parametri, rappresentano la predisposizione di “indici rilevatori di una possibile anomalia del comportamento fiscale”, evidenziata dallo scostamento delle dichiarazioni dei contribuenti relative all’ammontare dei ricavi o dei compensi rispetto a quello che l’elaborazione statistica stabilisce essere il livello “normale” in relazione alla specifica attività svolta dal dichiarante.

Per le Sezioni Unite della Cassazione, lo scostamento non deve essere “qualsiasi“, ma testimoniare una “grave incongruenza” (“come espressamente prevede il D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, comma 3, e come deve interpretarsi, in una lettura costituzionalmente orientata al rispetto del principio della capacità contributiva, la L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 1, nel quale pur essendo presente un diretto richiamo alla norma precedentemente citata, non compare in maniera espressa il requisito della gravità dello scostamento”): tanto legittima l’avvio di una procedura finalizzata all’accertamento nel cui quadro i segnali emergenti dallo studio di settore (o dai parametri) devono essere “corretti“, in contraddittorio col contribuente, in modo da “fotografare” la specifica realtà economica della singola impresa la cui dichiarazione dell’ammontare dei ricavi abbia dimostrato una significativa “incoerenza” con la “normale redditività” delle imprese omogenee considerate nello studio di settore applicato.

Ancora una volta, quindi, è il contraddittorio l’elemento determinante per adeguare alla concreta realtà economica del singolo contribuente l’ipotesi dello studio di settore. Altrimenti “lo studio di settore si trasformerebbe da mezzo di accertamento in mezzo di determinazione del reddito”, con un’illegittima compressione dei diritti costituzionali.

Il sistema delineato è frutto di un processo di progressivo affinamento degli strumenti di rilevazione della normale redditività, che giustifica la prevalenza in ogni caso dello strumento più recente su quello precedente, con la conseguente applicazione retroattiva dello standard più affinato, è pertanto, più affidabile.

Tale sistema “affianca la (e non si colloca all’interno della) procedura di accertamento di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, in quanto la procedura di accertamento standardizzato è indipendente dall’analisi dei risultati delle scritture contabili, la cui regolarità, per i contribuenti in contabilità semplificata, non impedisce l’applicabilità dello standard, nè validamente prova contro, e la cui irregolarità, per i contribuenti in contabilità ordinaria, costituisce esclusivamente condizione per la legittima attivazione della procedura standardizzata. Si tratta, poi, di un sistema, che diversamente da quello di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, trova il suo punto centrale nell’obbligatorietà del contraddittorio endoprocedimentale, che consente l’adeguamento degli standard alla concreta realtà economica del contribuente, determinando il passaggio dalla fase statica (gli standard come frutto dell’elaborazione statistica) alla fase dinamica dell’accertamento (l’applicazione degli standard al singolo destinatario dell’attività accertativa)”.

Il principio espresso dalle Sezioni Unite della Cassazione è quindi il seguente: “la procedura di accertamento standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non e ex lege determinata in relazione ai soli standard in sé considerati, ma nasce procedimentalmente in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente (che può tuttavia, restare inerte assumendo le conseguenze, sul piano della valutazione, di questo suo atteggiamento), esito che, essendo alla fine di un percorso di adeguamento della elaborazione statistica degli standard alla concreta realtà economica del contribuente, deve far parte (e condiziona la congruità) della motivazione dell’accertamento, nella quale vanno esposte le ragioni per le quali i rilievi del destinatario dell’attività accertativa siano state disattese. Il contribuente ha, nel giudizio relativo all’impugnazione dell’atto di accertamento, la più ampia facoltà di prova, anche a mezzo di presunzioni semplici, ed il giudice può liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standard al caso concreto, che deve essere dimostrata dall’ente impositore, quanto la controprova sul punto offerta dal contribuente”.

 

Gli interventi di legittimità successivi e più significativi del 2010.

Successivamente alle pronunce a Sezioni Unite, vanno registrate una serie di sentenze della Corte di Cassazione, che pur nella loro diversità, hanno affermato – sostanzialmente – che se è vero che l’ufficio deve dimostrare l’applicabilità dello studio al caso concreto, spetta al contribuente dimostrare la sussistenza di fatti specifici impeditivi, fermo restando che siamo in presenza di strumenti di controllo rilevanti ma “ in itinere”, attraverso il contraddittorio, bacchettando il contribuente per i casi in cui per sua scelta ha ritenuto di non partecipare al contraddittorio.

  • La sentenza n. 14313 del 15 giugno 2010 (ud. del 24 marzo 2010) dove la Corte di Cassazione imputa al contribuente l’onere … di fornire la prova contraria in caso di accertamenti basati sugli studi di settore e in presenza di gravi incongruenze dei dati da essi risultanti rispetto ai ricavi dichiarati dal contribuente(Cass. n. 8643/2007)”; inoltre, la proposta, in sede di contraddittorio preliminare, da parte della Amministrazione finanziaria, di una riduzione dei ricavi non può essere interpretata, in generale, come riconoscimento dell’infondatezza dell’accertamento ma come volontà dell’amministrazione di pervenire ad un accordo transattivo col contribuente.

  • L’ordinanza n. 15905 n. 15905 del 6 luglio 2010 (ud. 26 maggio 2010), “secondo cui la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sé considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente. L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli “standards” al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli “standards”, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito”.

  • La sentenza n. 16235 del 9 luglio 2010 (ud. del 4 giugno 2010), secondo cui “la flessibilità degli strumenti presuntivi trova origine e fondamento proprio nell’art. 53 Cost., non potendosi ammettere che il reddito venga determinato in maniera automatica, a prescindere da quella che è la capacità contributiva del soggetto sottoposto a verifica. Ogni sforzo, quindi, va compiuto per individuare la reale capacità contributiva del soggetto, pur tenendo presente l’importantissimo ausilio che può derivare dagli strumenti presuntivi, che non possono però avere effetti automatici, che sarebbero contrastanti con il dettato costituzionale, ma che richiedono un confronto con la situazione concreta (confronto che può essere anche vincente per gli strumenti presuntivi allorchè i dati forniti dal contribuente risultino inattendibili). Questa prova non deve avere necessariamente collegamenti con dati documentali … ma può essere costituita, in assenza di indicazioni normative specifiche contrarie, anche da presunzioni che il Giudice nel suo prudente apprezzamento va a configurare e a valutareQuanto all’onere della prova, cui nemmeno l’Ufficio è sottratto in ragione della peculiare azione di accertamento adottata, è così ripartito: a) all’ente impositore fa carico la dimostrazione dell’applicabilità dello standard prescelto al caso concreto oggetto di accertamento; b) al contribuente, che può utilizzare a suo vantaggio anche presunzioni semplici, fa carico la prova della sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possano essere applicati gli standard o della specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo cui l’accertamento si riferisce“.

  • L’ordinanza n. 18227 del 5 agosto 2010 (ud. dell’8 giugno 2010) della Corte Cass., che richiama i principi espressi a SS.UU. (v. sentenza Cass. n. 26635/2009), secondo cui la procedura di accertamento nasce solo in esito al contraddittorio, “da attivare obbligatoriamente – pena la nullità dell’accertamento – con il contribuente, avendo in tale sede quest’ultimo l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente”.

  • L’ordinanza n. 18941 del 31 agosto 2010 (ud. del 10 giugno 2010) della Corte Cass., secondo cui le risultanze degli studi di settore “non costituendo fatto concreto noto e certo, specificamente inerente al contribuente, suscettibile di evidenziare in termini di rilevante probabilità l’entità del suo reddito, ma rappresentando la risultante dell’estrapolazione statistica di una pluralità di dati settoriali acquisiti su campioni di contribuenti e dalle relative dichiarazioni – rivelano valori che, quando eccedono il dichiarato, integrano il presupposto per il legittimo esercizio da parte dell’Ufficio dell’accertamento analitico-induttivo D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, lett. d), ma, ove siano contestati sulla base di allegazioni specifiche, sono inidonei a supportare l’accertamento medesimo, se non confortati da elementi concreti desunti dalla realtà economica dell’impresa che devono essere provati e non semplicemente enunciati nella motivazione dell’accertamento”; in sede di contraddittorio, pertanto, il contribuente “ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standards o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello standard prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente”.

  • La sentenza n. 19754 del 17 settembre 2010 (ud. del 7 giugno 2010), dove la Corte di Cassazione ha affermato che nella procedura di accertamento a mezzo dei parametri, l’esito del contraddittorio endoprocedimentale non condiziona la successiva fase contenziosa, nella quale il contribuente non è vincolato alle eccezioni in quella sede sollevate e dispone della più ampia facoltà di prova, incluso il ricorso a presunzioni semplici. Laddove, comunque, il contribuente intenda far valere, a causa giustificativa, la presenza di una malattia – atta ad incidere sull’attività lavorativa – questa deve essere provata. I giudici della Corte, preliminarmente, osservano che la sentenza “non è conforme ad alcuni principi affermati dalle Sezioni unite di questa Corte nella sentenza n. 26635 del 2009, secondo i quali, per quanto qui rileva, nella procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri, l’esito del contraddittorio endoprocedimentale non condiziona la successiva fase contenziosa, nella quale il contribuente non è vincolato alle eccezioni in quella sede sollevate e dispone della più ampia facoltà di prova, incluso il ricorso a presunzioni semplici”. Inoltre, preso atto che nella specie è pacifico che “l’invito al contraddittorio endoprocedimentale vi è stato (anche se non ha portato ad esito positivo), ciò che rileva è che il giudice a quo, contrariamente a quanto lamenta il ricorrente, non ha deciso in base all’applicazione automatica dei parametri, perchè, sia pure in modo sintetico, ha valutato le prove fornite (anche in sede contenziosa) dal contribuente in ordine alla sua situazione concreta, ritenendo, da un lato, che la documentazione prodotta fosse “parziale e insufficiente”, e rilevando, dall’altro, la mancanza della prova relativa alla prognosi dell’intervento chirurgico”. Quest’ultima circostanza, ad avviso del Collegio, “riveste importanza decisiva, essendo evidente che, ai fini di stabilire l’incidenza di un tale evento sulla capacità produttiva di reddito, non rileva il fatto in sè, ma la durata della (eventuale) derivatane inabilità allo svolgimento della normale attività lavorativa”. La Cassazione, nel rigettare il ricorso del contribuente, lo ha pure condannato al pagamento delle spese del giudizio (2.100,00 €).

  • La sentenza n. 22555 del 5 novembre 2010 (ud. del 15 giugno 2010), che ha cassato la decisione della Commissione tributaria regionale poiché “non vi è prova alcuna della effettiva incidenza della patologia indicata” (ipotiroidismo) “sulla attività lavorativa … esercitabile in costanza di malattia“, sterilmente contrastata con il mero richiamo al “contenuto del certificato medico“. Infatti, la sola asserzione “riduce notevolmente la capacità lavorativa“, contenuta nello stesso, “non evidenzia nessun difetto logico sul giudizio di inidoneità probatoria di quel certificato espresso dal giudice di appello – cui è istituzionalmente demandato l’afferente accertamento – essendo detta asserzione priva di qualsiasi riferimento a concreti parametri medico-legali o di un qualche diverso elemento di riscontro concreto da parte dello stesso certificante, specie quanto all’avverbio (peraltro del tutto generico perché non contiene alcun riferimento percentuale) notevolmente“.

  • La sentenza n. 22553 del 5 novembre 2010 (ud. del 15 giugno 2010), secondo cui la mancata presentazione del contribuente al contraddittorio, gioca negativamente per il contribuente. “In ipotesi di mancata accettazione dell’invito da parte del contribuente, che l’Ufficio si limiti ad indicare nell’atto di imposizione i dati dell’avvenuto rispetto della norma (oltre che ad offrirne, poi, la prova in giudizio in ipotesi di avversa contestazione)”. E ciò travolge anche la violazione del “principio di chiarezza e motivazione degli accertamenti tributari“, di cui all’art. 7 della L. n. 212 del 2000 dell’art. 3 della L. n. 241 del 1990).

 

La gestione del contenzioso pendente

Con circolare n. 19/E del 14 aprile 2010 ha fornito una serie di chiarimenti per la gestione del contenzioso pendente in materia, invitando le strutture territoriali a riesaminare le controversie pendenti concernenti la materia in esame e ad abbandonare – con le modalità di rito, tenendo conto dello stato e del grado di giudizio nonché delle considerazioni svolte nel corpo della stessa circolare – la pretesa tributaria in presenza di avvisi di accertamento basati sulle risultanze degli studi di settore, nei casi in cui non sia stata attivata la fase del contraddittorio (fermo restando quanto evidenziato nel documento di prassi con riguardo ai casi di inerzia del contribuente), sempre che la pretesa non sia comunque sostenibile.

Evidenziamo alcuni dei punti essenziali della nota:

  • la mancata indicazione delle ragioni, per le quali sono stati disattesi i puntuali rilievi del contribuente, non configura una carenza di motivazione dell’atto stesso quando tali ragioni sono comunque state esplicitate dall’ufficio in sede di contraddittorio e riportate nel relativo verbale ovvero siano comunque desumibili dal medesimo verbale, consegnato al contribuente e quindi da questi conosciuto;

  • qualora, a seguito dell’invito al contraddittorio, il contribuente sia rimasto inerte, la motivazione dell’atto può basarsi unicamente sull’applicazione dello studio di settore, con riferimento allo standard applicato.

 

In definitiva, “non può non apparire chiara l’importanza che assume nell’iter procedimentale di tale tipologia accertatrice, la fase preliminare del contraddittorio prevista dal legislatore per bilanciare il grave indizio a favore dell’ufficio, con la possibilità concreta del contribuente di far valere le sue ragioni e riportare l’esame delle poste fiscali in un approfondito accertamento delle condizioni del caso concreto, in relazione alla capacità contributiva del contribuente che va verificata caso per caso in corretta applicazione del dettato di cui all’art. 53 della Costituzione”.

 

7 settembre 2011

Gianfranco Antico

1 In merito cfr. G. Antico- V. Fusconi, Gli studi di settore al test del contraddittorio, in “il fisco”, n.27/2002, fascicolo n.1, pag. 4312.

2 Per un esame normativo, di prassi, di giurisprudenza e di casi pratici, si rinvia a G. Antico- M. Conigliaro, Gli studi di settore, IV edizione, Il Sole24ore, Milano, 2009.

3 F. Batistoni Ferrara, L’attività istruttoria – Modalità operative di svolgimento dei controlli e delle verifiche: le possibili difese, in “il fisco” n. 8/2009.

4 F. Batistoni Ferrara, L’attività istruttoria – Modalità operative di svolgimento dei controlli e delle verifiche: le possibili difese, in “il fisco” n. 8/2009.

5 F.Batistoni Ferrara, L’attività istruttoria – Modalità operative di svolgimento dei controlli e delle verifiche: le possibili difese, in “il fisco” n. 8/2009.

6 Cfr. ANTICO, Studi di settore: dall’utilizzo del redditometro all’antieconomicità, in “Consulenza”, n. 8/2010, pag. 21.