"Ricavi" e "compensi" si equivalgono

in caso di accertamento basato su indagini finanziarie, le dizioni “ricavi” e “compensi” sono equivalenti, pertanto le stesse norme valgono sia per il reddito d’impresa che per quello di lavoro autonomo

Con sentenza n. 802 del 14 gennaio 2011 (ud. del 9 dicembre 2010) la Corte di Cassazione, nel riconfermare la non necessarietà del contraddittorio per le indagini finanziarie, ha ribadito che la locuzione “ricavi”, utilizzata dal legislatore antecedentemente alle modifiche normative apportate dalla legge n. 311 del 2004, ricomprende anche i “compensi “, così che la norma si applicava già, oltre che ai titolati di reddito d’impresa, anche a quelli di lavoro autonomo.

I punti salienti del ricorso e della sentenza

Il motivo del ricorso

Il contribuente, si duole, fra l’altro, della violazione, da parte del giudice di appello, dell’art. 32 del D.P.R. n. 600 del 1973. “Rileva, invero, il ricorrente che, in sede di accertamento delle imposte sui redditi – ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2) novellato della L. n. 311 del 2004, comma 402 – i dati raccolti dall’Ufficio in sede di accesso ai conti correnti bancari di un contribuente consentono, in forza della presunzione contenuta in detta normativa, di imputare direttamente gli elementi da essi risultanti a “ricavi o compensi”, risultanti dall’attività svolta dal contribuente. L’originario testo dell’art. 32, peraltro, riferiva espressamente tale presunzione ai soli “ricavi” conseguibili in un’attività di impresa, escludendo – almeno nel tenore letterale – i compensi dell’attività svolta dai prestatori di lavoro autonomo”.

La norma novellata consente, invece, agli Uffici finanziari di applicare la presunzione in parola anche nei confronti dei professionisti (come l’odierno ricorrente), fatta salva la possibilità per il contribuente di provare che determinati accrediti non costituiscono proventi della propria attività.

E tuttavia, ad avviso del ricorrente, la disciplina introdotta dalla L. n. 311 del 2004, che ha effetto dal 1° luglio 2005, non potrebbe avere efficacia retroattiva e non potrebbe applicarsi, dunque, alla presente vicenda insorta prima della sua entrata in vigore, trattandosi di disciplina ampliativa dell’inversione dell’onere della prova in danno del contribuente.

La sentenza

Per la Corte, l’assunto del ricorrente è infondato e va disatteso. “Ed invero, anche con riferimento al testo del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, antecedente l’entrata in vigore della novella del 2004 (temporalmente applicabile alla fattispecie in esame), è del tutto pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che la norma in questione, e la presunzione in essa contenuta, seppure letteralmente riferibile ai soli “ricavi”, sia da intendersi applicabile anche al reddito da lavoro autonomo, e non solo al reddito di impresa (Cass. nn. 4601/02, 430/08, 11750/08)”.

Di qui la piena utilizzabilità, da parte dell’Ufficio finanziario, nella vicenda oggetto del presente giudizio, della presunzione di ascrivibilità ad operazioni imponibili dei dati raccolti in sede di accesso ai conti correnti bancari del ricorrente.

Il motivo di ricorso

Il contribuente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 32, c. 1, p. 2, del D.P.R. n. 600 del 1973, per non avere l’Ufficio, prima della notifica dell’avviso di accertamento, “invitato il ricorrente a fornire le giustificazioni circa i movimenti bancari contestati dai verificatori“.

La sentenza

Il motivo è del tutto infondato. “La legittimità dell’utilizzo dei dati, desunti dalla verifica operata dall’ufficio sui conti correnti bancari del contribuente, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, non è condizionata, infatti, dalla previa instaurazione del contraddittorio con il medesimo. Tale attività preventiva costituisce, per vero, una mera facoltà per l’amministrazione, e non certo un obbligo, come è del tutto pacifico nella giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. nn. 14675/06, 4601/06, 25142/09)”.

Brevi riflessioni

Il dettato normativo di riferimento dei controlli bancari/finanziari si rinviene, per le imposte dirette, negli artt. 32, c. 1, n. 2, 5 e 7 del D.P.R. n. 600/1973, e per l’IVA, nell’art. 51, c. 2, del D.P.R. n. 633/1972, così come modificati dai commi 402, 403 e 404, dell’articolo 1, dalla legge n. 311/2004 – cd. Finanziaria 2005, e dalle norme introdotte dall’art. 37, cc. 4 e 5, del D.L. n.223/06, conv. con modif. in Legge n. 248/2006.

Tale forma di indagine trae alimento dalla presenza di presunzioni iuris tantum, e dunque dall’inversione dell’onere della prova, posto a carico dei soggetti sottoposti a controllo.

Sulla base del dettato normativo, gli elementi risultanti dal conto sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza per lo stesso fine: pertanto, i prelevamenti, oltre che i versamenti, si considerano ricavi tassabili ai fini delle imposte sul reddito, qualora non sia indicato il beneficiario o non si abbia riscontro nelle scritture contabili tenute dal contribuente.

Ai fini Iva i prelevamenti sono considerati come pagamenti per operazioni passive non autofatturate ( limitatamente ai soggetti obbligati alla tenuta delle scritture contabili), e sia le operazioni imponibili (desunte dagli accreditamenti) sia gli acquisti ( desunti dagli addebitamenti), che sulla base dei conti intrattenuti non trovano riscontro nella dichiarazione, si considerano effettuati all’aliquota che mediamente risulta prevalente o che in prevalenza avrebbe dovuto essere applicata.

In pratica, l’equazione prelevamenti uguale ricavi deriva dal fatto che normalmente le uscite non giustificate riguardano costi sostenuti in nero proprio perché correlati a ricavi non contabilizzati.

La sentenza che si annota ci offre due spunti di riflessione.

Il primo investe l’applicazione della norma anche ai lavoratori autonomi, pur se precedentemente alle modifiche apportate dalla legge n. 311/2004, il dettato normativo si riferiva esclusivamente ai ricavi.

La legge 30 dicembre 2004, n. 311 ha esteso, fra l’altro, espressamente l’ambito soggettivo di applicazione normativa ai lavoratori autonomi, così che anche nei confronti dei professionisti sono considerati compensi i prelevamenti e gli importi riscossi dei quali non viene indicato il beneficiario.

Il secondo aspetto investe il contraddittorio, confermandone la non necessarietà.

Come è noto, l’Amministrazione finanziaria il 19 ottobre 2006 ha diramato la circolare n. 32 con la quale in ordine al contraddittorio ha evidenziato che, pur se il contraddittorio risulta essenziale e opportuno, costituisce una mera facoltà dell’ufficio, senza che rivesta carattere di obbligatorietà.

Né possiamo sostenere che questa è la posizione delle Entrate mentre la giurisprudenza è di segno opposto.

Infatti, la sentenza n. 2821 del 6 novembre 2007 (dep. il 7 febbraio 2008) aveva già evidenziato che non osta alla legittimità degli accertamenti bancari il mancato coinvolgimento del contribuente. La Cassazione, nella citata sentenza n. 2821/2008, in ordine alla questione posta, smantella la difesa di parte, richiamando quanto ha già avuto modo “di ripetutamente affermare (Cass., trib., 23 giugno 2006 n. 14675, cit.; 27 giugno 2005 n. 13808; 17 maggio 2002 n. 7267; 29 marzo 2002 n. 4601; 26 febbraio 2002 n. 2814; 18 gennaio 2002 n. 518, tra le recenti)… che va confermato in quanto nelle esposte argomentazioni della contribuente non si ravvisano convincenti argomentazioni per discostarsi dallo stesso: … la legittimità della utilizzazione, da parte dell’Amministrazione Finanziaria, dei movimenti dei conti correnti bancari non è condizionata alla previa instaurazione del contraddittorio con il contribuente sin dalla fase dell’accertamento, atteso che l’art. 32 DPR 29 settembre 1973 n. 600, invocato dalla contribuente, prevede il contraddittorio come oggetto di una mera facoltà dell’amministrazione tributaria e non già di un obbligo per la stessa”.

La Corte di Cassazione, sbriciola infatti il teorema di quanti sostengono che, una volta emesso l’accertamento, in difetto di instaurazione del contraddittorio, sarebbe l’ufficio a dover fornire, sia pure utilizzando le norme sul valore probatorio di versamenti e prelevamenti, la prova della gravità, precisione e concordanza degli elementi ricavati dall’esame dei conti. La prova, invece, resta sempre a carico del contribuente.

E su questa lunghezza d’onda continua ad essere la Corte di Cassazione, che con sentenza n. 6094 del 13 marzo 2009, ha ricordato il principio affermato da questa Corte, “secondo il quale in tema di accertamento delle imposte sul reddito, il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, nella parte in cui prevede l’invito al contribuente a fornire dati e notizie in ordine agli accertamenti bancari, non impone all’Ufficio l’obbligo di uno specifico e previo invito, ma gli attribuisce una mera facoltà, della quale può valersi in piena discrezionalità; il mancato esercizio di tale facoltà non può quindi determina l’illegittimità della verifica operata sulla base dei medesimi accertamenti, nè comporta la trasformazione della presunzione legale posta dalla norma in esame in presunzione semplice, con possibilità per il Giudice di valutarne liberamente la gravità, la precisione e la concordanza, e con il conseguente onere per il fisco di fornire ulteriori elementi di riscontro”.

31 gennaio 2011

Francesco Buetto