Marcia indietro della Cassazione?

una nuova interpretazione della Suprema Corte riassegna valore di presunzione legale, iuris tantum, agli studi di settore con conseguente inversione dell’onere della prova in capo del contribuente?

La Corte di cassazione riassegna valore di presunzione legale, iuris tantum, agli Studi di settore con conseguente inversione dell’onere della prova in capo del contribuente.

Con la sentenza n. 14313 del 15 giugno 2010 la Suprema Corte muta la posizione presa, nella sua più alta composizione, in materia di accertamento basato sugli studi di settore.

Come noto, con le pronunce n. 26635, 26636, 26637 e 26638 del 2009, la Cassazione, a sezioni unite, risolvendo il dibattito sorto sulla natura e legittimità dell’accertamento fondato esclusivamente sull’applicazione di standards, come quello che ci occupa, aveva affermato il seguente principio di diritto: “la procedura di accertamento standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata in relazione ai soli standard in sé considerati, ma nasce procedimentalmente in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente”.

Ne scaturiva l’impossibilità per l’Amministrazione di fondare la pretesa tributaria esclusivamente sullo scostamento dei dati indicati dal contribuente in dichiarazione da quelli ricavabili dagli studi di settore. Era, infatti, necessario che l’accertamento si fondasse anche su altri elementi, che l’Amministrazione doveva fornire e che legittimassero l’applicazione al caso di specie degli studi di settore.

Con la sentenza in commento, invece, la Corte pare fare un passo indietro, infatti, accoglie il ricorso presentato dall’Agenzia delle Entrate ritenendolo: “fondato per quanto concerne l’onere del contribuente di fornire la prova contraria in caso di accertamenti basati sugli studi di settore e in presenza di gravi incongruenze dei dati da essi risultanti rispetto ai ricavi dichiarati dal contribuente”.

In sostanza, si assiste ad brusca inversione di marcia rispetto a quella che era la posizione assunta dalle Sezioni Unite nelle summenzionate pronunce, nonché della pressoché costante giurisprudenza di merito e di legittimità: le “gravi incongruenze” assurgono, ora, a presunzioni legali, seppur relative (o iuris tantum), per cui spetta al contribuente dover fornire la prova contraria.

Non può non lasciare perplessi una siffatta impostazione dacché la Suprema Corte era stata chiara nel precisare che: “l’onere della prova, cui nemmeno l’Ufficio è sottratto in ragione della peculiare azione di accertamento adottata, è così ripartito:

a) all’ente impositore fa carico la dimostrazione dell’applicabilità dello standard prescelto al caso concreto oggetto dell’accertamento;

b) al contribuente, che può utilizzare a suo vantaggio anche presunzioni semplici, fa carico la prova della sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’arco dei soggetti cui possano essere applicati gli standard o della specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo cui l’accertamento si riferisce”.

In sostanza, sulla base di tale ripartizione dell’onere della prova, l’A. F., una volta rilevato lo scostamento tra i ricavi dichiarati e quelli ricavabili dallo studio di settore di riferimento, non può procedere all’accertamento se non vi sono elementi che ne confermino l’applicabilità alla fattispecie concreta. Inoltre, viene riconosciuta al contribuente, nel giudizio relativo all’impugnazione dell’atto di accertamento, la più ampia facoltà di prova, anche a mezzo di presunzioni semplici. Il giudice dovrà poi, liberamente, valutare tanto gli elementi forniti dall’ente impositore sull’applicabilità degli standards al caso concreto quanto la controprova sul punto offerta dal contribuente.

Tale, condivisibile, orientamento era dettato da una considerazione senza dubbio fondata: l’accertamento ex art. 39 del DPR 600/1973 ed art. 62-bis e sexies del D.Lgs n. 331/1993 non tiene minimamente conto delle peculiarità specifiche della realtà interessata, che gioco forza incidono sulla capacità di quell’attività di produrre i ricavi stimati.

Con la sentenza in commento, invece, si attribuisce valore di presunzione legale al semplice scostamento tra i ricavi dichiarati dal contribuente e quelli desumibili dallo studio di settore applicabile, con la conseguenza che l’Amministrazione Finanziaria potrà procedere all’emissione dell’avviso di accertamento sulla base di questo singolo dato.

È prevedibile, che, se la giurisprudenza dovesse arroccarsi su quest’ultimo orientamento, l’annoso scontro tra i professionisti ed esercenti attività commerciali da una parte e l’Agenzia delle Entrate dall’altra, tornerà più aspro che mai, soprattutto in ragione della congiuntura negativa che il nostro Paese, e non solo, sta attraversando e che inevitabilmente influisce sui ricavi che, pertanto, non possono essere calcolati sulla base di standards che prescindono dalla reale situazione di mercato.

23 luglio 2010

Avv. Maria Leo