la parte soccombente in un processo (civile o tributario) è sempre condannata al pagamento delle spese di lite o vi sono eccezioni?
Nel contenzioso tributario, l’istituto delle spese di lite, previsto e disciplinato dall’art. 15 del d.lsg. n. 546/1992, è esplicitamente modellato (come, peraltro, tutto il nuovo processo tributario, ad eccezione di qualche peculiarità, tipica della materia fiscale) sull’art. 91 del c.p.c., recentemente novellato, in conseguenza della riforma del processo civile operata dalla legge 18 giugno 2009, n. 69 (“Il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa”). La predetta norma ha subito, nel corso degli ultimi quattro anni, altri due interventi di novellazione, tutti ispirati da ragioni deflattive del contenzioso e diretti ad evitare (o, comunque, a tentare di scoraggiare) l’instaurazione di giudizi meramente dilatori, tesi unicamente a frustrare e procrastinare il buon diritto della controparte. L’attuale formulazione dell’art. 15 dispone che “La parte soccombente è condannata a rimborsare le spese del giudizio che sono liquidate con sentenza. La commissione tributaria può dichiarare compensate in tutto o in parte le spese, a norma dell’art. 92, secondo comma del codice di procedura civile”.
La lettura della norma chiarisce immediatamente che la regola nel processo tributario è individuata nel principio secondo il quale la parte soccombente è tenuta a rimborsare le spese di giudizio, secondo quanto stabilito dal giudice nel pronunciamento. Tale principio, unito all’obbligatorietà dell’assistenza tecnica (art. 12 d.lgs. n. 546/1992), costituiscono elementi veramente innovativi rispetto al preesistente corpo normativo (D.P.R. n. 636/1972), finalizzati a scoraggiare le liti dilatorie e temerarie ed al ridurre il numero delle controversie pendenti.
La ratio dell’istituto della compensazione, invece, va identificata nella necessità – egualmente avvertita dal legislatore del processo civile – di contemperare e mitigare la regola della soccombenza, in considerazione di motivi di opportunità valutati di volta in volta dal giudice. Lungi dall’essere “supportata” da un principio costituzionale o anche solo implicitamente interno all’ordinamento, essa viene a costituire – piuttosto – un’eccezione alla regola della soccombenza, da utilizzare ogniqualvolta l’applicazione rigorosa di tale principio possa apparire iniquo o, comunque, non opportuno.
Per cui il legislatore, all’art. 92 del c.p.c. , precisa appunto che “Il giudice, nel pronunciare la condanna di cui all’articolo precedente, può escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive o superflue” e che “Se vi e’ soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, il giudice puo’ compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti”.
E’ sicuramente servita a rafforzare il principio della soccombenza come regola generale anche la modifica dell’art. 46, c. 3, del d.lgs. n. 546/1992 (in conseguenza della dichiarata incostituzionalità della norma ad opera della sentenza della Corte Costituzionale n. 274/2005, per violazione del principio di ragionevolezza), nella parte in cui prevedeva, ope legis, la compensazione delle spese di lite in caso di cessazione materia del contendere, diverse dai casi di definizione delle pendenze tributarie previsti dalla legge. Verso la medesima direzione va anche la novella dell’art. 92 c.p.c. ad opera della legge n. 69/2009, che ha (ulteriormente) inteso riformare il diffuso sistema improntato alla compensazione delle spese, introducendo l’obbligatorietà della motivazione della decisione presa, anche in ordine alle spese di giudizio.
Come già da tempo riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità, la motivazione sulle spese potrà essere determinata da ragioni di merito o da motivi procedurali (Cass. n. 2124/1994), mentre è (ormai pacificamente) inficiata da vizio di omessa pronuncia, la mancanza di ogni statuizione in riferimento alle stesse, in difetto di una esplicita rinuncia della parte risultata vittoriosa (Cass. SS.UU. n. 9859/1997, ribadita da Cass. SS.UU. n. 20598/2009 con la quale la Corte precisa come il provvedimento di compensazione delle spese deve necessariamente essere supportato da adeguata motivazione che, tuttavia, può anche essere ritratta dal complesso del provvedimento adottato, se chiaro ed inequivocabile).
Una deroga alla regola della soccombenza nelle liti fiscali può essere rappresentata dalla giurisprudenza oscillante su un punto controverso del (o, più in generale, sul) tema oggetto di giudizio (Cass. n. 20598/2008 e n. 22787/2011): osserva, infatti, la Corte (Cass. n. 29720/2011) che, per motivare sufficientemente la statuizione di compensazione parziale o totale delle spese per giusti motivi, non è necessaria l’adozione di motivazioni specificamente riferite a detto provvedimento purché, tuttavia, le ragioni giustificatrici dello stesso siano chiaramente ed inequivocamente desumibili dal complesso della motivazione adottata a sostegno della statuizione di merito o di rito. Da ciò deriva – chiarisce sempre la Suprema Corte – che deve ritenersi assolto l’obbligo del giudice anche allorché le argomentazioni svolte per la statuizione di merito o di rito contengano in sé considerazioni giuridiche o di fatto idonee a giustificare la regolazione delle spese adottata, come nel caso in cui si da atto, nella motivazione del provvedimento, di oscillazioni giurisprudenziali sulla questione decisiva, ovvero di oggettive difficoltà di accertamenti in fatto. Tali circostanze – se evidenziate dal giudice nel pronunciamento – sono idonee ad incidere sulla esatta conoscibilità a priori della rispettive ragioni delle parti, o di una palese sproporzione tra l’interesse concreto realizzato dalla parte vittoriosa e il costo delle attività processuali richieste. Ma anche, da ultimo, di un comportamento processuale ingiustificatamente restio a proposte conciliative plausibili in relazione alle concrete risultanze processuali.
Analogamente, le spese possono essere compensate in caso di annullamento in autotutela dell’atto opposto: la Cassazione, nell’accogliere il ricorso dell’amministrazione, ha infatti sancito che “l’annullamento nel corso del processo tributario, da parte dell’ufficio erariale, dell’atto impugnato in via di autotutela non costituisce rinuncia al processo stesso, bensì integra la specifica – ed ontologicamente diversa – fattispecie della cessazione della materia del contendere, caratterizzata dal venir meno del contrasto fra le parti e, quindi, dell’interesse delle stesse alla pronuncia del giudice; ne’alla pronuncia di estinzione per cessazione della materia del contendere può ostare l’eventualità di una successiva rimozione dell’annullamento in autotutela” (Cass. n. 10379/2011, ma anche Cass. n. 19947/2010).
Invece, non è lecito motivare il provvedimento di compensazione delle spese in relazione all’esiguo ammontare del valore della causa. Afferma, infatti, il giudice di legittimità (Cass. n. 12893/2011) che tale comportamento può compromettere il diritto di difesa della parte vincitrice che si troverebbe a pagare più spese rispetto a quanto prenderà dalla causa. In altre parole, tenendo ben presente come la necessità di una coerente e logica motivazione in ordine alla disposta compensazione si appalesi decisamente più cogente avuto riguardo alla nuova formulazione nella norma, l’eventuale disposta compensazione delle spese, motivata soltanto in considerazione del valore assai esiguo della causa, “si traduce, in buona sostanza, nella mortificazione del diritto di agire in giudizio ed in quello, connesso, di difendersi, a tutti garantito dall’art. 24 Cost.” risolvendosi, per la parte vittoriosa, “in una sostanziale soccombenza di fatto, con ribaltamento del principio di responsabilità che presiede alla disciplina dettata dagli artt. 91 e 92 c.p.c.”.
Similmente, la Corte di Cassazione censura l’eventuale ingiustificata sproporzione delle spese liquidate rispetto al valore della causa (Cass. n. 20256/2011) dichiarandola illegittima perché si risolve anch’essa in una compressione del diritto di difesa garantito dalla nostra Carta Costituzionale. I fatti di causa vedevano opposti il Comune di Roma ed un privato che, uscendo vittorioso dal secondo grado di giudizio, si era visto riconoscere una condanna alle spese di lite di complessivi euro 9.200 (euro 1.200 per il primo grado e euro 8.000 per il secondo) rispetto ad una controversia (in materia di violazione al codice della strada) recante un valore di soli euro 487,50. Il ricorso per Cassazione è stato avanzato dal Comune il quale, lamentando la manifesta sproporzione fra il valore della lite ed il quantum delle spese liquidate, eccepisce, fra l’altro:
a) la violazione della tariffa forense;
b) l’omissione ed il vizio di motivazione, non avendo il tribunale giustificato “a proposito dell’evidente sproporzione delle spese liquidate rispetto al valore della causa”.
I giudici di Piazza Cavour esaminano congiuntamente ed accolgono entrambi i motivi del ricorso per Cassazione, “essendo, per un verso, la liquidazione manifestamente contrastante con la richiamata tariffa, attesa l’esiguità del valore della lite e difettando, per altro verso, nella sentenza impugnata qualsiasi motivazione che consenta di ricostruire le ragioni per le quali il giudice ha provveduto nel senso criticato dal ricorrente”. Il pronunciamento si fa apprezzare perché introduce un (ulteriore) meritevole bilanciamento al principio della soccombenza, contribuendo a valorizzare il diritto di difesa del cittadino proclamato dall’articolo 24 Cost., c. 2, il quale sancisce che “la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del giudizio”. Tale norma viene decodificata da concorde dottrina e giurisprudenza come una garanzia dalla duplice portata: da un lato, la tutela per la parte di far valere in giudizio le proprie ragioni e pretese rileva sotto il profilo delle finalità ultime della previsione costituzionale; dall’altro l’assistenza tecnico-legale attiene, invece, alle concrete modalità di esercizio di quanto disposto dall’art. 24 Cost..
A ciò si aggiunga il richiamo agli artt. 3 e 111 Cost. ove il principio di uguaglianza formale e sostanziale dei cittadini trova realizzazione (anche) nel prevenire e scongiurare la possibilità di discriminazioni e disuguaglianze ul piano del diritto alla difesa (e, in particolare, in questo senso va letto l’art. 24 c. 3Cost. che assicura “ai non abbienti con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione”, recepito dall’art. 12 del d. lgs. n. 546/1992).
Per completezza, non va dimenticata la differenza fra valore economico della controversia e valore della lite, ex art. 12, c. 5, del D.Lgs. n. 546/1992. Nel primo caso, per valore economico della controversia deve intendersi il complessivo quantum della materia del contendere, costituito dalla somma dell’imposta (o delle imposte), delle relative sanzioni irrogate e degli interessi, mentre il omma 5 citato stabilisce in euro 2.582,28 il tetto massimo delle controversie, al di sotto del quale non è obbligatorio munirsi di assistenza tecnica, precisando tuttavia che “per valore della lite si intende l’importo del tributo al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni irrogate con l’atto impugnato”. E’ di tutta evidenza che l’eventuale condanna al pagamento delle spese di lite – decisa e motivata dal giudice di merito – deve rapportarsi al primo valore, effettivamente indicativo dell’onere economico della controversia.
27 gennaio 2012
Valeria Fusconi