Le tecnologie moderne facilitano la comunicazione globale, ma attenzione: commenti inappropriati sui social possono esporre i lavoratori a gravi rischi, come la diffamazione o addirittura il licenziamento.
Quali sono i pericoli per il dipendente che insulta il datore di lavoro sui social? Scopriamo come evitare conseguenze spiacevoli e proteggere la propria reputazione.
Commenti social e rischi per i lavoratori: attenzione a cosa si scrive
Nel XXI secolo le tecnologie mettono in contatto persone da tutto il mondo, in un attimo. Social, piattaforme di messaggistica istantanea, e-mail e quant’altro sono strumenti che consentono a coloro che hanno una minima preparazione in campo informatico, di comunicare ed esprimere le proprie opinioni sui più diversi temi. Basti pensare a siti web come Facebook, Instagram o Linkedin, ad esempio.
Attenzione però a non eccedere con la disinvoltura nello scrivere pareri su questa o quella persona, perché il rischio diffamazione potrebbe essere dietro l’angolo. Non solo. Cautela è consigliata anche a quei dipendenti che tendono a confondere la vita privata con la vita professionale, andando a scrivere in pubblico cose che potrebbero esporre a sanzioni disciplinari da parte dell’azienda.
Proprio così: ogni lavoratore deve prestare molta attenzione ai commenti in ambito lavoro, perché una polemica – all’apparenza quasi innocua e fine a sé stessa – potrebbe generare la spiacevole conseguenza del licenziamento. Vediamo più da vicino perché.
La differenza tra critica e offesa sui social
La giurisprudenza, in primis quella della Cassazione, ha insegnato che – anche in materia di opinioni personali espresse sul datore di lavoro via social – ogni caso fa storia a sé. In altre parole, ricorrono di volta in volta distinte variabili che rendono legittimo il licenziamento. Spetterà al giudice valutarne l’effettiva presenza, per confermare o meno la bontà della scelta del recesso unilaterale.
Se è ovvio che non si può insultare il datore di lavoro in ambito pubblico – social network compresi – in quanto tale comportamento integra il reato di diffamazione, è altrettanto vero però che il licenziamento non sempre è automatico a seguito di commenti non positivi verso l’azienda. Il recesso è legittimo, infatti, quando la critica travalica i limiti della dignità morale, personale o professionale della persona a cui si riferisce, diventando un vero e proprio insulto – seppur in formato digitale.
D’altronde, la legge non impedisce di certo di manifestare il proprio dissenso o critica verso la linea adottata dal datore nel rapporto con il personale, ma ovviamente vieta le gravi offese pubbliche, che potrebbero nuocere all’immagine aziendale. Le parole hanno sempre un peso e il dipendente dovrà fare ben attenzione a moderare i toni della propria opinione esposta sui social, per non rischiare una causa con l’azienda.
Clima di tensione in azienda e ruolo del dipendente: chiarimenti
Nel tempo la giurisprudenza, in primis quella della Cassazione, ha specificato alcuni elementi che rendono più o meno grave la posizione del dipendente che esprime opinioni offensive sui social. Per esempio, l’attacco verbale potrà essere ritenuto – seppur non giustificabile – comunque meno grave, in una situazione di spiccata conflittualità tra lavoratori e azienda.
Basti pensare al caso, per nulla raro, in cui il datore di lavoro da tempo non versi gli stipendi in busta paga, accendendo feroci critiche in formato digitale. In tali circostanze, potranno sì palesarsi gli estremi per una sanzione disciplinare, ma in qualche modo ‘temperata’ da un già presente clima di tensione. Ecco perché il giudice potrebbe ritenere legittimo non il licenziamento, ma una sanzione meno grave come la sospensione.
Poi c’è il fattore del ruolo del dipendente. In sostanza, tanto più alta è la sua posizione nell’organigramma aziendale, tanto maggiore sarà la sua responsabilità nel dare il buon esempio al resto del personale – anche attraverso comportamenti ed espressioni verbali consone. In altre parole, non potrà essere valutata con lo stesso metro di giudizio l’offesa di un dirigente su Linkedin, rispetto allo sfogo di un operaio o impiegato d’ufficio nello stesso social network.
Tra rischi di diffamazione e obbligo aziendale di tempestiva contestazione
Poste queste premesse relative al contesto di riferimento, è opportuno ricordare in sintesi una pronuncia assai interessante della Cassazione, la n. 12142 di quest’anno. Con essa la Corte ha fissato un rilevante precedente in materia di licenziamento disciplinare per espressioni offensive con frasi sui social network.
Ebbene, per la Cassazione la pubblicazione su Facebook di commenti offensivi contro l’azienda può essere alla base del licenziamento in tronco o per “giusta causa”, perché tale da violare – in modo irreparabile – il rapporto fiduciario, fondamentale tra le parti per la prosecuzione di quello lavorativo.
In questi casi le conseguenze sono drastiche per il dipendente, che si è lasciato andare a commenti che hanno superato la barriera della dignità della vittima. Infatti, il recesso potrà avvenire appunto in tronco, ossia senza preavviso.
Attenzione però a questo aspetto: il fatto che il comportamento del lavoratore possa integrare il reato di diffamazione non fa venir meno l’obbligo – gravante sull’azienda – della tempestiva contestazione dell’illecito, in modo da consentire la difesa scritta del lavoratore entro 5 giorni.
Per legge il datore non può infatti aspettare l’esito del processo penale per dare la prova dell’illecito e poi avviare l’iter disciplinare. Come chiarito dalla giurisprudenza (ad es. Trib. Milano sent. n. 12117/2017) la contestazione deve infatti essere immediata, pena l’illegittimità del licenziamento.
Impostazioni privacy e responsabilità dell’autore dell’illecito
Interessante altresì notare che i rischi gravanti sul dipendente, ricorrono al di là delle impostazioni della privacy inserite sul profilo dell’utente responsabile degli attacchi via social. Secondo la giurisprudenza, infatti, anche i post visibili esclusivamente agli “amici” sono idonei a scavalcare i limiti della confidenzialità, potenzialmente potendo raggiungere un numero altissimo di persone.
Anzi la Cassazione ha inteso precisare che tali messaggi offensivi e lesivi della dignità del datore di lavoro, per il mero fatto di essere stati pubblicati su un social network come Instagram, Facebook o Linkedin – e pur visualizzabili a poche persone – possono sfuggire al controllo del loro autore, estendendosi di fatto a un pubblico molto più grande e indefinito.
Ad esempio, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 27939 del 2021, ha considerato che il licenziamento per giusta causa è fondato nell’ipotesi di un lavoratore che diffonda, con sole tre e-mail e un post sul proprio profilo Facebook, messaggi gravemente offensivi e lesivi nei confronti dei propri superiori e della direzione dell’azienda. Infatti, l’utilizzo dei social media in questo contesto è stato ritenuto idoneo ad estendere il messaggio a un pubblico vasto e indefinito, rendendo il comportamento del lavoratore incompatibile con i doveri contrattuali di correttezza e lealtà.
Insomma, il pettegolezzo può circolare velocissimo anche sul web e anche se condiviso – in partenza – da un esiguo numero di persone.
E, come confermato da autorevole giurisprudenza, la responsabilità dell’autore potrà essere sia di ambito civile che penale, oltre che disciplinare. Ad es. l’azienda potrebbe agire civilmente per ottenere il risarcimento dei danni all’immagine o alla reputazione causati dalle dichiarazioni del suo dipendente.
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Claudio Garau
Lunedì 11 novembre 2024