Operazioni sanitarie esenti e diritto al rimborso dell'Iva

I soggetti (sia privati che pubblici) che operano nel settore socio-sanitario, soffrono l’esenzione dall’IVA che implica la completa indetraibilità dell’IVA sugli acquisti. Segnaliamo un caso di contestazione di questa indetraibilità, che è sfociato in un processo che ha confermato l’attuale applicazione della normativa IVA

La Commissione Tributaria Regionale della Toscana, con la sentenza n. 158/35/17, depositata il 20.01.2017, ha risolto un rilevante caso in tema di prestazioni esenti con riferimento al settore sanitario e diritto al rimborso dell’Iva.

Nel caso di specie la Commissione Tributaria Provinciale di Firenze respingeva il ricorso promosso dalla contribuente avverso il silenzio rifiuto dell’istanza di rimborso IVA annualità 2008, condannando la contribuente alla rifusione delle spese di lite.

Premesso che la ricorrente esercitava attività di casa di cura, fornendo prestazioni sanitarie esenti ai fini IVA e che questa circostanza imponeva l’applicazione della detraibilità IVA corrisposta sulle operazioni d’acquisto con il metodo del pro-rata, ovverosia determinando un rapporto tra il totale delle operazioni esenti ed il totale del volume d’affari conseguito nell’anno, rapporto che poi si traduceva in una percentuale che rappresentava la percentuale di indetraibilità IVA su tutta l’imposta corrisposta nell’anno, l’impresa contribuente aveva contestato tale situazione, ritenendola incompatibile con la normativa comunitaria, in quanto avrebbe spezzato il regime di neutralità tipico dell’IVA, quando invece 1’indetraibilità avrebbe dovuto riguardare solamente le operazioni escluse e non anche invece quelle esenti, tenuto conto che la stessa disciplina comunitaria, quando prevedeva ipotesi di indetraibilità, si riferiva alle operazioni economiche e non anche a quelle esenti.

Nel caso di specie l’impresa, nell’anno 2008, aveva effettuato acquisti per euro 11.429.370,00, corrispondendo IVA per euro 1.315.684,00, e aveva conseguito un volume di affari pari ad euro 25.407.346,00, di cui euro 24.714.163,00 per prestazioni esenti, laddove il rapporto tra operazioni esenti ed il volume d’affari totale aveva determinato una percentuale pro-rata di indetraibilità pari al 97%, con conseguente IVA su acquisti non detratta per euro 1.276.213,00.

La CTP, dopo aver ricostruito dettagliatamente l’intera disciplina normativa, nazionale e comunitaria, rilevava come «in presenza di attività esenti non può essere riconosciuto il diritto al rimborso dell’imposta assolta sugli acquisti di beni afferenti lo svolgimento di attività anch’esse esenti» perché «sono proprio le stesse norme comunitarie, oltre a quelle nazionali, che negano in modo assoluto il diritto alla detrazione dell’imposta a monte».

Lo stesso primo giudice poi concludeva affermando che «non vi può dunque essere più alcun dubbio sul fatto che la stessa esenzione spetta a patto che non sia stata operata la detrazione d’imposta. La Direttiva non consente l’esenzione della cessione del bene alla struttura sanitaria effettuata da un soggetto che opera detraendo l’imposta a monte, ma prevede che debba essere esente la cessione del bene effettuata dalla struttura sanitaria o da chiunque non abbia potuto detrarre l’imposta assolta a monte, quando il bene ceduto è destinato esclusivamente ad una attività esentata com’è nel caso di specie», sicché «in conclusione quindi si può affermare che l’esenzione spetta proprio in quanto l’IVA è indetraibile. L’esenzione, proprio per espressa disposizione dei giudici comunitari, è dunque giustificata dalla indetraibilità dell’imposta d’acquisto».

Avverso tale decisione interponeva appello l’originaria ricorrente, lamentando sotto più profili l’erroneità l’illegittimità ed in ogni caso l’ingiustizia della impugnata decisione di primo grado, così riproponendo per intero tutte le diverse contestazioni e doglianze già sollevate con 1’originario ricorso.

L’Ufficio, dopo essersi costituito in giudizio, produceva poi successiva memoria, con la quale eccepiva l’opponibilità, ex art. 2909 Cod. Civ., del giudicato esterno formatosi tra le stesse parti contendenti per 1’annualità 2009, con riferimento alle medesime, identiche, questioni, in fatto ed in diritto.

Anche la CTR considerava infondato l’appello del contribuente, accogliendolo solo limitatamente alla condanna alla rifusione delle spese di lite disposta dal primo giudice.

Quanto al merito della controversia il Collegio rilevava innanzitutto che le medesime questioni, in fatto ed in diritto, tra le stesse parti, con riferimento alla diversa annualità d’ imposta 2009, erano in effetti già state esaminate e risolte con la decisione assunta dalla stessa Commissione Tributaria Regionale della Toscana, poi passata in giudicato.

E il giudice, a prescindere anche dalla formazione del giudicato, condividendo interamente e punto per punto quanto già deliberato dai giudici di secondo grado nella precedente sentenza, riteneva di dover comunque addivenire al medesimo risultato di giudizio.

Considerato che, anche la Suprema Corte, con una pronuncia esattamente in termini (cfr. Cass., Sez. V tributaria, sent. 16 ottobre 2014-10 aprile 2015, n° 7209), aveva confermato le ragioni di diritto poste a fondamento delle pronunce di reiezione dei ricorsi promossi dai contribuenti nell’indicata materia.

Entrando più nello specifico della questione oggetto del giudizio, è possibile evidenziare quanto segue.

La tesi del contribuente, in sostanza, consisteva nel ritenere che le operazioni esenti poste in essere in generale dalle strutture sanitarie pubbliche e private, non sono estranee all’esercizio dell’impresa, ma rientrano in tale esercizio e quindi, pur essendo espressamente previsto dall’art. 19 comma 2, 5 e 19 bis del DPR 633/72 che le prestazioni sanitarie rientrino in un regime di pro rata di indetraibilità, tale previsione, laddove non consente la detraibilità dell’IVA in relazione alle operazioni esenti, sarebbe stata incompatibile con la normativa comunitaria, perché avrebbe spezzato il regime di neutralità tipico dell’imposta sul valore aggiunto.

Secondo il ricorrente, inoltre, il comma 2 dell’art 19 citato, che dispone, testualmente, che “non è detraibile l’imposta relativa all’acquisto o all’importazione di beni e servizi afferenti operazioni esenti”, sarebbe stato anche in contrasto con il precedente comma 1, che dispone la detrazione dell’imposta quando l’acquisto avviene nell’esercizio dell’impresa.

Secondo il ricorrente, in definitiva, come detto, l’indetraibilità avrebbe dovuto riguardare solo le operazioni escluse e non invece quelle esenti.

In sostanza il ricorrente lamentava il fatto che sul settore sanitario graverebbe in tal modo un’“Iva occulta”, che farebbe perdere all’imposta la sua caratteristica di neutralità.

Non solo, dunque, il ricorrente, in quanto struttura che non si poteva detrarre l’Iva (e quindi avente effettivamente diritto all’esenzione), ribadiva il suo diritto all’esenzione stessa, ma pretendeva, al tempo stesso, anche di detrarsi l’IVA.

Tali richieste, come confermato dai giudici di primo grado nella sentenza sopra citata, erano però in realtà basate su uno “stravolgimento” del disposto della normativa nazionale e comunitaria.

Con il D.Lgs. 2 settembre 1997, n. 313 sono state infatti formulate le disposizioni che dichiarano esenti da Iva la rivendita di beni acquistati con imposta totalmente indetraibile.

In particolare il n. 27-quinquies) dell’art. 10 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, proprio per adempiere all’obbligo imposto dalla Corte di Giustizia con sentenza C-45/95 del 25 giugno 1997, ha adeguato le norme interne a quelle della VI Direttiva comunitaria.

Paradossalmente, nel contenzioso in esame, tali disposizioni di adeguamento venivano però invocate per cercare di sovvertire principi basilari del tributo IVA, visto che si chiedeva in sostanza di riconoscere a quanti effettuano operazioni esenti lo stesso trattamento di totale detassazione che compete invece solo agli esportatori ed ai soggetti ad essi assimilati.

Ma in realtà ciò, come confermato dalla giurisprudenza sia di merito che di legittimità, non è possibile.

In presenza di attività esenti non può essere riconosciuto infatti il diritto al rimborso dell’imposta assolta sugli acquisti di beni afferenti lo svolgimento di attività anch’esse esenti.

Sono le stesse norme comunitarie, oltre a quelle nazionali, che negano in modo assoluto il diritto alla detrazione dell’imposta “a monte”.

L’art. 13 della VI Direttiva comunitaria del 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE enumera le cessioni di beni e le prestazioni di servizi che gli Stati membri debbono esentare dall’Iva nei loro ordinamenti interni.

La citata Sezione B, lettera c) dell’art. 13 della suddetta Direttiva afferma semplicemente che gli Stati membri debbono prevedere al loro interno l’esenzione dall’Iva per le rivendite di beni per i quali il cedente, in occasione del loro acquisto, non ha detratto la relativa imposta, o perché i beni stessi erano inizialmente destinati ad un’attività esente, oppure perché colpiti da indetraibilità oggettiva dell’Iva.

Vero è che, prima dell’emanazione del D.Lgs. n. 313 del 1997, la legislazione nazionale aveva recepito le citate disposizioni solo parzialmente ed in modo non del tutto conforme alla VI Direttiva.

L’intassabilità delle cessioni era infatti prevista solo a favore dei beni per i quali era stabilita l’indetraibilità oggettiva dell’imposta, ai sensi dell’ex art. 19, comma 2 (ora art. 19-bis1), del D.P.R. n. 633 del 1972; nessuna norma era stata invece introdotta per le cessioni di beni per i quali l’indetraibilità dell’imposta derivava dall’attività esente svolta dal soggetto acquirente-rivenditore.

Con il contenzioso in esame, però, per assurdo, si attaccava proprio l’adeguamento fatto dall’Italia per non incorrere nelle sanzioni comunitarie.

Con l’emanazione del D. Lgs. n. 313 del 1997, l’Italia ha infatti provveduto ad adeguare la normativa del D.P.R. n. 633 del 1972 a quella prevista dall’art. 13, Sezione B), lettera c), della VI Direttiva, stabilendo un trattamento di esenzione per la cessione di tutti i beni privi del diritto a detrazione.

È stato quindi inserito all’art. 10 del D.P.R. n. 633 del 1972 il n. 27-quinquies), con il quale sono state ricomprese tra le esenzioni tutte “le cessioni che hanno per oggetto beni acquistati o importati senza il diritto alla detrazione totale della relativa imposta ai sensi degli artt. 19, 19-bis1 e 19-bis2“.

Alla luce di quanto sopra esposto, come puntualmente confermato anche dai giudici di nella sentenza in commento, come non poteva sussistere alcun dubbio che l’esenzione dall’Iva prevista dalla più volte citata disposizione dell’art. 13, Sezione B, lettera c), della VI Direttiva, trasfusa nel nostro ordinamento al n. 27-quinquies dell’art. 10 del D.P.R. n. 633 del 1972, si riferisse soltanto alle rivendite di beni per i quali non è stata operata alcuna detrazione dell’imposta a monte e non certo alle cessioni di beni effettuate nei confronti di chi svolge attività esenti, così non poteva sussistere alcun dubbio sul fatto che la stessa esenzione spetta però solo a patto che non sia stata operata la detrazione dell’imposta.

Cercare allora di risolvere il problema, asserendo che, pur essendo le operazioni esenti, deve comunque spettare la detrazione, era infondato e contrario alla normativa sia nazionale che comunitaria.

E’ chiaro del resto che la distorsione del dettato normativo si realizzerebbe non solo in caso di doppia esenzione (per fornitore ed acquirente), ma anche in caso di contemporanea condizione, di esenzione e detraibilità, per l’acquirente struttura sanitaria, la quale, in tanto gode della condizione di esenzione all’atto della cessione o prestazione, in quanto, appunto, sopporta (rectius: deve sopportare) l’indetraibilità dell’imposta.

13 aprile 2018

Giovambattista Palumbo