Il valore probatorio delle dichiarazioni di terzi nel processo tributario: costituiscono indubbiamente elementi di cui tenere conto

partendo da un caso di reale giurisprudenza, analizziamo quale può essere il reale valore processuale delle dichiarazioni di terzi nel processo tributario

 

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 20954 del 16/10/2015, ha chiarito il valore probatorio delle dichiarazioni testimoniali nel processo tributario.

L’oggetto del contendere riguardava la detrazione Iva e la deduzione dei costi relativi ad operazioni ritenute inesistenti.

La contribuente impugnava gli atti impositivi, lamentando, tra le altre, la carenza di motivazione (stante il mero rinvio al p.v.c. della G.d.F.) e l’erronea assunzione di dichiarazione di terzi.

La C.T.P. di Roma, riuniti i ricorsi, li respingeva, mentre la C.T.R. del Lazio accoglieva l’appello della società, osservando, tra l’altro, che le dichiarazioni rese dai terzi ai verbalizzanti erano inutilizzabili.

L’Agenzia delle Entrate contestava dunque, davanti alla Suprema Corte, il fatto che la CTR, dopo aver affermato che le dichiarazioni rese alla Guardia di Finanza nel corso delle verifiche ben possono costituire validi indizi probatori se confermate da altri elementi, affermava però poi che, nella specie, tali dichiarazioni erano inutilizzabili perché prive di riscontro; e questo nonostante che le stesse dichiarazioni erano state anche confermate dalla contribuente.

I giudici di legittimità, evidenziavano innanzitutto che, in linea generale, il vizio di insufficiente (ovvero omessa) motivazione sussiste qualora il giudice di merito non dia adeguatamente conto – come nel caso di specie – delle inferenze logiche che devono non solo sussistere, ma anche essere palesate, tra gli elementi probatori acquisiti in giudizio e le conclusioni che ne vengono tratte in sede decisionale (cfr. Cass. n. 3370/2012, n. 16655/2011, n. 4556/2009).

E che il giudice tributario non può infatti limitarsi ad enunciare il giudizio nel quale consiste la sua valutazione, ma deve anche procedere alla descrizione del processo cognitivo che ha portato alla formazione di quel giudizio (cfr. Cass. n. 6947/2014, n. 1236/2006).

Nella sentenza impugnata, a fronte della contestata indeducibilità dei costi – ed indetraibilità dell’Iva corrispondente – per operazioni inesistenti, il collegio regionale si era invece limitato a “ritenere ellitticamente inutilizzabili le risultanze prospettate dalla Guardia di Finanza ai fini di una società di comodo rivolta al mero conseguimento di contributi statali“, pur dopo aver contraddittoriamente sostenuto che “le risultanze testimoniali” avevano trovato “conferma nelle dichiarazioni del contribuente“.

Secondo la Suprema Corte, pertanto, appariva evidente che, in ordine ai fatti controversi e decisivi del giudizio, l’iter motivazionale della sentenza impugnata era alquanto deficitario, mancando una congrua indicazione degli elementi dai quali era scaturito il convincimento del giudice di secondo grado, sull’esattezza e logicità del cui ragionamento restava perciò impedito il dovuto controllo (cfr. Cass. n. 1075/2014).

 

Quanto poi, specificatamente, alla questione afferente al valore probatorio delle dichiarazioni testimoniali, la Corte evidenziava che nel processo tributario le dichiarazioni rese da un terzo (in ipotesi acquisite dalla Guardia di finanza e trasfuse nel processo verbale di constatazione, poi recepito dall’avviso di accertamento) hanno valore indiziario, e concorrono a formare il convincimento del giudice, anche se non rese in contraddittorio col contribuente (Cass. nn. 21813/2012, 22519/2013, 12245/2010, 22210/2008, 25362/2007, 16825/2006), e che “l’inammissibilità della prova testimoniale non comporta l’inutilizzabilità, in sede processuale, delle dichiarazioni di terzi, eventualmente raccolte dall’amministrazione nella fase procedimentale, distinguendosi queste dalla tipica prova testimoniale per il loro valore probatorio, che è quello proprio degli elementi indiziari, senza che si determini nemmeno una violazione del principio di parità di armi, potendo il contribuente contestare la veridicità delle dichiarazioni in questione e introdurre a sua volta, nel giudizio di merito, altre dichiarazioni di terzi rese a discarico in sede extraprocessuale (Corte cost. n. 18/2000; Cass. nn. 20032/2011, 10785/2010, 9402/2007, 4423/2003)”.

 

Anche l’affermazione del giudice di appello, secondo cui “i riferimenti testimoniali dei verbalizzanti sono indubbiamente rilevanti, pur abbisognando di una conferma da parte di altri elementi“, era in realtà inesatta, dato che, sottolinea ancora la Corte, “sebbene testualmente l’art. 2729 cod. civ., così come il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, ed il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, si esprimano al plurale, gli elementi assunti a fonte di presunzione non devono essere necessariamente plurimi, potendo il convincimento del giudice fondarsi anche su un elemento unico, purché preciso e grave, la valutazione della cui rilevanza, nell’ambito del processo logico applicato in concreto, non è peraltro sindacabile in sede di legittimità, ove sorretta da motivazione adeguata e logicamente non contraddittoria (Cass. nn. 6947/2015, 656/2014, 9402/2007)”.

La motivazione era infine anche contraddittoria nella misura in cui il collegio giudicante di secondo grado, dopo aver affermato che “nel caso di specie le risultanze testimoniali trovano conferma nelle dichiarazioni del contribuente”, “ne trae illogicamente (salvo ipotizzare un refuso di stampa che abbia obliterato la preposizione negativa “non” prima del predicato verbale “trovano”) la conseguenza della “inutilizzabilità delle risultanze prospettate dalla Guardia di Finanza“.

D’altro canto, evidenziano ancora i giudici di legittimità, “poiché la prova di circostanze favorevoli alla parte non può ovviamente essere desunta dalla versione dei fatti da essa offerta, in contrapposizione a quella emergente dalle dichiarazioni di terzi, in caso di contrasto spetta al giudice del merito effettuare tutte le verifiche del caso, sul piano logico e fattuale, tenuto conto anche della ripartizione degli oneri probatori in materia di deducibilità di costi (Cass. n. 4554/2010) e di differenze antieconomiche tra costi e ricavi (Cass. nn. 8068 e 8069 del 2010)”.

Anche considerato che, qualora il giudice di merito riscontri i caratteri di gravità, precisione e concordanza degli elementi probatori presuntivi forniti dall’amministrazione finanziaria a supporto della pretesa inesistenza delle operazioni dalle quali origina la contestata detrazione dell’Iva, il contribuente resta comunque onerato di provarne l’effettiva esistenza (ex plurimis, Cass. nn. 6947/2015, 17977/2013, 12245/2010).

 

La sentenza è fin troppo chiara (in certi passi anche “rude”) nelle sue conclusioni.

E ricalca comunque un indirizzo ormai consolidato della Suprema Corte.

Già con la sentenza 9552 del 19 aprile 2013 la Corte di Cassazione aveva, per esempio, ribadito che il divieto della prova testimoniale nel processo tributario, di cui all’articolo 7 comma 4 del d.lgs. 546/92, preclude l’assunzione di dichiarazioni orali di terzi all’interno del processo, ma non implica l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rilasciate da un terzo fuori dalla sede processuale contenute in documenti o altri supporti.

Come noto l’articolo 7 comma 4 del d. lgs. 546/92 vieta la prova testimoniale nel procedimento tributario, ma non preclude l’utilizzabilità delle dichiarazioni rilasciate da un terzo al di fuori della sede processuale e, come nel caso di specie, inserite in un documento.

 

La soluzione è del resto rinvenibile nella ratio della norma e cioè nelle esigenze di speditezza e celerità del processo tributario, che però non escludono che dichiarazioni possano essere assunte fuori della sede processuale.

Il divieto di ammissione della prova testimoniale nel giudizio davanti alle commissioni tributarie, sancito dal d. lgs. 31 dicembre 1992 n. 546 art. 7, comma 4, si riferisce dunque solo alla prova testimoniale da assumere nel processo – che è necessariamente orale, di solito a iniziativa di parte, richiede la formulazione di specifici capitoli, comporta il giuramento di testi e riveste, conseguentemente, un particolare valore probatorio – e non implica, pertanto, l’inutilizzabilità ai fini della decisione, delle dichiarazioni raccolte dall’Amministrazione nella fase procedimentale e rese da terzi e cioè da soggetti terzi rispetto al rapporto tra contribuente e l’Erario.

 

Le dichiarazioni rese in fase istruttoria costituiscono quindi indubbiamente elementi di cui tenere conto.

Del resto, come noto, le massime enucleabili dalla consolidata giurisprudenza della Corte Suprema enunciano il principio in base al quale l’Amministrazione può porre a fondamento della propria attività conoscitiva ogni dato comunque in suo possesso.

Ciò che rileva dunque, afferma la Cassazione, è solo l’attendibilità delle fonti di prova acquisite.

Ed è su questo che il giudizio si deve concentrare, anche nella valutazione delle “controprove” fornite dal contribuente.

Quanto poi al valore delle dichiarazioni assunte dai verificatori, è evidente che quando le stesse dichiarazioni, tra di loro convergenti, confermano in modo chiaro altri elementi già emersi nel corso della verifica (o quando, addirittura, come nel caso di specie, sono confermate perfino dal contribuente), allora esse assurgono al valore di vera e propria prova.

Anche tale principio è stato già affermato dalla Corte di Cassazione più volte.

La Corte di Cassazione, chiamata a giudicare sull’ammissibilità processuale delle dichiarazioni che gli organi dell’Amministrazione sono autorizzati a richiedere anche a privati nella fase amministrativa di accertamento, ne ha ritenuto del resto pienamente legittima l’assunzione, considerandole rilevanti proprio perché assunte in sede extraprocessuale e come elementi istruttori valutabili ai fini probatori (Cassazione sentenze n. 14427/1999 e n. 14774/2000).

Ma allora, laddove, come anche nel caso di specie, le stesse dichiarazioni siano state rese da più soggetti, siano concordi e circostanziate e siano state comunque confermate da ulteriori indizi, costituiscono un complesso di presunzioni (gravi, precise e concordanti) in grado di sostenere l’accertamento dell’Ufficio, in base agli ordinari criteri di cui all’art. 2727 c.c..

Ciò che rileva, si ripete, è solo l’attendibilità delle fonti di prova acquisite, anche considerato che non esiste nel procedimento tributario (a differenza che nel procedimento penale) un principio generale di inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite (Cass. n. 7791 del 08.06.2001) e “pertanto gli organi di controllo possono utilizzare tutti i documenti dei quali siano venuti in possesso salvo la verifica della attendibilità” (Corte di Cassazione, Sez. Tributaria, con la sent. n. 1543 del 3 febbraio 2003).

Guardandosi, pertanto, in sede tributaria, non alla certezza dell’evento contestato, ma anche solo alla probabilità o verosimiglianza, si potranno prevedere anche forme indirette o presuntive di responsabilità.

9 novembre 2015

Giovambattista Palumbo