La legge fallimentare ed il concetto di piccolo imprenditore: analisi dei requisiti soggettivi, oggettivi e dimensionali relativi all'assoggettabilità a fallimento

analisi dei limiti dimensionali minimi richiesti per assoggettare l’impresa al fallimento: come viene attualmente definito il cosiddetto ‘piccolo imprenditore’

 

La massima

Proprio con riguardo all’interpretazione della L. Fall., art. 1, comma 2, lett. a), introdotto dal D.Lgs. n. 5 del 2006, questa Corte ha ritenuto che la nozione di “capitale investito“, rilevante per il riconoscimento della qualifica di piccolo imprenditore commerciale, all’esclusivo fine dell’individuazione del parametro dimensionale ostativo all’assoggettabilità a fallimento, coincide con l’attivo che fa parte dello stato patrimoniale da indicare in bilancio, ai sensi dell’art. 2424 c.c..

In detto attivo non rientra il capitale sociale che invece ai sensi del medesimo articolo rientra tra le poste passive.

In fatto

Il creditore istante (nel caso un istituto bancario) proponeva istanza di fallimento della S. S.r.l. Il Tribunale di Udine dichiarava il fallimento della stessa, con sentenza n. 7/2007. Contro tale pronuncia la S. S.r.l. ed il suo legale rappresentante e amministratore P.M., in proprio, proponevano appello deducendo:

  • l’inesistenza del presupposto soggettivo in relazione al disposto dell’art. 1,comma secondo, L.F., in quanto la S S.r.l. era qualificabile come piccolo imprenditore, avendo un ammontare di investimenti inferiore ad euro 300.000,00 ed avendo realizzato ricavi lordi calcolati sulla media degli ultimi tre anni, per un ammontare complessivo annuo inferiore ad euro 200.000,00;

  • l’inesistenza del presupposto oggettivo dello stato di decozione.

La Corte d’appello di Trieste, con sentenza n. 563/2007, rigettava il gravame. Avverso la detta sentenza la S S.r.l. ed il suo legale rappresentante ricorrevano per Cassazione.

In diritto

La Corte di Cassazione si pronuncia sulla questione de qua con la sentenza del 15 gennaio 2015, n. 583. L’art. 1 del Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267 (cd. Legge fallimentare), così modificato dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e successivamente dal d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, fissa i requisiti di natura soggettiva, oggettiva e dimensionale in presenza dei quali un’impresa rientra nel campo di applicazione del fallimento e del concordato preventivo.

Sotto il profilo soggettivo, sono fallibili solo le imprese private, qualunque sia la forma giuridica assunta (individuale o societaria), che esercitano un’attività commerciale. L’art. 2195 c.c. considera commerciali le imprese che svolgono una delle seguenti attività:

  • produzione di beni o servizi,

  • intermediazione nella circolazione dei beni,

  • trasporto per terra, acqua, aria,

  • banche e assicurazioni,

  • attività ausiliarie delle precedenti. 

Restano quindi escluse dalla disciplina del fallimento: 

  • le imprese pubbliche; 

  • le imprese non commerciali, ad esempio le imprese agricole.

Sotto il profilo oggettivo, un’impresa per essere dichiarata fallita, deve trovarsi in uno stato di insolvenza. Il successivo art. 5 L.F. definisce questo stato come la situazione in cui l’imprenditore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni nei confronti dei creditori e che si manifesta con inadempimenti o con altri fatti esteriori. 

Sotto il profilo dimensionale, l’art. 1 L.F. fissa i requisiti che, solo in presenza congiunta, determinano il non assoggettamento dell’impresa, come sopra individuata, alla disciplina fallimentare:

  • attivo patrimoniale complessivo annuo, nei tre esercizi precedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento (o dall’inizio dell’attività se inferiore), non superiore ad euro 300.000;  

  • ricavi lordi complessivi annui, nei tre esercizi precedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento (o dall’inizio dell’attività se inferiore), non superiori ad euro 200.000;  

  • ammontare di debiti, anche non scaduti, non superiore a euro 500.000. 

Ai fini della nostra disamina è bene precisare che nella formulazione del 2006 il primo limite dimensionale era così testualmente previsto “… hanno effettuato investimenti nell’azienda per un capitale di valore superiore a euro 300.000…”. Quindi con la modifica del 2007 si è passati da capitale investito ad attivo patrimoniale.

Per completezza espositiva occorre ricordare che ai sensi dell’art. 1 L.F., ultimo comma, “… i limiti dimensionali possono essere aggiornati ogni tre anni con decreto del Ministro della giustizia, sulla base della media delle variazioni degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati intervenute nel periodo di riferimento“.

L’intervento della Cassazione si è reso necessario per chiarire, nell’ambito dei requisiti dimensionali, cosa debba intendersi per capitale investito. Va preliminarmente ribadito che la ratio della norma è quella di limitare l’attivazione della procedura fallimentare a quelle situazioni aziendali che presentano elementi di interesse economico, sarebbe infatti eccessivamente dispendioso e poco gratificante per il ceto creditorio e per l’intera collettività avviare il procedimento fallimentare nei confronti di imprese che non hanno un ammontare consistente di attivo patrimoniale e ricavi lordi da poter presto liquidare e successivamente ripartire tra gli insinuati o che non hanno una elevata esposizione debitoria, ma modesti insoluti. Sugli ultimi due requisiti dimensionali è già intervenuta la Cassazione come sotto riportato. Circa il capitale investito, la Suprema Corte con la sentenza del 15 gennaio 2015, n. 583 ha chiarito che “… proprio con riguardo all’interpretazione della L. Fall., art. 1, comma 2, lett. a), introdotto dal D.Lgs. n. 5 del 2006 , questa Corte ha ritenuto che la nozione di “capitale investito”, rilevante per il riconoscimento della qualifica di piccolo imprenditore commerciale, all’esclusivo fine dell’individuazione del parametro dimensionale ostativo all’assoggettabilità a fallimento, coincide con l’attivo che fa parte dello stato patrimoniale da indicare in bilancio, ai sensi dell’art. 2424 c.c.. In detto attivo non rientra il capitale sociale che invece ai sensi del medesimo articolo rientra tra le poste passive … “.

La conclusione alla quale sono giunti i Supremi Giudici è del tutto condivisibile, infatti lo Stato Patrimoniale rappresenta l’ammontare degli investimenti realizzati e la situazione finanziaria della società ad una determinata data, rappresentando quindi la fotografia della situazione finanziaria-patrimoniale dell’azienda. Lo stato patrimoniale, così come disegnato dall’art. 2424 c.c., si articola in due sezioni contrapposte: da un lato l’attivo, cioè gli investimenti che l’impresa ha realizzato per il raggiungimento del suo scopo, costituiti da beni e diritti (impieghi), dall’altro il passivo, ovvero i mezzi di finanziamento che l’azienda si è procurata (fonti). In seno a quest’ultimi è possibile distinguere i mezzi in relazione alla provenienza:

– interna, quindi mezzi propri rappresentati dal capitale sociale e dalle riserve, sia di capitale che di utile, non distribuite tra i soci. Tali mezzi rappresentano il capitale di rischio destinato a permanere in azienda senza limiti di tempo;

– esterna, quindi mezzi di terzi rappresentati dai debiti che l’impresa ha contratto per poter acquisire ulteriori risorse (ad esempio debiti bancari, debiti tributari, debiti verso fornitori …). Si tratta di capitale di debito destinato a permanere in azienda per un breve o medio periodo.

È quindi indiscutibile che il capitale investito di cui all’art. 1 L.F. sia rappresentato dagli investimenti realizzati dall’impresa e costituiti dai beni di proprietà e dai diritti acquisiti, classificati nella sezione “Attivo” dello Stato patrimoniale redatto ai sensi dell’art. 2424 c.c.. Il capitale sociale, invece, rappresenta le risorse acquisite dall’azienda, a titolo di capitale di rischio, per poter realizzare i predetti investimenti, e per tanto, nello schema di bilancio confluisce nella contrapposta sezione dello Stato patrimoniale rubricata “Passivo” assieme al capitale di debito. D’altra parte un passo in questo senso era stato già fatto dal Legislatore, che con la modifica del 2007 aveva sostituito il riferimento al capitale investito con quello all’attivo patrimoniale.

Appare del caso ricordare che la Suprema Corte è intervenuta, più volte, per chiarire la portata dei requisiti dimensionali per l’assoggettamento alla disciplina fallimentare dell’impresa, infatti, non possono non citarsi:

  • la sentenza del 28 maggio 2010, n. 13.086, che, in tema di presupposti soggettivi precisa che “… l’art. 1 L.F. … privilegiando il criterio quantitativo rispetto a quello per categorie, ha posto termine al dibattito esegetico sorto circa la sopravvivenza in ambito concorsuale della nozione di piccolo imprenditore avendo eliminato qualsiasi spazio di applicabilità al sistema concorsuale di tale ultima figura attraverso la fissazione di limiti quantitativi entro i quali l’attività dell’imprenditore – nozione correttamente preferita a quella oggettiva dell’impresa, pur valorizzata dall’ intero impianto della riforma, che, come rileva la dottrina, non rappresenta un soggetto ma qualifica l’attività esercitata dal soggetto che opera professionalmente in campo economico – deve rientrare per essere sottratta al fallimento, nell’ottica della fissazione di un limite di utilità economica dell’apertura della procedura“;

  • la sentenza del 3 dicembre 2010, n. 24.630 e la sentenza del 27 dicembre 2013, n. 28.667, che circa i ricavi lordi, puntualizza, rispettivamente che “… nel computo dei ricavi, ai fini del riconoscimento della qualifica di piccolo imprenditore, il triennio cui si richiama il legislatore nell’art. 1 legge fallimentare va riferito agli ultimi tre esercizi in cui la gestione economica è scadenzata, e non agli anni solari…” e che per ricavi lordi si intendono gli ammontari classificati nella voce A.1 “Ricavi delle vendite e delle prestazioni” e A.5 “Altri ricavi e proventi” del Conto economico, e non tutta la macrovoce A. Infatti “… la logica valutativa delle rimanenze e dei lavori in corso trova il suo fondamento nel rappresentare la corretta correlazione tra costi e ricavi, sì da non penalizzare economicamente l’esercizio in cui sono stati sostenuti i costi di acquisizione e/o produzione, a fronte di quelli in cui vengono realizzati i correlativi ricavi…”;

  • la sentenza del 4 maggio 2011, n. 9.760… con riguardo ai debiti non scaduti … vanno considerati anche i debiti condizionati, come quelli derivanti dalla prestazione di garanzie, che presuppongono la preventiva escussione del debitore…“.

21 febbraio 2015

Anna Maria Pia Chionna