L'esdebitazione ed i debiti tributari

i debiti tributari non sono esplicitamente esclusi dai debiti che possono essere oggetto della procedura di esdebitazione del soggetto non fallibile

Con l’Ordinanza della Corte di Cassazione n.23129 del 30 ottobre è stato affermato che i crediti tributari non sono esplicitamente esclusi dall’esdebitamento ex art 142 L.F. Le obbligazioni tributarie non sono infatti “estranee all’esercizio dell’impresa“, né sono inderogabili ex art. 53 Cost, pena una dichiarazione di incostituzionalità di tutta la normativa sull’esdebitamento e di tutta la prassi legislativa in tema di “definizione agevolata” (tra cui anche la mediazione ex. articolo 17bis della legge 546/1992).

Giova premettere che la L. Fall., art. 142, vigente (così come introdotto dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5), prevede che a determinate condizioni, il cui accertamento è compito del Tribunale fallimentare, “il fallito persona fisica è ammesso al beneficio della liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti“.

Restano esclusi dall’esdebitazione:

a) gli obblighi di mantenimento e alimentari e comunque le obbligazioni derivanti da rapporti estranei all’esercizio dell’impresa;

b) i debiti per il risarcimento dei danni da fatto illecito extracontrattuale, nonchè le sanzioni penali ed amministrative di carattere pecuniario che non siano accessorie a debiti estinti.

La lettera a) è stata così modificata dal D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169, art. 10, comma 1, a decorrere dal 1 gennaio 2008 (in precedenza si parlava dei crediti “non compresi nel fallimento ai sensi dell’art. 46“).

I crediti tributari non sono dunque esplicitamente esclusi dall’esdebitamento; e questa osservazione non è priva di rilievo, dal momento che in altre disposizioni il legislatore si invece è preoccupato di dettare specifiche disposizioni attinenti ai crediti tributari (cfr. l’art. 182 ter, della medesima legge fallimentare). Ed il regime dei debiti tributari è regolato nella legge 3/2012 (come modificata ed integrata dal di 179/2012 conv. in legge 212/2012, che ha introdotto il così detto “esdebitamento” dei soggetti non contemplati dalla legge fallimentare).

Nel giudizio all’esame della Corte, come emerge dall’Ordinanza in commento, l’Amministrazione sosteneva che le obbligazioni tributarie sarebbero “estranee all’esercizio dell’impresa“, in quanto collegate all’esercizio dell’impresa da un rapporto meramente occasionale.

In base a tale tesi si doveva dunque tener conto del significato letterale dell’espressione adoperata dal legislatore, essendo così necessario dare un contenuto al concetto di “rapporti estranei all’esercizio dell’impresa“.

Locuzione da comprendersi a contrario, considerando, cioè, cosa si intenda per rapporti inerenti all’esercizio dell’impresa, laddove, riferendosi a tali rapporti, per tradizione, il legislatore si riferisce alle obbligazioni che un soggetto assume nella qualità di imprenditore.

Tali obbligazioni, infatti, sorgono a seguito della stipulazione dei c.d. contratti di impresa, vale a dire quei contratti che l’imprenditore conclude per finalità di impresa, ossia allo scopo di procurarsi i fattori della produzione (contratti con i fornitori, contratti di lavoro subordinato ed in genere di collaborazione), ovvero per assicurarsi il guadagno dell’attività (contratto di vendita, appalto, ed altri).

Se si tiene conto di ciò, bisognerebbe dunque concludere che i debiti estranei all’esercizio dell’impresa sono quelle obbligazioni che non rispondono alla finalità imprenditoriale, vale a dire che non sono assunte con finalità di produzione dei beni e servizi e di successiva collocazione degli stessi sul mercato.

E tra questi, in base alla medesima tesi, non rientrerebbero dunque i debiti tributari, dato che tali tipi di debiti non sono assunti in ragione della qualità di imprenditore rivestita dal debitore, nè con finalità di impresa, essendo piuttosto debiti che nascono in ossequio alla finalità di concorrere alla spesa pubblica (secondo quanto espressamente sancito dall’art. 53 Cost).

Il debito tributario, dunque, sorgerebbe “in occasione” dell’attività di impresa, ma non sarebbe un debito “inerente” all’attività di impresa, dovendosi quindi ritenere compreso nei “rapporti estranei all’esercizio dell’impresa” di cui all’art. 142, comma 3, lett. a).

Questa la tesi dell’Amministrazione.

Secondo la Suprema Corte, però, tale tesi deve essere respinta, sussistendo “indubbiamente oneri tributari (e piuttosto rilevanti) che sicuramente sono derivanti da rapporti non estranei all’esercizio dell’impresa. Fra questi rientrano sicuramente IVA ed IRAP … che sono dovute proprio e soltanto perchè le operazioni economiche da cui scaturiscono costituiscono esercizio dell’impresa”.

Con un secondo argomento l’Amministrazione sosteneva allora comunque l’inderogabilità dei crediti tributari, in quanto espressione del dovere di ogni soggetto di concorrere alle spese pubbliche e dunque l’impossibilità della esdebitazione.

Secondo i giudici di legittimità, però, “l’argomento … condurrebbe però ad una dichiarazione di incostituzionalità di tutta la normativa sull’esdebitamento e in fondo di tutta una prassi legislativa che ha previsto la “definizione agevolata”, o addirittura l’abbandono di crediti tributari. La stessa presunta “irrinunciabilità” dei crediti tributari è, del resto, posta in crisi da disposizioni come articolo 17bis nel corpo della legge 546/1992 introdotto dal D.L. 6 luglio 2011, n. 98, art. 39, comma 9, convertito dalla L. 15 luglio 2011, n. 111, secondo cui l’Amministrazione nel formulare la sua eventuale proposta di mediazione deve aver “riguardo all’eventuale incertezza delle questioni controverse, al grado di sostenibilità della pretesa e al principio di economicità dell’azione amministrativa”; cioè, sembrerebbe alla eterna massima … che induce a rinunciare ad una pretesa giuridicamente fondata, ma di incerto incasso, accettando una somma minore ma di sicuro incasso”.

Del resto, conclude la Corte, “è difficile individuare un qualche credito cancellato dall’esdebitamento che non goda di tutela costituzionale (è ad esempio ovvio che ne godono i crediti del lavoratore); e tuttavia in un bilanciamento di interessi (e disposizioni costituzionali) contrapposte, il legislatore sacrifica i diritti dei creditori in vista del ragionevole obbiettivo di consentire al fallito incolpevole (ed in genere a tutti gli indebitati) di riprendere la loro attività economica senza il timore di dover versare quasi tutto il percepito ai creditori. E questo sacrificio trova ulteriore giustificazione nella circostanza che – se le procedure fallimentari sono state regolarmente esperite – il fallito non possiede più alcun bene e dunque si tratta di crediti di quasi impossibile soddisfacimento …”.

Tanto premesso, al di là del fatto che, probabilmente, la riflessione sulla natura inderogabile dei debiti tributari richiedeva qualche riflessione più approfondita e puntuale, la decisione della Cassazione, laddove richiama tra i debiti oggetto di esdebitamento anche l’Iva, non prende però in considerazione un aspetto non di secondaria importanza.

A seguito infatti della modifica apportata all’art. 182-ter dal D.L. 29 novembre 2008, n. 185 (secondo cui ‘con riguardo all’imposta sul valore aggiunto, la proposta può prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento’), anche nei casi di transazione fiscale, si dovrà comunque prevedere un pagamento integrale o, tutt’al più, dilazionato del credito IVA.

L’art. 182-ter della legge fallimentare esclude infatti espressamente dalla transazione fiscale i “tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea”, in quanto l’ottavo considerando della Direttiva CEE del 28 novembre 2006, n. 112 (“Direttiva CE del Consiglio relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto”) afferma che “in applicazione della decisione 2000/597/CE, Euratom del Consiglio, del 29 settembre 2000, relativa al sistema delle risorse proprie delle Comunità europee, il bilancio delle Comunità europee, salvo altre entrate, è integralmente finanziato da risorse proprie delle Comunità. Dette risorse comprendono, tra l’altro, quelle provenienti dall’IVA, ottenute applicando un’aliquota comune ad una base imponibile determinata in modo uniforme e secondo regole comunitarie”.

A seguito delle citate modifiche legislative, la giurisprudenza (Cfr. Trib. Roma, 16 dicembre 2009), che è tornata a occuparsi di tale aspetto della transazione fiscale, è giunta alla condivisibile conclusione che “il primo comma dell’art. 182 ter della legge fallimentare, in tema di condizioni dell’offerta concordataria, stabilisce i limiti di autonomia negoziale con riguardo al trattamento del credito fiscale, previdenziale e assistenziale, limiti che concernono sia l’offerta concordataria, sia lo spazio determinativo della p.a., la quale mai potrebbe acconsentire a proposte irrispettose dei limiti di tali crediti” (Cfr. Trib. Monza 23 dicembre 2009 e Trib. Salerno 9 novembre 2010), precisando poi che tale norma impone il pagamento integrale del credito Iva.

E quindi, al di là degli specifici motivi già affrontati dalla Corte ed al di là del fatto che la modifica normativa ora citata ha riguardato specificamente l’art. 182 ter, non c’è dubbio che la ratio della previsione è però comunque quella di impedire l’abbattimento di pretese tributarie che costituiscono risorse economiche comunitarie (stesso motivo per cui l’Italia è stata censurata per i condoni riguardanti anche l’Iva). E dunque perché non dovrebbe valere anche nel caso dell’esdebitamento?

22 gennaio 2015

Giovambattista Palumbo