La motivazione delle sentenze

i giudici tributari possono motivare le sentenze per relationem, purchè la motivazione così costruita sia autosufficiente

Con la sentenza n. 663 del 15 gennaio 2014 (ud. 2 dicembre 2013) la Corte di Cassazione torna ad occuparsi della problematica legata alle sentenze motivate per relationem.

La sentenza

La Corte prende le mosse dalla constatazione che “l’ipotesi di nullità della sentenza ricorre oltre che in ipotesi di difetto assoluto, da un punto di vista materiale, della stessa anche quando si sia in presenza di una motivazione apparente, ravvisabile quando le ragioni poste a base della decisione siano radicalmente inidonee ad esprimere la ratio decidendi – cfr. Cass. n. 4927/2013; Cass. n. 3794/13; Cass. n. 871/2009; Cass. n. 7672/2003; Cass. n. 2067/1998”.

Pertanto, “si ha motivazione omessa o apparente quando il giudice di merito omette di indicare, nel contenuto della sentenza, gli elementi da cui ha desunto il proprio convincimento ovvero, pur individuando questi elementi, non procede ad una loro disamina logico-giuridica, tale da lasciar trasparire il percorso argomentativo seguito (v. tra le altre Cass. n. 6762 /2006). In sostanza, questa Corte è ferma nel ritenere che si sottrae all’obbligo della motivazione, o vi fa fronte in modo del tutto apparente, il giudice di merito che apoditticamente neghi che sia stata data la prova di un fatto (o, evidentemente affermi, al contrario, che tale prova sia stata fornita), omettendo un qualsiasi riferimento sia ai mezzi di prova che ha avuto a specifico oggetto la circostanza in questione, sia al relativo risultato – v., tra le altre, Cass. n. 987/1980, Cass. n. 871/2009. Questa Corte – sent. n. 20112/2009 – ha poi aggiunto che in materia di contenuto della sentenza, affinchè sia integrato il vizio di ‘mancanza della motivazione’ agli effetti, di cui all’art. 132 cod. proc. civ., n. 4, occorre che la motivazione manchi del tutto – nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione – ovvero che essa formalmente esista come parte del documento, ma le sue argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del ‘decisum”.

Nel caso di specie, osserva la Corte, “non è rispondente al vero che la CTR abbia omesso di motivare sulla deducibilità dei costi relativi ai libri, agganciando la decisione ai controlli amministrativi svolti dalle autorità regionali chiamate a verificare il finanziamento concesso. Ciò esclude di potere qualificare come assente la motivazione, semmai potendosi spostare il tema di indagine sulla congruenza dell’impianto motivazionale alla stregua dell’art. 360 c.p.c., comma n. 5. che nel caso di specie non è stato evocato nella censura”.

Brevi considerazioni

Come è noto, in ordine alla legittimità o meno delle sentenze motivate per relationem, con sentenza n. 14814 del 19 febbraio 2008 (dep. il 4 giugno 2008) la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha risolto la questione, che aveva già visto precedenti e difformi pronunciamenti, affermando che la motivazione di una sentenza può essere redatta per relationem ad altra sentenza, purché la motivazione stessa non silimiti alla mera indicazione della fonte di riferimento, occorrendo la riproduzione dei contenuti mutuati, e che questi diventino oggetto di autonomavalutazione critica nel contesto della diversa (anche se connessa) causa sub iudice, in maniera da consentire anche la verifica della compatibilitàlogico-giuridica dell’innesto, fermo restando, preliminarmente, che quando siano pendenti più processi aventi ad oggetto questioni connesse, il giudice deve utilizzare gli istituti processuali tenendo conto della esigenza di evitare giudicati contraddittori, ma anche di garantire il rispetto dei principi del giusto processo, con riferimento al diritto al contraddittorio e alla ragionevole durata del processo, del diritto di difesa e del diritto alla motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, presupposto indefettibile, quest’ultimo, “per il controllo etero ed endoprocessuale dei provvedimenti stessi e corollario del principio di legalità dello Stato di diritto”.

Per le Sezioni Unite, la mancanza di una autonoma ed esauriente motivazione, non consente il controllo di legittimità sull’operato del giudice (criteri di valutazione degli elementi probatori adottati, regole ermeneutiche applicate, logica della decisione) che è l’unico possibile controllo sul corretto esercizio della giurisdizione in uno Stato di diritto. D’altra parte, non si può richiedere il rispetto del principio dell’autosufficienza delle impugnazioni se la sentenza impugnata non è, a sua volta, autosufficiente.

La Corte, quindi, conferma l’indirizzo giurisprudenziale maggioritario, secondo il quale quando la motivazione di una sentenza si limiti a rinviare ad altra motivazione, in maniera che non sia possibile individuare le ragioni che stanno a fondamento del dispositivo la sentenza è nulla.

La motivazione deve essere “autosufficiente“, nel senso che dalla lettura della stessa deve essere possibile rendersi conto delle ragioni di fatto e di diritto che stanno a base della decisione.

La motivazione di una sentenza può essere redatta per relationem rispetto ad altra sentenza, purché la motivazione stessa non si limiti alla mera indicazione della fonte di riferimento: occorre che vengano riprodotti i contenuti mutuati, e che questi diventino oggetto di autonoma valutazione critica nel contesto della diversa (anche se connessa) causa sub iudice, in maniera da consentire poi anche la verifica della compatibilità logico-giuridica dell’innesto.

Infine, sul piano sistematico, la tesi che la ratio decidendi si debba sempre poter ricavare, in maniera espressa ed autosufficiente, dalla motivazione della sentenza trova un preciso riscontro legislativo nell’art. 12, comma 7, della L. n.212/2000. E “ sarebbe assurdo ipotizzare che la chiarezza ed esaustività che si pretendono in sede amministrativa, vengano meno nella sede giudiziaria, nella quale le garanzie del contraddittorio e della difesa (che la norma citata intende garantire fin dalla fase delle procedure amministrative di accertamento) sono tutelati con norme costituzionali”.

Si rileva che, successivamente, con sentenza n. 9537 del 29 aprile 2011 (ud. del 16 febbraio 2011) la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità della motivazione per relationem della sentenzapronunciata in sede di gravame, purchè il giudice d’appello, facendoproprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modosintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motividi impugnazione proposti, così che il percorso argomentativo desumibileattraverso la parte motiva delle due sentenze risulti appagante e corretto.È consolidato indirizzo di questa Corte (Cass. nn. 890/2006, 1756/2006, 2067/1998) che “ricorre il vizio di omessa motivazione della sentenza, denunziabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella duplice manifestazione di difetto assoluto o di motivazione apparente, quando il giudice di merito omette di indicare, nella sentenza, gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indica tali elementi senza una approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento”. Di poi ha ritenuto (Cass. nn. 2268/2006,1539/2003, 6233/2003, 11677/2002) che è “legittima la motivazione ‘per relationem‘ della sentenza pronunciata in sede di gravame, purchè il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, in modo che il percorso argomentativo desumibile attraverso la parte motiva delle due sentenze risulti appagante e corretto. Deve viceversa essere cassata la sentenza d’appello allorquando la laconicità della motivazione adottata, formulata in termini di mera adesione, non consenta in alcun modo di ritenere che alla affermazione di condivisione del giudizio di primo grado il giudice di appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame”.

E ancora con l’Ordinanza n. 10490 del 30 aprile 2010 (ud. del 17 febbraio 2010) la Corte di Cassazione ha affermato che la decisione pronunciata in appello non incorre nel vizio di carenza, inesistenza o apparenza di motivazione subordinatamente alla condizione che, attraverso il rinvio al contenuto della sentenza del primo giudizio, il giudice chiarisca, anche sinteticamente, i motivi per i quali intende condividere le conclusioni della sentenza gravata garantendo l’esposizione di un iter logico giuridico sufficientemente argomentato, anche per il tramite dell’integrazione delle due decisioni. Risponde, infatti, ad un orientamento consolidato in giurisprudenza di legittimità “che la motivazione per relationem della sentenza pronunziata in sede di gravame è legittima purchè il giudice di appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima sia pur sinteticamente le ragioni della conferma della pronunzia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, in modo che il percorso argomentativo desumibile attraverso la parte motiva delle due sentenze risulti appagante e corretto; sicchè deve essere cassata la sentenza d’appello quando la laconicità della motivazione adottata, formulata in termini di mera adesione, non consenta in alcun modo di ritenere che alla affermazione di condivisione del giudizio di primo grado il giudice di appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di impugnazione (v. Cass., 14/2/2003, n. 2196, e, da ultimo, Cass., 11/6/2008, n. 15483)”.

Ed ancora, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 20032 del 30 settembre 2011 (ud. del 6 luglio 2011) ha cassato la sentenza di secondo grado che, nel testo della motivazione, fa riferimento atalune sentenze della Corte, indicando i principi affermati, senza alcun collegamento concreto con le fattispecie in esame. È consolidato indirizzo di questa Corte (Cass. nn. 890/2006, 1756/2006, 2067/1998) che “ricorre il vizio di omessa motivazione della sentenza, denunziabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella duplice manifestazione di difetto assoluto o di motivazione apparente, quando il giudice di merito omette di indicare, nella sentenza, gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indica tali elementi senza una approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento”. Di poi ha ritenuto (Cass. nn. 2268/2006, 1539/2003, 6233/2003, 11677/2002) che è “legittima la motivazione ‘per relatìonem’ della sentenza pronunciata in sede di gravame, purchè il giudice d’appello,facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, in modo che il percorso argomentativo desumibile attraverso la parte motiva delle due sentenze risulti appagante e corretto. Deve viceversa essere cassata la sentenza d’appello allorquando la laconicità della motivazione adottata, formulata in termini di mera adesione, non consenta in alcun modo di ritenere che alla affermazione di condivisione del giudizio di primo grado il giudice di appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame”. Rileva l’estensore della sentenza che il pronunciamento di secondo grado “disattende il superiore insegnamento, giustificando la decisione con affermazioni apodittiche e riferimenti esemplificativi ai processi verbali, senza indicarne i contenuto. Non è dato sapere dalla sentenza chi siano i ‘terzi’, le cui dichiarazioni sono state poste a base degli accertamenti e che possono, secondo la giurisprudenza che sarà esaminata in seguito,costituire legittime fonti di prova”.

E ancora, con la sentenza n. 26504 del 12 dicembre 2011 (ud. 21 settembre 2011), la Corte di Cassazione ha accolto le doglianze dell’Agenzia delle Entrate, tese a negare, nel caso di specie, la sussistenza di una motivazione per relationem nella sentenza appellata. Facendo proprio il costante insegnamento della Suprema Corte, nella sentenza che si annota, i giudici affermano che “la motivazione per relationem della sentenza di appello è legittima purchè il giudice del gravame, facendo proprie le argomentazione di quello di prima istanza, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, di guisa che il percorso argomentativo, desumibile dal raffronto tra le parti motive di entrambe le sentenze, risulti appagante e corretto, in conformità al modello di sentenza prefigurato dal disposto dell’art. 132 c.p.c., n. 4. Tale correttezza del percorso motivazionale non può, per contro, essere ritenuta da questa Corte laddove il giudice di appello si limiti ad una laconica motivazione, formulata in termini di mera adesione alla motivazione dell’impugnata sentenza. E’ fin troppo evidente, infatti, che in siffatta ipotesi non è in alcun modo possibile inferire che alla condivisione del giudizio di primo grado il giudice di appello sia pervenuto sulla base dell’esame dei motivi di gravame, e di una valutazione di infondatezza degli stessi (Cass. 2268/06, 15483/08, 18625/10, 11138/11)”. Nel caso sottoposto alla Suprema Corte, “l’impugnata sentenza ha addirittura letteralmente trascritto la motivazione della decisione di prime cure, come si evince dal riferimento – contenuto in più punti della decisione di appello – ai motivi di ricorso del contribuente ed alle controdeduzioni dell’Ufficio, anzichè ai motivi di appello proposti dall’amministrazione finanziaria. Ed è certamente significativo che la CTR – a p. 2 della decisione, a chiusura della parte narrativa della motivazione – abbia testualmente riportato la seguente affermazione: ‘chiede l’Ufficio che il ricorso venga rigettato perchè infondato’; laddove, rivestendo l’amministrazione finanziaria la qualità di appellante, la stessa non avrebbe logicamente potuto concludere per il rigetto del proprio ricorso in appello. Ma vi è di più. Il dispositivo dell’impugnata sentenza addirittura reca la pronuncia di accoglimento del ricorso della contribuente (‘la Commissione accoglie il ricorso e dichiara compensate le spese’), anzichè quella di rigetto dell’appello proposto dall’amministrazione finanziaria. Sicchè è di palmare evidenza che la CTR, men che motivare per relationem la propria decisione, mediante richiamo a quella emessa in prime cure, si è limitata a riprodurre pedissequamente quest’ultima, senza effettuare esame alcuno dei motivi di appello proposti dall’Agenzia delle Entrate, che – in verità – non risultano neppure menzionati nella sentenza di appello”. L’esame della pronuncia di primo grado, nell’ambito e nei limiti dei motivi di gravame risulta pertanto ristretta, nel caso di specie, alla seguente laconica ed apodittica affermazione: “la decisione della Commissione di primo grado appare logica, conforme a diritto e non deve perciò essere modificata“.

E con la sentenza n. 15249 del 12 settembre 2012 (ud. 12 luglio 2012) la Corte di Cassazione ha fissato dei limiti al rinvio, in sentenza, alla motivazione di altro giudice. Secondo il costante insegnamento della Corte Suprema, la motivazione per relationem della sentenza pronunciata in sede di gravame è da reputarsi legittima, “purchè il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, in modo che il percorso argomentativo desumibile attraverso la parte motiva delle due sentenze risulti appagante e corretto. Il ricorso alla motivazione suindicata deve, viceversa, ritenersi illegittimo, con conseguente cassazione della sentenza di seconde cure, allorquando la laconicità della motivazione adottata, formulata in termini di mera adesione, non consenta in alcun modo di ritenere che all’affermazione di condivisione del giudizio di primo grado il giudice di appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (cfr. Cass. 15483/08, 18625/10, 11138/11)”. Nel caso di specie, “a fronte degli specifici e dettagliati motivi di appello, regolarmente trascritti nel ricorso, ai fini della autosufficienza, e mirati a contestare, in maniera del tutto analitica, ciascuno dei rilievi operati dall’Ufficio – l’impugnata sentenza si è limitata ad operare un secco e laconico, nonché apodittico, riferimento alle conclusioni cui è pervenuta la decisione di prime cure, senza premurarsi di specificare le ragioni per le quali tali conclusioni siano da condividere, e senza spendere neppure una parola in ordine alle consistenti censure mosse dalla contribuente alla decisione di primo grado”. La sentenza di appello è, quindi, solo apparentemente motivata, “palesandosi tale decisione del tutto priva dell’indicazione degli elementi da cui l’organo giudicante, nel confermare la decisione di primo grado, ha tratto il proprio convincimento (Cass. 1756/06, 9113/12)”.

E con la sentenza n. 3340 del 12 febbraio 2013 la Corte di Cassazione ha affermato che “la motivazione di una sentenza può essere redatta per relationem rispetto ad altra sentenza, purché la motivazione stessa non si limiti alla mera indicazione della fonte di riferimento: occorre che vengano riprodotti i contenuti mutuati, e che questi diventino oggetto di autonoma valutazione critica, in maniera da consentire poi anche la verifica della compatibilità logico-giuridica dell’innesto motivazionale. (Cass., SS.UU., 4.06.2008 n. 14814)”. Pertanto, “il rinvio per relationem al disposto di altra sentenza è perfettamente legittimo e giustificato da una economia di scritture, ma il Giudice rinviante non può limitarsi ad un generico richiamo, come nel caso di specie, ma deve citarne i contenuti o riportarne i passaggi fondamentali. Nel caso in cui come nella fattispecie, il rinvio venga effettuato con riferimento ad una sentenza di merito, relativa di un altro processo, (quindi non sempre facilmente reperibile a differenza delle sentenze della Cassazione), senza alcuna motivazione al riguardo, ad una sentenza di altra Commissione tributaria con la sola indicazione del numero della sentenza e dell’anno, ma senza la indicazione della sezione (in quanto la numerazione delle sentenze tributane di merito viene operata per ciascuna sezione e non per Commissione) deve ritenersi doppiamente illegittimo, posto che il ricorrente non può essere obbligato alla ricerca di documenti extraprocessuali”.

E, con la sentenza n. 22697 del 4 ottobre 2013 (ud. 24 aprile 2013) la Corte di Cassazione ha confermato che la sentenza deve contenere l’iter logico motivazionale. Per la Corte, “nella sentenza impugnata ricorre il difetto di motivazione, mostrando essa, nel suo insieme un’obiettiva deficienza del criterio logico che ha condotto il giudice d’appello alla formazione del proprio convincimento (Cass. n. 2109/99; 10396/98; 914/96). Nella sentenza impugnata l’esigenza di una congrua e corretta motivazione non è stata soddisfatta, sia per quanto attiene al richiamato e decisivo punto della controversia relativo all’attività d’intermediazione che la contribuente asseriva di svolgere, sia, più in generale, riguardo alla sussistenza dei presupposti dell’accertamento induttivo. La Commissione ha solo affermato, da un lato, che neanche in appello l’Ufficio aveva fornito prova dei propri assunti, limitandosi a far proprio quello dei verbalizzanti, senza provare quindi l’attività di vendita in proprio di auto (mentre agli atti risultava lo svolgimento di vendita di autoveicoli per conto terzi) che la sentenza di primo grado non era carente di motivazione, perchè si fondava sui giudicati favorevoli emessi da altre sezioni della C.T.P. e della C.T.R. e sulla mancanza di utili elementi da parte dell’Ufficio; nonchè che rimaneva assorbito l’esame delle altre questioni di merito”.Osserva la Corte che la sentenza della C.T.R. “non contiene un’autonoma esposizione dell’iter argomentativo attraverso il quale essa è pervenuta alla statuizione resa, e, in particolare, è da ritenere viziata … quando, in tema di accertamento dell’imponibile, anzichè ancorarsi ad una valutazione fondata su emergenze processuali acquisite ben indicate ed autonomamente apprezzate, si correli ad una generica, e non specificamente giustificata, adesione agli assunti prospettati da una delle parti (Cass. n. 27969/2009 emessa tra le stesse parti)”.

E da ultimo, con la sentenza n. 24434 del 30 ottobre 2013 (ud. 17 dicembre 2012) la Corte di Cassazione torna ad occuparsi della motivazione della sentenza. La Corte, preliminarmente, rileva che “la motivazione della sentenza si articola in una sequenza passaggi logici che possono scomporsi: 1 – nella ricognizione dei fatti rilevanti in ordine alla questione in diritto controversa; 2 – nella individuazione degli elementi probatori dimostrativi dei predetti fatti e nella selezione di quelli che si assumono decisivi ai fini del convincimento del Giudice; 3 – nella individuazione della ‘regula iuris‘ da applicare al rapporto controverso”. La carenza nell’impianto motivazionale della sentenza di uno dei passaggi logici sopra indicati “configura un vulnus al principio generale secondo cui tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati (art. 111 Cost., comma 6) che può spaziare, secondo la gravità, dal vizio logico (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) fino alla totale difformità della sentenza dal modello legale per assenza dell’indicato requisito essenziale (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 in relazione all’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 ed all’art. 118 disp. att. c.p.p., comma 1)”.Più in generale, osserva la Suprema corte, “deve ravvisarsi il vizio di carenza assoluta di motivazione tutte le volte in cui la sentenza non dia conto dei motivi in diritto sui quali è basata la decisione (cfr. Corte cass. 5 sez. 16.7.2009 n. 16581; id. 1 sez. 4.8.2010 n. 18108) e dunque non consenta la comprensione delle ragioni poste a suo fondamento, non evidenziando gli elementi di fatto considerati o presupposti nella decisione (cfr. Corte cass. 5 sez. 10.11.2010 n. 2845) ed impedendo ogni controllo sul percorso logico-argomentativo seguito per la formazione del convincimento del Giudice (cfr. Corte cass. 3 sez. 3.11.2008 n. 26426, con riferimento al ricorso ex art. 111 Cost.; id. sez. lav. 8.1.2009 n. 161)”.Tali principi, secondo la Corte, “non risultano derogati dalla sentenza motivata ‘per relationem‘, mediante rinvio alle ragioni di diritto rinvenibili nel corpo motivazionale di un distinto atto espressamente richiamato nella sentenza (rinvio che può essere operato, tanto con riferimento alla decisione di prime cure – nel caso di sentenza di appello -, quanto – più in generale – con riferimento al contenuto dell’atto impugnato con azione costituiva ovvero al contenuto degli atti processuali di parte – nella ipotesi in cui la sentenza aderisca alle tesi giuridiche in essi sviluppate -, o ancora mediante rinvio al contenuto del verbale istruttorio, della relazione tecnica depositata dall’ausiliario o di altri documenti prodotti in giudizio): anche in tale ipotesi, infatti, la sentenza deve esplicitare l’itinerario argomentativo, ricavabile dalla integrazione dei due corpi motivazionali, attraverso il quale sono state sottoposte ad esame critico le questioni già risolte nell’atto richiamato ed è stata ritenuta la idoneità delle stesse a fornire la soluzione anche alle questioni che devono essere decise (cfr. Corte cass. 2, sez. 4.3.2002 n. 3066; id. 1 sez. 14.2.2003 n. 2196; id. 3 sez. 2.2.2006 n. 2268), incorrendo, diversamente, la sentenza nell’indicato vizio di legittimità, come accade quando il giudice non precisi affatto le ragioni del proprio convincimento rinviando, genericamente ‘per relationem‘, al quadro probatorio acquisito, senza alcuna esplicitazione al riguardo, nè disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (cfr. Corte cass. sez. lav. 21.12.2010 n. 25866)”.Con specifico riferimento alla motivazione c.d. per relationem alla sentenza di prime cure (ipotesi che ricorre nel caso di specie), “questa Corte ha, infatti, statuito che ‘è legittima la motivaz

ione della sentenza di secondo grado “per relationem” a quella di primo grado, a condizione che fornisca, comunque, sia pure sinteticamente, una risposta alle censure formulate nell’atto di appello, attraverso un iter argomentativo desumibile dalla integrazione della parte motiva delle due sentenze di merito, in altri termini a condizione e il giudice di appello dimostri in modo adeguato di avere valutato criticamente sia la pronunzia censurata che le censure proposte’ (cfr. Corte cass. 2, sez. 28.1.2000 n. 985. Massima consolidata: Corte cass. SU 8.6.1998 n. 5712; id. 3 sez. 18.2.2000 n. 181; id. 1 sez. 27.2.2001 n. 2839; id. 5 sez. 12.3.2002 n. 3547; id. 5 sez. 3.2.2003 n. 1539)”. Pertanto, solo in tale caso, la motivazione per relationem – “richiamando i punti essenziali della motivazione della sentenza di primo grado e confutando le censure mosse contro di essi con il gravame, attraverso un itinerario argomentativo ricavabile dalla integrazione dei due corpi motivazionali – è in grado di assolvere, in quanto elemento costitutivo della sentenza, ai requisiti minimi di validità del provvedimento giurisdizionale (cfr. Corte cass. 2, sez. 4.3.2002 n. 3066; id. 1 sez. 14.2.2003 n. 2196; id. 3 sez. 2.2.2006 n. 2268)”.

18 aprile 2014

Francesco Buetto