I limiti di fallibilità e le variazioni delle rimanenze

le variazioni di rimanenze iscritte in bilancio rilevano nella nozione di ricavi che si utilizza per definire i limiti di fallibilità?

L’art. 1 del Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267, c.d. Legge fallimentare, individua le imprese soggette alle procedure concorsuali, in particolare al fallimento ed al concordato preventivo.

Il legislatore della riforma (D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5) si affida a due parametri:

  • soggettivo, si deve trattare di imprenditori che esercitano una attività commerciale (art. 1, c. 1, L.F.);

  • oggettivo, tali soggetti posseggono congiuntamente tre requisiti (art. 1, c. 2, L.F.):

  • aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo superiore ad euro trecentomila;

  • aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo superiore ad euro duecentomila;

  • avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila.

Ricordiamo che il comma 3 dell’articolo 1 affida al Ministero della Giustizia il compito di aggiornare, ogni tre anni, i limiti oggettivi con riferimento alla media delle variazioni degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati intervenute nel periodo considerato. Dal giorno della formulazione ad oggi, tali parametri non sono stati modificati.

 

L’art. 1 L.F. Definisce numericamente i limiti di fallibilità, ma permangono dubbi su quali voci del bilancio vadano computate per raggiungere tali limiti. Analizziamo il caso dubbio dei “ricavi lordi” e della variazione delle rimanenze iscritte in bilancio.

Cosa deve intendersi per ricavi lordi?

In particolare tale parametro richiesto ai fini della fallibilità a quali voci del bilancio CEE si riferisce? Ai soli componenti positivi indicati alla voce A.1 del Conto economico? Oppure a tutta la macro area A? Oppure anche i componenti di natura straordinaria e/o finanziaria?

E’ ovvio che a seconda dell’interpretazione data possono essere o meno fallibili diverse realtà imprenditoriali.

La relazione ministeriale al D.Lgs. n. 5/2006 non fornisce ulteriori informazioni sulla nozione di ricavi lordi, precisa soltanto che tali elementi possono essere accertati in qualunque modo e pertanto possono desumersi, oltre che dalle scritture contabili e dai registri fiscali, anche da accertamenti tributari non definitivi, ovvero da dati extracontabili (come, ad esempio, corrispettivi di contratti di vendita in considerazione della sommarietà dell’istruttoria prefallimentare). Inoltre il giudice può chiedere anche d’ufficio informazioni alla Guardia di Finanza, alla quale possono essere delegate indagini in sede di istruttoria prefallimentare per valutare se l’impresa ricade nei limiti di fallibilità.

Le tesi dottrinali e giurisprudenziali sono varie, vediamo una rassegna delle più recenti interpretazioni giurisprudenziali di merito.

Secondo il Tribunale di Novara (Sentenza del 3 novembre 2012) per ricavi lordi devono intendersi, sulla base dello schema di Conto economico indicato all’art. 2425 c.c.,i ricavi delle vendite e delle prestazioni (A.1), le variazioni delle rimanenze di prodotti in corso di lavorazione, semilavorati e finiti (A.2), le variazioni dei lavori in corso su ordinazione(A.3), gli altri ricavi e proventi, con separata indicazione dei contributi in conto esercizio (A.5), i proventi da partecipazioni (C.15), gli altri proventi finanziari (C.16) e le plusvalenze da alienazione di immobilizzazioni (E.20)”.

La Corte d’Appello Torino, con la pronuncia del 15 giugno 2010, ha chiarito che ai fini della valutazione della sussistenza del parametro di cui all’art. 1, lett. b, legge fallimentare (“ricavi lordi di ammontare complessivo, in qualsiasi modo risultanti”) assume rilievo ogni genere di ricavo di impresa, anche se non direttamente imponibile ai fini Iva, purchè riconducibile all’attività esercitata; depongono a favore di una tale interpretazione il citato dato letterale (“ricavi …, in qualsiasi modo risultanti”), nonché la ratio di esentare dal fallimento soltanto le imprese effettivamente contraddistinte, nell’ambito di una valutazione unitaria e globale di tutti i parametri produttivi e dimensionali, da una entità economica e patrimoniale di livello medio-basso. 

La Corte d’Appello di Brescia, nell’ambito di un ricorso proposto da un socio avverso la sentenza dichiarativa di fallimento emessa dal Giudice di primo grado, con sentenza n. 720 del 15 giugno 2011, ha considerato ricavi tutti i componenti compresi nella macro area di cui all’art. 2425 lett. A c.c., relativa al valore della produzione, che comprende, oltre ai ricavi per vendite e prestazioni, anche le variazioni delle rimanenze

 

L’intervento della Cassazione

Finalmente, la prima sezione civile della Corte di Cassazione, con la sentenza del 27 dicembre 2013 n. 28667, sembra aver risolto il caso precedentemente illustrato e deciso dalla Corte d’appello di Brescia, adottando un’interpretazione restrittiva della nozione di ricavi lordi, ritenendo che il legislatore intenda come ricavi i soli componenti positivi di reddito generati dalla attività di impresa. Nonostante non si tratti di un intervento a Sezioni Unite, tale sentenza pare mettere un punto fermo sul problema della variazione delle rimanenze che appaiono in bilancio e sul loro valore rispetto ai limiti di fallibilità.

Secondo la citata sentenza, le voci del conto economico, di cui all’art. 2425 c.c., da considerare ai fini dell’individuazione di tale limite oggettivo di fallibilità sono i ricavi delle vendite e delle prestazioni (A.1) e gli altri ricavi e proventi, con separata indicazione dei contributi in conto esercizio (A.5).

La prima voce attiene a quanto l’impresa realizza vendendo i suoi beni o prestando i suoi servizi, mentre nella seconda voce confluiscono quei componenti positivi di reddito generati dalla attività di impresa ed assimilabili a quelli classificati nella voce A.1 (i.e. i ricavi accessori, i dividendi, le royalties, i canoni attivi…).

La Suprema Corte ha ritenuto improprio considerare come veri e propri ricavi le variazioni delle rimanenze di prodotti in corso di lavorazione, semilavorati e finiti (voce A.2) e le variazioni dei lavori in corso su ordinazione (voce A.3) in quanto tali voci esprimono la sola variazione che tali rimanenze hanno subito al termine dell’esercizio rispetto ai valori ai quali si attestavano ad inizio periodo. Le variazioni in esame riguardano di costi comuni a più esercizi, che in applicazione del principio di competenza sancito all’art. 2423-bis c.c., vengono rinviati ai futuri esercizi, allorquando saranno realizzati i relativi ricavi monetari. In pratica, secondo l’interpretazione della Cassazione, tali ricavi sono assimilabili a “ricavi teorici” e di natura meramente contabile.

Restano fuori dal novero dei ricavi (ai fini dal calcolo dei limiti di fallibilità), sempre secondo quanto la Cassazione ha ritenuto dover illustrare nella citata sentenza, anche gli incrementi di immobilizzazioni per lavori interni (A.4), in quanto aventi natura, appunto, di ricavi “teorici”, come i citati incrementi delle rimanenze.

19 febbraio 2014

Anna Maria Pia Chionna e Luca Bianchi