Non vale la consulenza in sede penale contro le indagini finanziarie

la documentazione prodotta nel processo penale connesso all’accertamento per evasione fiscale non è automaticamente valida a sconfiggere le presunzioni su cui si basa l’accertamento fiscale

 

Con sentenza n. 10036 del 6 maggio 2011 (ud. del 16 novembre 2010) la Corte di Cassazione, nel confermare che, “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, in virtù della presunzione di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32 – che, data la fonte legale, non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 c.c., per le presunzioni semplici -, sia i prelevamenti che i versamenti operati su conti correnti bancari vanno imputati a ricavi conseguiti dal contribuente nella propria attività d’impresa, se questo non dimostra di averne tenuto conto nella determinazione della base imponibile oppure che sono estranei alla produzione del reddito”, ha ribadito che “nel caso in cui l’accertamento effettuato dall’ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, è onere del contribuente, a carico del quale si determina una inversione dell’onere della prova, dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non siano riferibili ad operazioni imponibili, mentre l’onere probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto, per legge, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti (ex multis, Cass. nn. 9103/2001, 4589/2009)”.

La ratio decidendi della sentenza di secondo grado – “secondo cui in sostanza le presunzioni pur legittime dell’ufficio non hanno trovato in sede penale un concreto riscontro di accrescimento di ricchezza in quanto nella consulenza disposta in sede penale si legge che in base agli elementi contabili evidenziati nel p.v.c. può ritenersi che l’entità dell’accertata evasione di circa lire 158 milioni non trova riscontro nell’accrescimento di ricchezza rilevabile dalle situazioni bancarie, né dall’esame delle posizioni bancarie emerge che la G. di F. abbia rilevato delle uscite per acquisti in nero o per acquisti a titolo personale tanto da far ritenere che i maggiori incassi – in evasione – siano stati utilizzati per alimentare spese personali – ad es. immobili auto et similia tali da costituire utilizzo delle somme presuntivamente incassate – o acquisti in nero – non è conforme ai principi sopra enunciati, tanto più ove si consideri la differente finalità del giudizio penale e l’eterogeneità del relativo regime della prova”.

 

Brevi riflessioni

Già di recente, con sentenza n. 767 del 14 gennaio 2011 (ud. del 29 settembre 2010) la Corte di Cassazione aveva affermato che si verifica un’inversione dell’onere della prova perchè in presenza di accertamenti bancari, è “onere del contribuente dimostrare che i proventi” desumibili dalla movimentazione bancaria non debbono essere “recuperati a tassazione” o perchè egli ne ha già “tenuto conto nelle dichiarazioni” o perchè (Cass. nn. 9573/2007, 1739/07, 28324/07) “non sono fiscalmente rilevanti” in quanto “non si riferiscono ad operazioni imponibili“. “Nei casi previsti” dalle norme richiamate, inoltre (Cass., trib., 20 giugno 2008 n. 16837), “l’onere dell’amministrazione di provare la sua pretesa è soddisfatto, per volontà di legge, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti bancari” per cui “resta … a carico del contribuente l’onere di provare il contrario, realizzandosi così la cennata ipotesi d’inversione (Cass. nn. 14018/2007, 2450/2007, 19920/2006, 3115/2006, 28342/2005)” in quanto (Cass., trib., 14 novembre 2003 n. 17243; id., trib., 16 aprile 2003 n. 6073; id., trib. 1 aprile 2003 n. 4987) “la presunzione di riferibilità dei movimenti bancari od operazioni imponibili si correla ad una valutazione del legislatore di rilevante probabilità (id quod plerumque accidit) che il contribuente si avvalga di tutti i conti di cui possa disporre per le rimesse ed i prelevamenti inerenti all’esercizio dell’attività“.

L’amministrazione finanziaria, quindi, non deve effettuare “nessun supplemento di istruttoria”, nè è tenuta ad “elaborare le risultanze contabili” dei conti bancari del contribuente nè, ancora, deve offrire (neanche al giudice, in sede di giudizio) “elementi ulteriori” di prova, quand’anche indiziari.

La sentenza che si annota segue l’ordinanza n. 22636 dell’8 novembre 2010 (ud. del 6 luglio 2010) con cui la Corte di Cassazione, nel confermare l’onere della prova a carico del contribuente, ha affermato che a tal fine non giova neppure la produzione di perizia disposta in sede penale, avuto riguardo alla differente finalità del giudizio penale e l’eterogeneità del relativo regime della prova. La Corte, infatti, ha ritenuto errata la ratio decidendi della sentenza impugnata – “secondo cui l’onere probatorio posto a carico del contribuente sarebbe stato da questo pienamente adempiuto con la produzione di copia della perizia disposta in sede penale, in quanto: da essa era emerso non esservi prova che gli importi rilevati dai movimenti sui conti bancari costituiscano maggiori corrispettivi aziendali rispetto a quelli registrati nel conto cassa; dall’esame della posizione bancaria emerge che la G.d.F. non ha rilevato delle uscite a titolo personale o dei pagamenti in nero tanto da far ritenere che i movimenti predetti (entrate e uscite) – che per la G.d.F. costituiscono maggiori corrispettivi in evasione – siano stati utilizzati per alimentare spese personali (ad es. immobili auto et similia tali da costituire utilizzo delle somme presuntivamente incassate) o acquisti in nero; utilizzando tutti gli elementi contabili evidenziati nel p.v.c. della G.d.F. può ritenersi che le entità delle evasioni accertate nei singoli anni … non trovano riscontro nell’accrescimento di ricchezza rilevabile dalle situazioni bancarie“, poiché “non è conforme ai principi sopra enunciati, tanto più ove si consideri la differente finalità del giudizio penale e l’eterogeneità del relativo regime della prova”.

La Corte di Cassazione si è da sempre quindi attestata sulla linea del cd. doppio binario: l’efficacia vincolante del giudicato penale non operaautomaticamente nel processo tributario, anche qualora i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso accertamenti nei confronti del contribuente.

Come rilevato dalla migliore dottrina (ANTICO, La perizia penale non vale, in www.https://www.commercialistatelematico.com) “non operando l’efficacia vincolante del giudicato penale nel processo tributario, il giudice tributario può procedere ad una motivata valutazione dei fatti diversa; cosa che ha fatto nel caso di specie, non ritenendo valida, ai fini tributari, la perizia utilizzata in sede penale. In pratica, la differente finalità del giudizio penale e l’eterogeneità del relativo regime di prova, hanno indotto la Corte a sbarrare il passo alla perizia utilizzata in sede penale”.

 

14 giugno 2011

Roberta De Marchi