La perizia penale non vale

in caso di accertamento basato sui movimenti di conto corrente bancario non basta al contribuente produrre una perizia che giustifca globalmente l’utilizzo del conto, ma deve giustificare ogni singolo movimento

Con ordinanza n. 22636 dell’8 novembre 2010 (ud. del 6 luglio 2010) la Corte di Cassazione, nel confermare che spetta al contribuente dimostrare l’estraneità alla materia imponibile delle operazioni effettuate sui conti correnti al fine di superare la presunzione legale prevista dall’ordinamento tributario, ha affermato che a tal fine non giova neppure la produzione di perizia disposta in sede penale, avuto riguardo alla differente finalità del giudizio penale e l’eterogeneità del relativo regime della prova.

LA SENTENZA

Gli aspetti essenziali della sentenza in esame, che investe la problematica delle indagini finanziarie, sono sostanzialmente due:

  • onere della prova;

  • il valore della perizia disposta in sede penale.

Onere della prova

In ordine all’onere della prova, la Corte riconferma i principi più volti espressi in precedenza, secondo cui la presunzione stabilita in materia di Iva dall’art. 51, c. 2, n.2, del D.P.R. n. 633/72, in forza della quale i singoli dati ed elementi risultanti dai conti bancari sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dal successivo art. 54, se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili, “ha un contenuto complesso, consentendo di riferire i movimenti bancari all’attività svolta in regime IVA, eventualmente dalla persona fisica, e di qualificare gli accrediti come ricavi e gli addebiti come corrispettivi degli acquisti; essa può essere vinta dal contribuente che offra la prova liberatoria che dei movimenti egli ha tenuto conto nelle dichiarazioni, o che questi non si riferiscono ad operazioni imponibili: la prova che il contribuente è tenuto a dare della non riferibilità ad operazioni imponibili deve essere specifica e riguardare analiticamente i singoli movimenti bancari, tale cioè da dimostrare che ciascuna delle operazioni effettuate è estranea a fatti imponibili (Cass. nn. 28324/2005, 1739/2007, 9146/2010)”.

Il valore della perizia disposta in sede penale

Nel merito, la Corte ha ritenuto errata la ratio decidendi della sentenza impugnata – “secondo cui l’onere probatorio posto a carico del contribuente sarebbe stato da questo pienamente adempiuto con la produzione di copia della perizia disposta in sede penale, in quanto: da essa era emerso non esservi prova che gli importi rilevati dai movimenti sui conti bancari costituiscano maggiori corrispettivi aziendali rispetto a quelli registrati nel conto cassa; dall’esame della posizione bancaria emerge che la G.d.F. non ha rilevato delle uscite a titolo personale o dei pagamenti in nero tanto da far ritenere che i movimenti predetti (entrate e uscite) – che per la G.d.F. costituiscono maggiori corrispettivi in evasione – siano stati utilizzati per alimentare spese personali (ad es. immobili auto et similia tali da costituire utilizzo delle somme presuntivamente incassate) o acquisti in nero; utilizzando tutti gli elementi contabili evidenziati nel p.v.c. della G.d.F. può ritenersi che le entità delle evasioni accertate nei singoli anni … non trovano riscontro nell’accrescimento di ricchezza rilevabile dalle situazioni bancarie“ poiché “non è conforme ai principi sopra enunciati, tanto più ove si consideri la differente finalità del giudizio penale e l’eterogeneità del relativo regime della prova”.

Le nostre riflessioni

Come abbiamo già avuto modo di vedere occupandoci di indagini finanziarie, la normativa opera in modo automatico, non richiedendo ulteriori elementi di riscontro per conferire validità al controllo, consentendo comunque al contribuente – anche attraverso il contraddittorio – di dimostrare l’irrilevanza fiscale delle movimentazioni riscontrate.

Tale forma di indagine trae alimento dalla presenza di presunzioni iuris tantum, e dunque dall’inversione dell’onere della prova, posto a carico dei soggetti sottoposti a controllo.

Acquisita la copia dei “conti” relativi ai singoli rapporti od operazioni di natura finanziaria, intrattenuti dal contribuente, l’organo di controllo procederà all’esame, al fine di riscontrare direttamente se le movimentazioni – attive (accreditamenti) e passive (prelevamenti) – ivi evidenziate siano o meno coerenti con la contabilità del soggetto sottoposto a controllo, ovvero non siano imponibili o non rilevino per la determinazione del reddito e/o della base imponibile Iva, come anche, con riguardo alle persone fisiche, non risultino compatibili con la loro complessiva capacità contributiva.

Pur essendo in presenza di presunzioni relative, la forza della norma è tale che esse si atteggiano quasi a presunzioni assolute, poiché richiedono delle prove forti per dimostrare i fatti impeditivi od ostativi al verificarsi del presupposto d’imposta, posto che gli stessi giudici tributari trovano nella perentorietà delle norme un limite alla propria discrezionalità.

Gli elementi risultanti dal conto sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza per lo stesso fine: pertanto, i prelevamenti, oltre che i versamenti, si considerano ricavi tassabili ai fini delle imposte sul reddito, qualora non sia indicato il beneficiario o non si abbia riscontro nelle scritture contabili tenute dal contribuente.

Il pronunciamento della Cassazione qui sotto osservazione assume una decisa importanza, sotto diversi aspetti.

Nel confermare l’onere della prova a carico del contribuente ha altresì ribadito che detta prova non può essere generica. Già, con sentenza n. 13819 del 3 maggio 2007 (dep. il 13 giugno 2007), la Corte di Cassazione aveva affermato che la prova liberatoria che consenta di superare la presunzione, non poteva essere meramente generica e, cioè, relativa all’attività esercitata, ma doveva essere, altresì, specifica in relazione ad ogni singola operazione. Perciò, è necessario che il contribuente fornisca la prova analitica della riferibilità di ogni movimentazione bancaria. Diversamente la rispettiva movimentazione, in assenza di altra idonea giustificazione, è configurabile quale corrispettivo non dichiarato.

Oggi la Cassazione, quindi, non fa altro che specificare quanto detto dalla norma: la prova non può essere generica ma specifica, operazione per operazione.

Così come la contestazione dei singoli addebiti non può avvenire per “masse” o addirittura sulla base di un mero “saldo contabile“, le giustificazioni del contribuente devono riferirsi ai singoli movimenti.

Ma la sentenza in esame va valutata per avere, di fatto, ritenuta priva di valore la perizia disposta in sede penale.

Ora, come è noto, la Corte di Cassazione è conforme sulla linea del cd. doppio binario: l’efficacia vincolante del giudicato penale non opera automaticamente nel processo tributario (cfr., da ultimo, ordinanza n. 21049 del 12 ottobre 2010, ud. dell’8 luglio 2010), anche qualora i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso accertamenti nei confronti del contribuente. Infatti, il giudice tributario è tenuto comunque ad accertare la fondatezza della pretesa fiscale nell’esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti.

La diversità del processo tributario da quello penale viene salvata sulla base dei limiti alla prova presenti nel processo tributario (non essendo ammessa quella per testimoni ed il giuramento ex art.- 7, c. 4, del D.Lgs. n. 546/1992), uniti all’utilizzo, con rilievo probatorio, anche di presunzioni semplici, prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, il cui simultaneo ricorrere è invece necessario nel processo penale.

Non operando l’efficacia vincolante del giudicato penale nel processo tributario, il giudice tributario può procedere ad una motivata valutazione dei fatti diversa; cosa che ha fatto nel caso di specie, non ritenendo valida, ai fini tributari, la perizia utilizzata in sede penale.

In pratica, la differente finalità del giudizio penale e l’eterogeneità del relativo regime di prova, hanno indotto la Corte a sbarrare il passo alla perizia utilizzata in sede penale.

Una perizia complessa ma generica (non movimento per movimento) è stata ritenuta quindi non conforme ai principi più volte affermati della necessaria prova operazione per operazione.

9 dicembre 2010

Gianfranco Antico