Ai consulenti del lavoro spetta il compenso per le attività non riservate ai commercialisti

una sentenza della Cassazione di giugno 2010 afferma il diritto del consulente del lavoro a svolgere attività non espressamente riservate ai commercialisti

La sentenza dell’11 giugno liberalizza le attività non riservate a soggetti iscritti ad albi professionali o provvisti di specifica abilitazione. Possono, infatti, essere legittimamente svolte da chiunque, perché in questo campo vige il principio generale della libertà di lavoro autonomo e della libertà d’impresa.

Si erge una specie di “spartiacque”: da un lato si pongono le attività ad esclusivo appannaggio di soggetti iscritti ad albi o provvisti di specifica abilitazione, dall’altro tutte le altre attività di professione intellettuale, di assistenza o consulenza, che possono essere espletate liberamente producendo il diritto ad un compenso.

 

La pronuncia prende spunto da una controversia sulla possibilità di un consulente del lavoro a svolgere attività non espressamente riservate ai commercialisti, in base alle quali i consulenti del lavoro hanno diritto al compenso per prestazioni professionali relative ad elaborazioni della contabilità, consulenza fiscale, dichiarazioni dei redditi, richiesta di certificati presso la camera di commercio. In dettaglio, l’origine del giudizio è l’opposizione ad un decreto ingiuntivo con il quale si chiedeva il pagamento di un compenso per prestazioni esulanti da quelle proprie del consulente del lavoro, che rientravano nelle attività previste dall’art. 1 del DPR 27 ottobre 1953, n. 1067, ascritte alla competenza dei commercialisti regolarmente iscritti nel relativo albo professionale. Si ricorda, per maggior chiarezza dell’argomentazione, che invece le prestazioni dei consulenti del lavoro sono regolamentate dall’art. 2 della legge professionale n. 12 dell’11 gennaio 1979 comprendente “tutti gli adempimenti previsti da norme vigenti per l’amministrazione del personale dipendente”, nonché lo svolgimento di ogni altra funzione ad essa “affine, connessa e conseguente”.

 

La sentenza rappresenta un quadro di unione di due sentenze della Corte Costituzionale: la n. 345/1995 sulla prevalenza delle esigenze di concorrenza parziale e interdisciplinarità e sulla tutela corporativa degli ordini professionali; la n. 418/1996 sul principio generale di libertà di lavoro autonomo o di libertà d’impresa e di servizi; proprio quest’ultima ha ritenuto che la giurisprudenza prevalente, coerentemente al quadro normativo di riferimento delineato, ha maturato l’indirizzo di considerare l’attività di consulenza aziendale come non riservata agli iscritti nell’albo dei dottori commercialisti o nell’albo dei ragionieri e periti commerciali, potendo essere svolta anche da altri soggetti non iscritti in albo. Già in passato la Corte di Cassazione si era espressa a favore di consulenti del lavoro. Con la sentenza della Corte di Cassazione n. 15530 del 12 giugno 2008 si affermava che “nelle materie commerciali, economiche e finanziarie e di ragioneria, le prestazioni di assistenza o consulenza aziendale non sono riservate per legge in via esclusiva ai dottori commercialisti, ai ragionieri e ai periti commerciali, non rientrando fra le attività che possono essere svolte esclusivamente da soggetti iscritti ad apposito albo professionale o provvisti di specifica abilitazione”. In contrapposizione la sentenza n. 21495 del 12 ottobre 2007, con la quale la Suprema Corte asseriva che l’esecuzione di una prestazione d’opera professionale di natura intellettuale, effettuata da chi non sia iscritto nello specifico albo previsto dalla legge, dà luogo, ai sensi degli articoli 1418 e 2231 del codice civile, alla nullità assoluta del rapporto tra professionista e cliente, privando il contratto di qualsiasi effetto.

 

La dottrina rileva che il consulente del lavoro, oltre alle attività di sua specifica ed esclusiva competenza può svolgere attività di natura tributaria e contabile.

 

L’attività tributaria cosiddetta marginale o minima, del resto, quale ad esempio la tenuta dei registri contabili per conto di un’impresa commerciale e la predisposizione della denuncia dei redditi non costituisce esercizio abusivo delle attività professionali del dottore commercialista e di ragioniere.

 

La Suprema Corte ha precisato che ai fini dell’applicazione dell’art. 348 c.p., è necessario che una norma riservi espressamente agli iscritti a determinati albi, specifiche attività professionali; e non è sufficiente a costruire una competenza esclusiva a favore dei dottori commercialisti la circostanza che determinate attività sono indicate come loro proprie dall’art. 1 del DPR 27.10.1953, n. 1067.

 

Angelo Facchini

28 luglio 2010