Processo tributario e notificazione alla luce delle più importanti decisioni giurisprudenziali

secondo la Cassazione il processo tributario non rientra tra i processi d’impugnazione-annullamento, bensì tra quelli d’impugnazione-merito, in quanto non diretto alla mera eliminazione giuridica dell’atto impugnato, ma preordinato alla pronunzia di una decisione di merito…

Con la sentenza n. 22453 del 5/9/2008, la Cassazione, ha riaffermato che il processo tributario non rientra tra i processi d’impugnazione-annullamento, bensì tra quelli d’impugnazione-merito, in quanto non diretto alla mera eliminazione giuridica dell’atto impugnato, ma preordinato alla pronunzia di una decisione di merito; continuando, l’Amministrazione finanziaria è legittimata alla ricostruzione induttiva del volume d’affari del contribuente sulla base del criterio della media aritmetica dei prezzi ordinariamente praticati nel settore economico di riferimento quando la contabilità presenti gravi irregolarità che ne pregiudichino l’attendibilità.

 

Quindi i giudici che considerano invalido un avviso di accertamento per motivi sostanziali sono obbligati a esaminare nel merito la pretesa del Fisco e a quantificarla

 

In particolare, la vicenda oggetto della decisione sopra riportata, trae spunto dall’impugnazione innanzi alla Ctp, di un avviso di rettifica Iva, con cui l’ufficio, sulla base del criterio della media dei prezzi praticati nel settore in cui lo stesso operava, aveva accertato un maggior volume d’affari ai fini Iva.

 

Dopo la sentenza di secondo grado favorevole al contribuente, l’Amministrazione finanziaria proponeva ricorso in Cassazione, lamentando:

 

·                    sia la considerazione, operata dalla Ctr, sulla inutilizzabilità, ai fini della quantificazione del volume d’affari, in presenza di una contabilità irregolare, del criterio della media dei prezzi praticati nel settore di riferimento;

·                    sia il fatto che il giudice regionale, annullando l’atto di rettifica, aveva omesso di indicare e utilizzare un diverso metodo di calcolo ritenuto corretto, rispetto alla media utilizzata dall’ufficio.

 

La Suprema accogliendo il ricorso dell’Amministrazione, ha sostenuto che:

 

·                    accertata l’irregolare tenuta delle scritture e in difetto di altri elementi, il valore delle cessioni si ricava dalla media dei prezzi praticati dal contribuente o del settore economico di riferimento ed, in particolare non integra una violazione di legge il ricorso alle percentuali medie di ricarico, in quanto nessuna norma di legge prescrive il criterio di calcolo da adottare così come sostenuto, dapprima dalla Cassazione, sentenza 14576/2001;

·                    ritenuta inutilizzabile la media come calcolata dall’ufficio, la Ctr ha omesso di indicare un diverso criterio di calcolo ritenuto corretto, con conseguente omessa motivazione della sentenza.

 

La sentenza, risultante in linea con il consolidato orientamento giurisprudenziale, offre lo spunto per alcune considerazioni, come:

 

1.                 sia con riguardo ai presupposti necessari ai fini della legittimità degli accertamenti induttivi, in materia di Iva (articoli 54 e 55 del Dpr 633/1972) e di imposte sui redditi (articolo 39, comma 2, del Dpr 600/1973), in presenza di gravi irregolarità contabili;

2.                 sia in relazione alla natura del processo tributario.

 

Sub 1), si consideri il combinato disposto degli articoli 39, DPR 600/1973, e 54 e 55, DPR 633/1972, dai quali discende che il criterio discretivo assunto dal legislatore con riguardo alla tipologia di accertamento che l’ufficio finanziario può concretamente adottare, è costituito dalla maggiore gravità delle irregolarità formali e dell’inattendibilità sostanziale delle scritture contabili.

Circostanze queste che consentono all’Amministrazione di ricorrere all’accertamento induttivo dove è possibile utilizzare prove indirette (mentre nel metodo analitico è ammesso unicamente l’utilizzo di prove certe e dirette).

 

La giurisprudenza di legittimità ha evidenziato, a tal proposito, diverse ipotesi in cui le gravi irregolarità contabili legittimano il ricorso dell’Amministrazione all’accertamento induttivo, come:

·                    la mancata conservazione delle bolle di accompagnamento;

·                    la falsificazione delle medesime (posta in essere al fine di occultare l’omessa fatturazione di acquisto di merci);

·                    la mancanza di pagine del registro inventari;

·                    l’omessa o incompleta redazione dell’inventario e delle rimanenze di magazzino, come affermato dalla Cassazione, sentenze 11680/2001, 14576/2001, 8273/2003, 16724/2005.

 

L’Amministrazione finanziaria può prescinderne e procedere in via induttiva, avvalendosi anche di semplici indizi sforniti dei requisiti necessari per costituire prova presuntiva anche nelle ipotesi sopra menzionate che sottendono un’inattendibilità delle scritture contabili, oltre all’inesistenza delle scritture stesse (emblematiche a tal proposito le sentenze Cassazione, sentenze 1022/1989, 11510/1993, 9097/2002, 12279/2007).

 

In tali casi, quindi, l’ufficio è legittimato alla ricostruzione induttiva del volume d’affari del contribuente anche ricorrendo al criterio della media aritmetica dei prezzi ordinariamente praticati nel settore economico di riferimento del contribuente, nonostante le medie di settore non rappresentino un fatto noto storicamente provato, “dal quale argomentare con giudizio critico quello ignoto, ma costituiscano il risultato di una estrapolazione statistica di una pluralità di dati che fissa una regola di esperienza, in base alla quale poter ritenere, statisticamente, meno frequenti i casi che si allontanano dai valori medi, rispetto a quelli che si avvicinano” (Cassazione, sentenze 2005/26388, 1628/1995).

Ai sensi della sentenza della Cassazione nr. 14576/2001, in presenza di gravi irregolarità, si esclude che il ricorso alla media dei prezzi praticati nel settore di riferimento o alle percentuali medie di ricarico, o l’applicazione di un metodo in luogo di un altro, ai fini della determinazione reddituale, costituisca una violazione di legge, atteso che nessuna disposizione normativa prescrive il criterio di calcolo che debba essere adottato.

Sub 2), si analizzano la natura del processo tributario e i poteri-doveri del giudice in presenza di un’impugnativa avverso un atto impositivo.

 

Si ritiene che il giudice, chiamato a pronunciarsi sui ricorsi proposti avverso gli atti impostivi, non deve limitarsi a dichiarare legittimi o ad annullare questi ultimi, ma deve emettere pronunce di merito, attributive del torto o della ragione, in funzione della corretta verifica operata circa il modo di essere del rapporto obbligatorio in contestazione.

Tale conclusione deriva dalla circostanza che il processo tributario, come più volte evidenziato dai giudici di legittimità (sentenze 7404/2001, 4280/2001, 16171/2000), nonostante sia strutturato come giudizio di impugnazione, non è annoverabile tra quelli di “impugnazione-annullamento” ma tra i processi di “impugnazione-merito”.

 

Infatti, attraverso lo strumento processuale dell’impugnazione dell’atto si conferisce all’organo giudicante non solo la cognizione orientata all’eliminazione dell’atto, ma anche la cognizione del rapporto tributario, per cui il giudice adito ha il potere-dovere di quantificare la pretesa tributaria entro i limiti posti dalle domande di parte, pena la carente e/o insufficiente motivazione della sentenza.

In particolare, il giudice deve fermarsi alla pronunzia di annullamento, senza esaminare il merito, solo nel caso di difetto assoluto di motivazione, anche in mancanza di una espressa comminatoria legale di nullità, considerato che la pronuncia di annullamento richiede che si versi in tema di vizi formali dell’atto impositivo o di atti prodromici su cui esso si fonda (Cassazione, sezioni unite, sentenze 5783/1988, 11273/1991, 7791/2001, 11217/2007).

 

Quindi il giudice che considera invalido un avviso di accertamento per motivi non formali ma sostanziale, non può limitarsi a una pronuncia costitutiva di annullamento dell’atto impositivo, come purtroppo spesso accade, ma deve esaminare nel merito la pretesa tributaria e, così come affermato dalla Cassazione con le sentenze 21184/2008 e 11217/2007 “operando una motivata valutazione sostitutiva, eventualmente ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte”.

 

1.           In particolare: Sentenza Cassazione SSUU 4.3.2008 n. 5791

 

Si afferma che l’art. 19 del D. Lgs. n. 546/92 deve essere interpretato nel senso che la possibilità per il contribuente di impugnare l’atto presupposto non notificato, unitamente all’atto successivo notificato, non costituisce un obbligo, ma, in coerenza col principio della domanda, una facoltà rimessa alla sua discrezionalità.

Nella sequenza ordinata sulla quale si fonda la correttezza del procedimento tributario, l’omissione della notificazione di un atto presupposto costituisce vizio procedurale che comporta la nullità dell’atto consequenziale notificato e tale nullità può essere fatta valere dal contribuente mediante la scelta o di impugnare, per tale semplice vizio, l’atto consequenziale notificatogli, rimanendo esposto all’eventuale successiva azione dell’amministrazione, esercitabile soltanto se siano ancora aperti i termini per l’emanazione e la notificazione dell’atto presupposto, o di impugnare cumulativamente anche quest’ultimo (non notificato) per contestare radicalmente la pretesa tributaria.

 

Ciò porta alla conseguenza che spetta al giudice di merito, la cui valutazione se congruamente motivata non sarà censurabile in sede di legittimità, interpretare la domanda proposta dal contribuente al fine di verificare se egli abbia inteso far valere la nullità dell’atto consequenziale in base all’una o all’altra opzione.

 

L’art. 19 del D. Lgs. n. 546/92 deve essere interpretato nel senso che la possibilità per il contribuente di impugnare l’atto presupposto non notificato, unitamente all’atto successivo notificato, non costituisce un obbligo, ma, in coerenza col principio della domanda, una facoltà rimessa alla sua discrezionalità.

Nel caso in cui oggetto della domanda sia soltanto la declaratoria di nullità dell’atto notificato, a ragione della insussistente notifica dell’atto presupposto, il giudice tributario deve limitarsi ad annullare il primo atto, con la conseguenza che la pretesa fiscale rimane travolta da tale pronuncia.

 

2.          In particolare: Sentenza Cassazione SSUU 4.3.2008 n. 5791

 

La correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria è assicurata dal rispetto di una sequenza ordinata secondo una progressione di determinati atti, con le relative notificazioni, destinati, con diversa e specifica funzione, a farla emergere e a portarla nella sfera di conoscenza dei destinatari, allo scopo, soprattutto, di rendere possibile per questi ultimi un efficace esercizio del diritto di difesa.

 

Quindi l’omissione della notificazione di un atto presupposto costituisce vizio procedurale che comporta la nullità dell’atto consequenziale notificato e tale nullità può essere fatta valere dal contribuente mediante la scelta di impugnare, per tale semplice vizio, l’atto consequenziale notificatogli.

 

3.          Importante: Sentenza Cassazione 15.5.2008 n. 12185

 

La pronuncia appare importantissima perché si pone in contrasto con altre pronunce della Suprema Corte in tema di decorrenza dei termini per la costituzione in giudizio allorché la notifica venga effettuata a mezzo del servizio postale.

In vero:

 

·                    in tema di costituzione nel giudizio tributario, il termine di trenta giorni previsto, a pena di inammissibilità, per il deposito del ricorso nella segreteria della commissione tributaria decorre, in caso di notifica effettuata a mezzo del servizio postale, non già dalla data di spedizione, ma da quella di avvenuto ricevimento da parte del destinatario;

 

·                    in caso di notifica del ricorso a mezzo posta o a mezzo consegna all’ufficio finanziario, non è configurabile l’inammissibilità dell’impugnazione nel caso di mancanza, nella copia notificata dell’atto, della sottoscrizione dell’autore, dovendo essa essere ritenuta presente “per relationem”, attraverso il rinvio implicito all’originale depositato presso la segreteria della commissione, e ben potendo eventuali contestazioni essere risolte dal Giudice tributario mediante l’ordine di esibizione dell’originale del ricorso, ai sensi dell’art. 22, comma 5.

 

Nel merito, i Giudici d’appello affermavano:

 

·                    che dagli atti risultava che la società contribuente aveva omesso la fatturazione di operazioni di acquisto;

·                    che le fatture, emesse sia da fornitori nazionali che esteri, indicavano altre società nazionali, e non la contribuente, la quale perciò aveva detratto costi indetraibili;

·                    che la contribuente risultava inoltre aver emesso fatture nei confronti di se stessa, così dichiarando due volte i costi;

·                    che da un controllo incrociato era emerso che la società, possedendo tutte le caratteristiche della c.d. “C.”, si era interposta fittiziamente tra i cedenti comunitari e la società contribuente, effettivo cessionario nazionale, al fine di porre in essere un meccanismo di evasione sugli scambi comunitari.

 

I Giudici d’appello rilevavano che la contribuente in primo grado e in appello non aveva mai contraddetto le risultanze del p.v.c, del quale era a conoscenza poiché consegnatole dall’Ufficio e che legittimamente il suddetto p.v.c. era stato prodotto in appello ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58 restando ininfluente che non fosse stato prodotto in primo grado, potendo la commissione acquisirlo cit. D.Lgs., ex art. 7; gli stessi giudici, aggiungevano che l’appello dell’Ufficio doveva ritenersi tempestivo con riguardo al termine lungo per impugnare, senza che potesse influire in senso contrario il provvedimento di sgravio emesso dal medesimo Ufficio.

 

Motivi della decisione:

 

1.           con il primo motivo, deducendo omessa pronunzia ex art. 112 c.p.c., e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, la ricorrente rileva che i Giudici di appello avrebbero omesso di pronunciarsi in ordine alla dedotta intempestività della proposizione dell’appello e della costituzione dell’appellante;

2.           con il secondo motivo, deducendo omessa e insufficiente motivazione, la ricorrente rileva che i Giudici d’appello avrebbero omesso di motivare adeguatamente in ordine alle eccezioni concernenti all’intempestività della costituzione dell’appellante, nonché l’intempestività e irritualità della proposizione del gravame e della relativa notifica.

In particolare, i Giudici d’appello non avrebbero motivato:

·      sulla circostanza che la costituzione dell’appellante era avvenuta oltre il termine previsto dal Dlgs. n. 546 del 1992, art. 22;

·      sulla circostanza che nella specie non era applicabile il termine lungo bensì il termine breve per impugnare, essendo stata la sentenza di primo grado notificata all’Ufficio il 23 maggio 2001;

·      sulla circostanza della dedotta acquiescenza prestata dall’Ufficio alla sentenza di primo grado, in relazione al disposto provvedimento di sgravio.

 

3.           con il terzo motivo, deducendo violazione del DLgs. n. 546 del 1992, artt. 21 e 51, la ricorrente censura la sentenza impugnata per aver ritenuto la tempestività dell’impugnazione nonostante la notificazione della sentenza impugnata fosse intervenuta, unitamente all’istanza di sgravio, solo successivamente, e quindi decorresse da tale momento il termine breve per impugnare;

4.           con il quarto motivo, deducendo violazione del DLgs. n. 546 del 1992, artt. 21 e 53, la ricorrente rileva che, dovendosi la notifica dell’atto d’appello ritenere intervenuta il giorno della spedizione, nella specie non risultava rispettato il termine per il deposito del ricorso notificato presso la segreteria della commissione;

5.           con il quinto motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del DLgs. n. 546 del 1992, artt. 16, 17, 31, nonché artt. 136, 137 e 149 c.p.c., la ricorrente rileva che:

·      l’atto d’appello non era stato notificato presso la sede della società contribuente, bensì al difensore, presso il quale non era stata effettuata elezione di domicilio;

·      che la copia dell’atto d’appello notificata al patrocinatore recava l’autorizzazione ma non la dichiarazione di conformità né la sottoscrizione autografa dell’estensore dell’atto;

·      che la segreteria della C.T.R. non aveva effettuato alla contribuente la comunicazione dell’avviso di trattazione per l’udienza del 29.9.92 udienza alla quale nessuno aveva partecipato in sua difesa.

 

6.           con il sesto motivo, deducendo violazione dell’art. 329 c.p.c., la ricorrente rileva che i Giudici d’appello avrebbero dovuto dichiarare l’inammissibilità dell’impugnazione dell’Ufficio per avere quest’ultimo disposto lo sgravio, espressamente motivandolo con l’adempimento della decisione di primo grado e senza alcuna riserva di gravame;

7.           con il settimo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del DLgs. n. 546 del 1992, art. 58, la ricorrente rileva che la norma citata consente la produzione di documenti “nuovi”, non di documenti che, come il p.v.c., potevano essere prodotti già in primo grado, perché diversamente opinando si violerebbe il principio del doppio grado di giudizio, impedendo alla parte di spiegare le sue difese;

8.           con l’ottavo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 56, e D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 51 e 52, e L. n. 212 del 2000, art. 6, comma 1, nonché L. n. 241 del 1990, art. 3, la ricorrente affermava che i Giudici d’appello avrebbero dovuto confermare la sentenza di primo grado, che aveva ritenuto il difetto di motivazione dell’atto impositivo, in quanto contenente un rinvio per relationem al p.v.c. della Guardia di Finanza.

Inoltre, secondo la ricorrente, le segnalazioni della Guardia di Finanza non costituiscono prova dei fatti presunti in riferimento, avendo nella specie la G.diF.. recepito quanto emerso da informazioni di fonte imprecisata, senza indicare il luogo di reperimento dell’incartamento consultato, senza formulare alcun rilievo critico e in definitiva senza fornire elementi probatori certi e inconfutabili della pretesa dell’Ufficio.

Aggiunge la contribuente che l’Ufficio non avrebbe dimostrato l’effettiva conoscenza del verbale da parte della contribuente, posto che la motivazione per relationem veniva riferita anche ad altri accertamenti nei confronti di terzi, perciò non conoscibili dalla contribuente.

 

9.           con il nono motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 51 e 54, e art. 2729 c.c., la ricorrente rileva che i Giudici d’appello avrebbero dovuto confermare la sentenza di primo grado, posto che le asserite presunzioni poste dall’Ufficio a fondamento della pretesa fiscale, a sua volta tratte dal p.v.c. mai prodotto, non rivestono le caratteristiche di gravità, precisione e concordanza richieste dal citato art. 54, né risulta affermata dall’Officio o dai Giudici d’appello l’inattendibilità della contabilità della contribuente, la quale, come risultante dal p.v.c, aveva documentato ogni voce della propria dichiarazione IVA.

Secondo la ricorrente, i giudici d’appello avrebbero ammesso presunzioni derivanti da altre presunzioni, con particolare riferimento a quanto emerso dal c.d. controllo incrociato, senza contare che le c.d. “caratteristiche della cartiera” non sarebbero opponibili alla contribuente, non essendo state estese ad essa le relative contestazioni.

 

10.      con il decimo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 2967 c.c., la ricorrente rileva che i Giudici d’appello non avevano considerato che gravava sull’amministrazione l’onere di provare la propria pretesa e che nella specie essa non lo aveva assolto, non avendo neppure prodotto in giudizio il p.v.c. al quale si riferiva per relationem l’avviso opposto.

Aggiunge la ricorrente che in ogni caso il p.v.c. non costituisce prova dei presunti fatti in riferimento, che le presunzioni in esso contenute mancherebbero dei requisiti di gravità, precisione e concordanza e infine che non sarebbero stati forniti elementi probatori certi e inconfutabili idonei a suffragare la pretesa fiscale;

 

11.      con l’undicesimo motivo, deducendo “correttezza della sentenza impugnata”, la ricorrente rileva che correttamente la sentenza di primo grado aveva motivato l’accoglimento del ricorso col mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte dell’Ufficio, laddove la C.T.R., in maniera illogica ed irrituale, avrebbe fatto propri i valori accertati e rettificati dall’Ufficio senza espressamente motivare in ordine all’avvenuto assolvimento da parte del medesimo dell’onere probatorio relativo alla sussistenza degli elementi atti a giustificare il quantum accertato.

 

Le esposte censure sono in parte infondate e in parte inammissibili.

 

In particolare, con riguardo ai motivi primo, secondo, terzo, quarto e sesto, giova rilevare, prescindendo da ogni altra considerazione, che la pronuncia nel merito dell’appello presuppone la ritenuta ammissibilità dello stesso e che quando, come nella specie, viene denunciato un difetto di motivazione comportante la soluzione di una questione di diritto, il Giudice di legittimità, investito, a norma dell’art. 384 c.p.c., del potere di integrare e correggere la motivazione della sentenza impugnata è chiamato a valutare se la soluzione adottata dal Giudice del merito sia oggettivamente conforme alla legge, piuttosto che a sindacarne la motivazione, con la conseguenza che l’eventuale mancanza o erroneità di questa deve ritenersi del tutto irrilevante, quando il Giudice del merito sia, comunque, pervenuto ad una esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame (si noti tra le altre Cass. n. 15764 del 2004 e n. 12753 del 1999).

 

Tanto premesso, è da rilevare che nella specie l’appello deve ritenersi tempestivo in quanto rispettoso del termine lungo per impugnare, non essendo applicabile il termine breve in assenza di valida notifica della sentenza impugnata.

 

Giova in proposito evidenziare che dalla lettura degli atti, consentita a questo Giudice in relazione alla deduzione di error in procedendo, risulta infatti soltanto che la contribuente allegò all’istanza di sgravio il dispositivo della sentenza di primo grado, ma non risulta affatto che tale sentenza fu notificata integralmente e a mezzo di ufficiale giudiziario, come invece richiesto dalla univoca giurisprudenza di questo Giudice di legittimità, secondo la quale “nell’attuale disciplina del processo tributario, ai fini della decorrenza del termine breve per impugnare la sentenza della commissione tributaria, di cui al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 51, comma 1, occorre procedere secondo lo schema prefigurato dal medesimo decreto, art. 38, comma 2, ossia è necessaria la notificazione della sentenza ad istanza di parte a norma dell’art. 137 c.p.c., e ss., vale a dire eseguita dall’ufficiale giudiziario, dovendosi evidenziare che la formulazione dell’art. 38 comma 2, consente di escludere immediatamente la possibilità di ricorrere, per la notificazione della sentenza, alle forme previste nel precedente art. 16, commi 3 e 4, proprio perché esse costituiscono eccezioni alla regola generale di cui allo stesso articolo, comma 2, riprodotta tal quale nell’art. 38” (Cass. n. 6166 del 2001 e n. 7306 del 2005).

 

Deve ritenersi altresì tempestiva la costituzione dell’appellato.

 

In proposito, il collegio non ignora che con sentenza n. 20262/2004 questo Giudice di legittimità ha avuto modo di affermare che il deposito, nella segreteria della commissione tributaria adita, del ricorso notificato per posta deve essere effettuato entro trenta giorni dalla spedizione postale del documento incorporante il ricorso, e non dalla sua ricezione da parte del destinatario, tuttavia questo orientamento, peraltro non consolidato, non appare in armonia con la considerazione, secondo il quale la notificazione nel sistema processuale, comunque effettuata, si perfeziona sempre nel momento in cui l’atto da notificare è ricevuto, essendo indiscutibile che quando nel processo si richiede, per la produzione di determinati effetti, la conoscenza di un atto da parte di uno o più soggetti, occorre, perché gli effetti si producano, che la prevista conoscenza intervenga, e sia una conoscenza “effettiva”, sia pure nella sua espressione “legale”, ossia quella che si produce all’esito del procedimento del “notum facere”, appositamente preordinato per “costituire” in tempi brevi (e comunque prevedibili) la suddetta conoscenza e la prova certa di essa, nonché del momento in cui è intervenuta.

 

Tanto premesso, è da rilevare che il termine previsto per la costituzione del ricorrente nel procedimento de quo decorre, a norma del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22, dalla proposizione del ricorso; che, ai sensi del cit. D.Lgs., art. 20, il ricorso è proposto mediante notifica; che, in caso di notifica a mezzo posta, s’intende proposto al momento della spedizione; infine che, a norma del cit. D.Lgs. art. 16, u.c., le notificazioni a mezzo del servizio postale si considerano effettuate nella data di spedizione, ma i termini che hanno inizio dalla notificazione decorrono dalla data in cui l’atto è ricevuto.

 

Dalla lettura sistematica delle disposizioni sopra riportate, emerge che si è disposto, in virtù di un’astrazione convenzionale, che la notificazione a mezzo del servizio postale si considera effettuata al momento della spedizione e non a quello del ricevimento.

 

Il tenore delle espressioni utilizzate dal legislatore non lascia infatti dubbi sul fatto che si tratti di una fictio avente una specifica funzione, come tale di carattere eccezionale, perciò non estensibile in via analogica e non invocabile laddove non si riscontri la funzione che ne ha determinato la genesi, posto che nell’art. 16 citato non si afferma che la notificazione si perfeziona al momento della spedizione, bensì che essa si considera effettuata in tale momento e nell’art. 20 citato non si afferma che il ricorso è proposto al momento della spedizione, bensì che esso s’intende proposto in tale momento.

 

Pertanto, a meno di non voler determinare l’aggravamento del carico di astrazione gravante sul sistema, occorre interpretare le norme in esame nel senso che la fictio si estenda nell’ambito strettamente necessario all’assolvimento della funzione per cui è sorta, e perciò nel senso che la notificazione a mezzo del servizio postale si considera effettuata al momento della spedizione con riguardo ai termini entro i quali il perfezionamento della notificazione stessa deve intervenire, nel qual caso un eventuale disservizio postale potrebbe comportare per il notificante una decadenza incolpevole, mentre i termini per i quali il perfezionamento della notificazione rappresenta il momento iniziale (e rispetto ai quali una notificazione ch