Con sentenza n. 24436 del 4 luglio 2008 (dep. il 2 ottobre 2008) la Corte di Cassazione ha legittimato la determinazione induttiva del reddito imponibile, anche fuori dai casi previsti dall’art. 39, D.P.R n. 600/1973, laddove sia riscontrabile una grave ed ingiustificabile incongruenza fra i componenti positivi dichiarati e quelli desumibili dall’attività svolta o dagli studi di settore, anche alla luce di una sequenza di esercizi nei quali si registrano come risultati costanti perdite.
Il fatto
A seguito di ispezione da parte di verificatori dell’allora Ufficio II.DD. di Pozzuoli nei confronti della società “L.S.” s.r.l., veniva notificato a detta società ai fini IRPeG ed ILOR per l’anno d’imposta 1995 un avviso di accertamento con il quale si rettificava il reddito, contestando l’omessa contabilizzazione di ricavi per L. 232.129.000, elevandolo a L. 161.291.000, tenuto conto della perdita dichiarata di L. 70.838.00, e determinando maggiori imposte per L. 59.678.000 per IRPeG e L. 14.115.000 per ILOR con le relative sanzioni.
Avverso detto accertamento la società proponeva ricorso innanzi alla C.T.P. di Napoli, lamentando l’omessa motivazione dell’atto per avere fatto esclusivamente riferimento al p.v.c. della verifica, criticando i criteri applicati nel procedere all’accertamento analitico-induttivo e sostenendo la mancanza di quegli elementi che giustificassero tale tipo di accertamento.
La C.T.P. rigettava il ricorso e la C.T.R. respingeva l’appello della società, sostenendo che era legittima sia la motivazione dell’avviso di accertamento eseguito per relationem al p.v.c. dei verificatori, in quanto condivisa dall’Ufficio la metodologia (analitica induttiva) utilizzata per la ricostruzione dei ricavi.
Avverso detta decisione la società “L.S.” s.r.l., propone ricorso per cassazione sulla base di due motivi.
La motivazione della sentenza
Per la Corte di Cassazione la censura relativa alla violazione di legge con particolare riferimento al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, e D.L. n. 331 del 1993, art. 62-sexies, citati, è infondata. In effetti, quest’ultima norma dispone fra l’altro, al comma 3, “che gli accertamenti condotti ai sensi del menzionato art. 39,comma 1, lett. d, possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore”, cui si riferisce il precedente art. 62 bis”.
In virtù di tale norma, l’ufficio – allorché ravvisi “gravi incongruenze” fra i valori dichiarati e quelli ragionevolmente attesi in base alle caratteristiche dell’attività svolta od agli “studi di settore” – può fondare l’accertamento di maggiori ricavi, rispetto a quelli dichiarati, anche su tali “gravi incongruenze” “e, quindi, anche al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 39 citato: il che costituisce, in pratica, un ulteriore elemento presuntivo, di carattere legale, certamente ammissibile anche in presenza di contabilità formalmente regolare (come, in genere, si verifica in presenza di gravi, precise e concordanti presunzioni: Cass. nn. 10649/2001, 8494/1998, 4555/1998)”.
Peraltro – osserva la Corte – “anche il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), richiamato, dispone che, in tema di accertamento delle imposte, anche in presenza di una contabilità formalmente regolare come nella specie, è consentito procedere alla rettifica della dichiarazione dei redditi, senza riscontro analitico della documentazione, secondo il metodo cosiddetto induttivo, purché l’accertamento in rettifica risulti fondato su presunzioni assistite dai requisiti previsti dall’art. 2729 cod. civ. e desunte da dati di comune esperienza, oltre che da concreti e significativi elementi offerti dalle singole fattispecie e la circostanza che una impresa commerciale dichiari, ai fini dell’imposta sul reddito, per più anni di seguito rilevanti perdite, nonché una ampia divaricazione tra costi e ricavi, costituisce una condotta commerciale anomala, di per sé sufficiente a giustificare da parte dell’erario una rettifica della dichiarazione, ai sensi dell’art. 39 succitato, a meno che il contribuente non dimostri concretamente la effettiva sussistenza delle perdite dichiarate (cfr. per tutte, cass. civ. sent. n. 21536 del 2007)”.
I massimi Giudici rilevano che nella fattispecie in esame, “tale anomalia è significativa ed ulteriormente aggravata dal fatto che, malgrado i risultati negativi ottenuti per cinque anni, per come risultano dalla contabilità esaminata e disattesa prima dai verificatori e poi dall’Ufficio, la società avrebbe insistito nella stessa attività, come rilevato in sentenza in palese contrasto con i principi di ragionevolezza, anche sotto il profilo dell’antieconomicità del comportamento della contribuente che inspiegabilmente si sarebbe decisa ad aprire un altro esercizio contiguo”.
Né le giustificazioni addotte dalla contribuente appaiono ragionevolmente tali da superare quanto affermato e dall’A.F. e dai giudici del merito.
I supremi Giudici osservano che la C.T.R. aveva già rilevato che, nel caso di specie, “l’ufficio avrebbe legittimamente applicato il metodo induttivo per la ricostruzione degli esatti ricavi, giungendo a risultati accettabili, in presenza di un dato certo ed obbiettivo costituito dalle quantità di commestibili in concreto utilizzati dal ristorante, partendo da quantità di materie prime per ogni vivanda senza altro superiore a quella normalmente impiegata, criterio dotato di assoluta attendibilità o quantomeno maggiore di quello dato dal numero di tovaglioli lavati, invocato dalla ricorrente, che non può in alcun modo risultare più attendibile tenuto anche conto, come ragionevolmente supposto dalla C.T.R., della possibilità d’uso, per le pizze, per i pasti dei soci e dei dipendenti, dei tovaglioli di carta”.
Inoltre, “vengono anche enumerati altri dati giustificativi della presunzione di reddito, affermando che relativamente ai pasti consumati dai dipendenti (sei a tempo indeterminato e quattro a tempo determinato) per i quali la società ha invocato la detrazione dalla quantità dei pasti accertati, la stessa non ha mai provato nè il numero degli stessi nè che questi fossero stati somministrati a titolo gratuito. In base a questi dati, che la commissione regionale ritiene congruamente accertati, il giudice a quo perviene alla conclusione che l’accertamento dell’Ufficio, oltre che legittimo, deve ritenersi valido anche sotto l’aspetto quantitativo stante l’iter logico seguito per la ricostruzione dei ricavi; per cui il risultato dell’accertamento, desunto da tali fatti noti, è logico e conseguente”.
Peraltro, osserva da ultimo la Cassazione, “una volta che l’Amministrazione finanziaria ha provato la fondatezza della pretesa fiscale, è onere del contribuente provare gli eventuali fatti impeditivi o contrari, onere ritenuto non assolto dalla C.T.R.”.
Riflessioni
La sentenza della Cassazione – per assurdo – non merita quasi di essere commentata…: è ineccepibile!
Nel caso di specie, ci troviamo in presenza della classica ipotesi di accertamento analitico, con posta induttiva sui ricavi.
Infatti, l’ufficio, con lo stesso atto di accertamento provvede a recuperi analitici per violazione delle regole che presiedono la determinazione del reddito d’impresa e alla ricostruzione indiretta dei ricavi, ex art. 39, comma 1, lett. d), del citato D.P.R. n. 600/73 (attraverso ragionamenti logico presuntivi, ovvero utilizzando percentuali di ricarico, etc.), accertamento che non avviene attraverso un calcolo rigoroso di cifre (che sarebbero del tutto ipotetiche ed arbitrarie) ma si fonda su considerazioni presuntive e di buon senso (cfr. Corte di Cassazione – n. 15809 del 23 novembre 2005, depositata il 12 luglio 2006).
Partendo dall’astratto dettato normativo, il giudizio di inattendibilità della contabilità non può che essere verificato, in concreto, di volta in volta, sulla base degli elementi riscontrati.
Acclarata, ormai, la legittimità dell’avviso di accertamento, pure in presenza di una contabilità formalmente regolare (fra le altre, Cass. Sent. n. 21579 del 28 giugno 2005, dep. il 7 novembre 2005), nel caso di specie, le presunzioni che hanno determinato la Commissione tributaria provinciale prima, e regionale dopo, ad avallare l’operato dell’ufficio, contrariamente all’assunto del ricorrente, si fondano su fatti certi, analiticamente indicati (quantità di materie prime impiegate in un ristorante), che evidenziano macroscopiche incongruenze dei dati contabili per tanti anni e che quindi legittimano l’effettuato ricorso al metodo induttivo.
Ogni volta l’ufficio effettua un ragionamento logico induttivo di buon senso – credibile, per intenderci – le rettifiche superano il vaglio dei giudici.
Per esempio, come si può credere che un ristorante continui a restare in attività dichiarando perdite negli ultimi cinque anni?
La capacità reddituale di un pubblico esercizio (nella specie, ripetiamo, ristorante) è un fatto da cui è legittimo dedurre per presunzione l’importo delle prestazioni di servizi rese nel locale stesso (Cass. sent.n.28327 del 26 ottobre 2005, dep. il 21 dicembre 2005).
Pertanto, se è vero che nell’attività di controllo occorre chiedersi se una certa ipotesi ricostruttiva sia sostenibile davanti ai giudici (in termini giuridici si richiama la ragionevole probabilità, la comune esperienza, l’id quod plerumque accidit), nel caso in questione è normale che un ristorante sempre in perdita negli ultimi cinque chiuda; diversamente c’è qualcosa che non quadra.
La dottrina più attenta ha affermato che “l’evasione fiscale delle imprese minori è un discorso apparentemente alla portata di tutti. Ma proprio quest’apparente facilità provoca un’alluvione di discorsi da pizzeria, non privi di un certo buonsenso, ma per una ragione o per l’altra cervellotici o impraticabili……….. Forse per questo la discussione, nella brevità dei tempi concessi dai mass media o dai lavori parlamentari, si arresta quando dovrebbe cominciare: in particolare sono anni che non si riesce a passare dal livello delle battute e dei discorsi da autobus ai ragionamenti. Occorre perciò freddamente considerare tutti i punti di vista rilevanti per combattere l’occultamento dei corrispettivi delle imprese minori. Per raggiungere quest’obiettivo non ci sono formule magiche (contrasto d’interessi, scontrino fiscale, catasto, coefficienti, studi di settore, eccetera), ma una pluralità di strumenti (alcuni legislativi e altri amministrativi) da utilizzare simultaneamente in concorso tra loro. Solo con l’azione combinata di una serie di strumenti astrattamente autonomi l’uno dall’altro, si potrà combattere quello che è oggi sicuramente il principale problema della fiscalità italiana. Naturalmente sarebbe illusorio pretendere di eliminare del tutto l’occultamento dei corrispettivi: occorre rassegnarsi a un certo livello di evasione, che sarebbe oltretutto antieconomico cercare di individuare. Occorre invece recuperare la ragionevolezza e la plausibilità delle dichiarazioni, non con i catasti ma con la prospettiva di controlli di credibilità caso per caso (1)”.
Oggi – ancora una volta (cfr. anche la sentenza della Cassazione n. 8643 del 13 marzo 2007, depositata il 6 aprile 2007), la Suprema Corte dà merito all’attività degli uffici.
Non ci crede più nessuno che un ristorante sia sempre in perdita e continui a restare aperto; non ci crede più nessuno che un imprenditore continui a pagare il personale dipendente, senza avere per lui degli utili.
Non si chiede tanto, ma che almeno le dichiarazioni dei redditi siano credibili, verosimili.
Concetta Pagano
15 Ottobre 2008
(1) Lupi, Il controllo indiretto del giro d’affari di artigiani, commercianti e professionisti. Verso gli studi di settore, in “il fisco” n. 38/1993, pag. 9489