Potere di impugnazione di un atto impositivo: si consuma con lo spirare del termine concesso o prima?

         Il potere di impugnazione di un atto impositivo si consuma solo con lo spirare del termine concesso e non prima dello spirare di tale termine? A tale interrogativo ha risposto la sentenza n. n. 8234 del 10 gennaio 2008 (dep. il 31 marzo 2008) della Corte Cass. sez. tributaria per la quale il potere di impugnazione di un atto impositivo si consuma solo con lo spirare del termine concesso e non prima dello spirare di tale termine; perciò, sempre nell’ambito del termine predetto, il potere de quo può essere esercitato in più riprese..

         In particolare, l’iter logico giuridico adottato da tale pronuncia ha puntualizzato, in sintesi, quanto segue:

“Il contribuente che  ha  proposto  valido ricorso non consuma il potere di impugnazione dell’atto dell’amministrazione e perciò non perde la possibilità di proporre, purché  non  sia  scaduto  il termine per impugnare, nuovi motivi  con  un  ulteriore  atto  che  abbia  i requisiti previsti dall’art. 18 D.lg. 546/92, non  potendo  desumersi,   dal sistema in  generale  e  dall’art.  24  D. Lgs.  546/92  in  particolare,   il principio  di  consumazione  del   potere   di   impugnazione   degli   atti dell’autorità  finanziaria,   posto  che  il  citato  art.  24,    nel   porre indirettamente il  divieto  di  integrazione  dei  motivi  di  ricorso,   non presuppone necessariamente la sussistenza del suddetto principio, dipendendo anzi l’ampiezza  del  divieto  in  esame  (estensibilità  alle  integrazioni successive alla proposizione del ricorso, ancorché in termini, ovvero solo a quelle successive allo spirare di tale termine) dall’opzione ermeneutica  in ordine alla sussistenza o meno di tale principio”.

         In definitiva, l’esercizio del diritto alla difesa e allo svolgimento delle attività processuali è costituzionalmente garantito; pertanto, in virtù della lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 24 del dlgs 546/92 è possibile affermare che il potere di impugnazione di un atto impositivo si consuma solo con lo spirare del termine concesso e non prima dello spirare di tale termine.

         Sempre nell’ambito del termine predetto, il potere de quo può essere esercitato in più riprese.

         Il diritto inviolabile alla difesa per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi, sancito dall’articolo 24 della Costituzione richiede che il contribuente (ricorrente in primo grado) possa frazionare l’impugnazione dell’atto impositivo in più ricorsi prima dello spirare del termine perentorio concesso.

         Peraltro, in ordine ai motivi occorre ribadire l’inammissibilità del ricorso che ne risulti privo (cd. ricorso interruttivo).

 

         Si è ritenuto inammissibile il ricorso nel caso in cui il ricorrente si sia limitato ad affermare la illegittimità dell’atto o del comportamento tenuto dall’ufficio senza esplicitarne le ragioni, o quando si sia limitato a formulare delle motivazioni assolutamente generiche o non abbia motivato le ragioni della domanda (cosiddetto ricorso meramente interruttivo), ovvero quando si sia richiamato al contenuto di altro ricorso pendente davanti allo stesso giudice (cosiddetta motivazione per relationem).

         Ai fini di un’adeguata tutela in giudizio si rammenta che il ricorrente che non abbia sviluppato tutti i motivi di impugnazione nel ricorso introduttivo, essendosi limitato ad eccepite soltanto alcuni vizi dell’atto impositiva con riserva di ulteriori eccezioni, non avrà più, una volta scaduto  il termine per impugnare, di riaprire successivamente, con memorie aggiuntive, l’ambito della controversia, a meno che non ricorra l’ipotesi prevista dall’articolo 24 del dlgs 546/92.

 

         Deve dichiararsi l’inammissibilità del ricorso  introduttivo del contribuente  attraverso il quale siano proposte censure generiche rivolte ad atto differente da  quello concretamente impugnato. Non è possibile prescindere dal contenuto perentorio degli artt. 18 e 24  del D. Lgs. n. 546/1992 in relazione  agli  elementi  necessari del ricorso ed all’ammissibilità di motivi aggiunti e nuovi documenti per  effetto  delle difese spiegate in atti dalla controparte processuale (Sent. n. 27 del 13 febbraio 2008 dep. il 21 febbraio 2008 della Comm. trib. prov. di  Milano,  Sez. VIII). Orbene, la sentenza in rassegna offre un ulteriore, autorevole, contributo interpretativo sulla rilevanza dell’inammissibilità nell’ambito del processo tributario, sul solco di un indirizzo ermeneutico che appare, oramai, consolidato nel senso di restringere entro limiti rigidi l’ambito di incidenza di tale vizio.

 

         E’ ius recptum che nei campi in cui si chiede la tutela giurisdizionale di diritti “il principio di effettività osta ad una disciplina processuale che renda eccessivamente difficile l’esercizio di tali diritti”. Con la conseguenza che occorre privilegiare un’interpretazione “se necessario adeguatrice del sistema processuale, nel senso di ridurre ai casi indispensabili le ipotesi di inammissibilità dei rimedi giurisdizionali” (Cassazione sentenza 3116/2006).

         Le stesse sezioni unite con la sentenza n 22601/2004 hanno puntualizzato – riconoscendo la sussistenza dell’obbligo del giudice tributario di invitare la parte privata che ne fosse sprovvista a munirsi di un difensore tecnico “evitandosi un’immediata declaratoria d’inammissibilità del ricorso” – che tale obbligo “non sembra … costituisca un mezzo sproporzionato – in relazione al dettato normativo e alle sue finalità – per assicurare effettività di tutela giurisdizionale contro gli atti dell’Amministrazione finanziaria”.

 

 

         Il difetto dell’assistenza tecnica al  contribuente  nei  casi stabiliti dall’art. 12 della disciplina del contenzioso tributario  comporta per il giudice che lo  abbia rilevato d’ufficio o su istanza di parte l’obbligo di invitare ad ottemperare  al precetto della menzionata disposizione munendosi del ministero del  difensore.           Peraltro, l’omessa rilevazione dell’assenza della difesa tecnica non  costituisce vizio della sentenza né l’Amministrazione  finanziaria  può  fondare  alcun legittimo interesse a farne constare la sussistenza poiché trattasi di norma a  tutela della parte privata (Sent. n. 3051 del 22 novembre 2007 dep. l’8 febbraio 2008 della Corte Cass., Sez. tributaria). La Consulta con sentenza 189/2000 ha evidenziato l’esigenza di offrire un’interpretazione delle norme del giudizio tributario “in armonia con un sistema processuale che deve garantire la tutela delle parti in posizione di parità, evitando irragionevoli sanzioni di inammissibilità che si risolvano a danno del soggetto che si intende tutelare.

 

         La Suprema corte di Cassazione con la sentenza n. n. 18872/2007, ha avuto modo di rilevare che, in base a un’interpretazione sistematica dell’articolo 22 del Dlgs 546/1992, “la sanzione processuale dell’inammissibilità del ricorso è disposta soltanto nel caso di mancato deposito degli atti e documenti previsti dall’art. 22 cit. comma 1, non anche degli atti previsti dal quarto comma dello stesso articolo… il cui deposito deve ritenersi pertanto facoltativo”. Il diritto della parte (pubblica o privata) al processo  trova fondamento nell’art. 24 della Costituzione, e perciò può essere frustrato attraverso una pronuncia di inammissibilità solo in  relazione  a  vizi,  di natura non formale, che a loro volta non pregiudichino interessi del pari costituzionalmente protetti, quali  l’effettività del contraddittorio. Perciò, non determina inammissibilità il fatto    che l’appello dell’Amministrazione sia stato notificato a due parti in due copie collocate in un’unica busta, consegnata al procuratore di entrambe (Sent. n. 3042 del 17 ottobre 2007 dep. l’8 febbraio 2008 della Corte Cass., Sez. tributaria).

 

Carmela Lucariello

16 Maggio 2008

 

Il presente intervento è espressione di opinioni personali dell’autore

 

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ALLEGATO

 

Sent. n. 8234 del 10 gennaio 2008 (dep. il 31 marzo 2008) della Corte Cass., Sez. tributaria – Pres. Paolini, Rel. Di Iasi

 

 

Svolgimento  del  processo  –  La C.T.P.  di  Milano  respingeva  i  ricorsi riuniti proposti da B.A. avverso le iscrizioni a  ruolo  per  Irpef  e  Ilor relative agli anni 1985, 1986 e 1987.

    La C.T.R. Lombardia rigettava l’appello del contribuente (il quale aveva denunciato l’omessa pronuncia in ordine ad  uno  dei  due  ricorsi  riuniti) rilevando che, dal combinato disposto del D.P.R. n. 546 del 1992, artt. 18 e 24 si ricava  il  principio  di  consumazione  del  potere  di  impugnazione dell’atto impositivo, avendo il ricorrente l’onere di indicare in ricorso  i motivi di impugnazione, la cui integrazione  è  ammessa  nei  soli  casi  di deposito di nuovi documenti.

    I giudici d’appello affermavano in particolare che, ove  si  consentisse

la notifica (sia pure nei previsti termini di impugnazione) di un successivo ricorso contenente motivi nuovi  e  diversi  da  quelli  inizialmente fatti valere, si finirebbe col vanificare la  portata  delle  norme  suddette,  ed inoltre che il diverso principio di consumazione del potere di  impugnazione della sentenza enunciato dalla giurisprudenza di legittimità – il quale  non esclude la possibilità, dopo la  proposizione  di  un’impugnazione  viziata, della proposizione (purché entro  il  prescritto  termine)  di  una  seconda

impugnazione immune da vizi destinata a  sostituire  la  precedente-  non  è

applicabile al caso in esame sia perchè nella specie non è configurabile una

inammissibilità e/o improcedibilità del primo ricorso, sia perchè il secondo

ricorso propone motivi di impugnazione nuovi e  diversi  rispetto  a  quelli

proposti col primo, con correlativi nuovi e  diversi  temi  di  indagine  in

fatto, così aggirando l’ostacolo costituito dal disposto del D.P.R.  n.  546 del 1992, citato art. 24.

    Avverso  questa  sentenza  ricorre  per  cassazione   il   contribuente;

resistono con controricorso il Ministero dell’Economia  e  delle  Finanze  e

l’Agenzia delle Entrate.

 

    Motivi  della  decisione  –  Con  i  primi  tre  motivi,  da   esaminare

congiuntamente perchè logicamente connessi,  deducendo  violazione  e  falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 1, 18, 24  nonché  artt.  39, 112 e 273 c.p.c., oltre che vizi di motivazione, il ricorrente  rileva  che,

avendo proposto un primo  ricorso  avverso  due  cartelle  di  pagamento  ed avendolo notificato al concessionario dopo il deposito  (laddove  presso  la

segreteria  della   commissione   deve   essere   depositato   a   pena   di

inammissibilità il ricorso notificato), provvedeva, prima della scadenza del

termine e prima dell’intervento  di  una  pronuncia  di  inammissibilità,  a

notificare un altro ricorso che veniva riunito al primo.

    Secondo il ricorrente, pertanto, i giudici d’appello, in  riforma  della

sentenza  impugnata  ed  alla  luce  dei  principi  dettati   in   tema   di

litispendenza, avrebbero dovuto accantonare il primo ricorso e decidere solo in ordine al secondo.

    I suddetti giudici, invece, secondo il ricorrente, avevano  erroneamente

invocato il principio di consumazione del potere di  impugnazione  dell’atto

impositivo (principio che non trova riscontro nella disciplina positiva  del

processo tributario se non con  riferimento  all’impugnazione),  richiamando norme che non solo non lo prevedono con riguardo agli atti  impositivi,  ma, anzi, ne contraddicono l’esistenza,  dal  momento  che  il  citato  art.  24 attribuisce alla parte la possibilità di introdurre, sia pure in determinate circostanze, nuovi petita.

    Rileva peraltro il ricorrente che l’erroneità della decisione  impugnata

emergerebbe  anche  dal  disposto  dell’art.  164  c.p.c.,   prevedente   la possibilità, ammessa dalla giurisprudenza anche nell’ipotesi in cui l’attore si  sia  già  costituito,  di  rinnovare  la  citazione  nulla,   previsione estensibile secondo  il  ricorrente,  a  qualunque  atto  “instaurativo”  di giudizio (quindi  anche  al  ricorso  nel  giudizio  tributario),  dovendosi pertanto ritenere che la proposizione del ricorso non consuma il  potere  di ricorrere, purché nei prescritti termini, non influendo  detta  proposizione sull’inoppugnabilità dell’atto amministrativo, che non interviene in seguito alla proposizione del ricorso, ma solo in seguito alla scadenza del  termine per ricorrere.

    Aggiunge infine il ricorrente che i giudici d’appello avevano confermato la declaratoria di inammissibilità del secondo ricorso pronunciata dai primi giudici affermando che con tale secondo ricorso erano stati proposti  motivi nuovi e diversi da quelli prospettati col primo, senza considerare che,  non essendo  configurabile  un  principio di   consumazione   del   potere   di impugnazione dell’atto impositivo, ben poteva la parte sostituire  il  primo ricorso con un secondo ricorso, non solo non viziato, ma più ricco sotto  il profilo motivazionale, e senza considerare altresì  che,  nella  specie,  le questioni proposte  col  secondo  ricorso  erano  in  ogni  caso  rilevabili d’ufficio.

    Col  quarto  motivo,  premesso  che  la  sentenza  impugnata,   ritenuto assorbente il principio di consumazione del  potere  di  impugnazione  degli atti impositivi, non aveva esaminato i motivi proposti col secondo  ricorso, il ricorrente chiede che, ritenuto insussistente  il  suddetto  principio  e cassata perciò la sentenza impugnata, questo giudice di  legittimità  decida nel merito sui motivi proposti nel secondo ricorso (dichiarato inammissibile dal primo giudice con decisione confermata in  appello)  e  a  tal  fine  li ripropone in questa sede.

    I primi  tre  motivi  di  ricorso,  da  trattare  congiuntamente  perchè logicamente connessi, sono fondati, nei limiti  e  nei  termini  di  cui  in prosieguo. E’ innanzitutto da premettere che sul primo ricorso proposto  dal contribuente il giudice di primo grado, (con sentenza confermata in appello, ha deciso nel merito (rigettandolo) ed inoltre che i giudici d’appello,  con affermazione non censurata in questa sede, hanno espressamente  escluso  che detto ricorso fosse inammissibile  o  improcedibile,  pertanto  non  risulta invocato  a  proposito  dal  ricorrente   l’art.  164  c.p.c.  prevedente  la rinnovazione della citazione nulla.

    Sgomberato pertanto il campo di indagine da richiami normativi equivoci, ancorché suggestivi, il problema che in questa  sede  si  pone,  inquadrando correttamente i termini teorici della questione in esame, è se, in relazione ad un processo anche solo  instaurando,  concesso  ad  un  soggetto  (anche, eventualmente, non ancora parte in senso tecnico) un termine per l’esercizio di un potere (una facoltà, un diritto), tale potere si consumi solo  con  lo spirare del termine concesso ovvero anche col valido esercizio del  suddetto

potere, ancorché prima dello spirare di tale termine, e perciò, sotto  altro profilo, se, sempre nell’ambito del termine predetto, il potere de quo possa

essere esercitato in una sola volta oppure (ove la sua natura  lo  consenta)

in più riprese.

    E’ dunque evidente che, a differenza di quanto  mostra  di  ritenere  il ricorrente, non risulta pertinente nella specie il richiamo ad una sorta  di “teoria generale” degli atti  introduttivi  del  giudizio,  rilevando  nella specie  non  tanto  il  ricorso  nel  giudizio  tributario  in  quanto  atto introduttivo di un giudizio, bensì in quanto  atto  da  compiersi  entro  un termine prescritto. Occorre pertanto riferirsi non alla  citazione,  per  la

cui proposizione  non  risulta  previsto  alcun  termine  (ricavandosi  solo indirettamente dei limiti temporali dalla disciplina sostanziale, ad esempio

in tema di prescrizione), bensì ad altri atti che, come la costituzione  del convenuto  (tanto  per  restare  nell’ambito  della  disciplina   processual civilistica), siano soggetti ad un termine.

    In  proposito,  la  giurisprudenza  di  questo  giudice  di  legittimità (maturata soprattutto con riferimento al  rito  del  lavoro)  ha  più  volte evidenziato che non è necessario che la costituzione del  convenuto  avvenga materialmente in un unico atto, essendo possibile il successivo deposito  di memorie integrative, con la conseguenza che devono  considerarsi  tempestive le attività (di contestazione, allegazione, eccezione,  deduzione)  compiute con una memoria  successiva  a  quella  di  costituzione,  sempre  che  essa intervenga nel termine prescritto (v. Cass. n. 116 del  1990,  n.  5629  del 1997,  n.  4371  del  2000;  contra,  n.  40  del  1982).  Peraltro,  è   da sottolineare, con riguardo al processo amministrativo (caratterizzato,  come quello tributario, dalla struttura impugnatoria e  dalla  previsione  di  un termine  per  ricorrere   avverso   atti   dell’amministrazione),   che   la

giurisprudenza  non  dubita,  in  assenza  di  disposizioni   positive   che impediscano al ricorrente  di  frazionare  l’impugnazione  in  più  ricorsi, dell’ammissibilità di un ricorso (purché  notificato  entro  il  termine  di decadenza previsto per l’impugnazione dell’atto) contenente  motivi  diversi da quelli espressi nell’atto introduttivo del giudizio (v. tra le  altre  C. Stato n. 3067 del 2002 e n. 455 del 1987, nonché TAR Lombardia n.  2392  del 2004, TAR Friuli Venezia Giulia n. 70 del 1990 e TAR Lazio n. 827 del 1989).

D’altra parte, anche in mancanza di precedenti specifici, nella  prassi  non

si è mai dubitato che la parte alla quale sia stato concesso un termine  per

l’esercizio di un  potere  (diritto,  facoltà)  e/o  per  il  compimento  di un’attività  possa  utilizzare  tutto  il  tempo  concessole  a  tale  scopo (proponendo, ad esempio, un’eccezione  di  incompetenza  per  materia  nella comparsa di costituzione, e poi anche, sotto altri profili, successivamente, purchè entro il termine di cui all’art. 38 c.p.c.), a meno che non si tratti di atti o attività irripetibili e/o non frazionabili, ovvero il  legislatore abbia espressamente disposto una disciplina  diversa,  come  ad  esempio  in materia di impugnazione, dove la specifica previsione (argomentata  ex  art. 358  c.p.c.)  del  principio  di  consumazione  conferma  indirettamente  la validità di un principio generale di segno opposto.

    Pertanto, tornando allo specifico del ricorso tributario, in assenza  di una  espressa  previsione  normativa  o   di   particolari   caratteristiche dell’atto, non è possibile desumere dal semplice riferimento della norma  al ricorso inteso come atto singolo argomenti per affermare l’irripetibilità  o l’infrazionabilità, così indirettamente incidendo sull’ampiezza del  termine concesso dal legislatore  al  contribuente  per  esercitare  il  diritto  di impugnare l’atto dell’autorità finanziaria, e perciò  sull’esercizio  di  un diritto  costituzionalmente  presidiato  quale  quello  di  azione.  E’   in particolare da escludere che il principio  di  consumazione  del  potere  di impugnazione dell’atto-pretesa tributaria possa ricavarsi dal  disposto  del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 24 richiamato nella sentenza impugnata.

    Tale norma, prevedendo null’altro che la possibilità di integrazione dei motivi di ricorso in ipotesi di produzione di documenti  non  conosciuti  (e perciò,  indirettamente,  il  divieto  di  tale   integrazione   all’infuori dell’ipotesi considerata), evidentemente non soltanto non fornisce argomenti sui quali fondare il suddetto principio di consumazione, ma pone essa stessa problemi ermeneutici la cui soluzione dipende proprio  dal