Valide percentuali di ricarico

Con sentenza n. 8880 del 6 marzo 2007 (dep. il 13 aprile) la Corte di Cassazione ha affermato che l‘Amministrazione  finanziaria  ha  la facoltà di ricorrere all’utilizzo di presunzioni semplici ai fini della determinazione  induttiva di maggior reddito imponibile, anche in presenza di contabilità formalmente e regolarmente tenuta. Peraltro, l’adozione di criteri statistici –  quali  le percentuali di ricarico – unitamente ai dati acquisiti in sede  di  verifica devono  consentire  di  privare  la   documentazione   contabile   di   ogni attendibilità rimanendo, in difetto, l’eventuale difformità  allo  stato  di mero indizio, insufficiente ed inidoneo ad integrare un fatto noto  e  certo dal quale risalire al fatto ignoto e la relativa prova per presunzioni.

   

Svolgimento del processo

 

Un contribuente, esercente l’attività  di  commercio,  impugnava  n.  2  avvisi  di accertamento  notificati  in  data  21  aprile  1994,  con   cui   l’Ufficio distrettuale delle Imposte Dirette di Trento, aveva rilevato  per  gli  anni d’imposta 1989 e 1990, maggiori ricavi rispetto a quelli dichiarati. A tal fine l’Amministrazione, non avendo il contribuente  esibito  il  listino dei prezzi per tali annualità, aveva provveduto ad accertare  induttivamente le percentuali di ricarico dopo aver effettuato tre accessi  in  altrettanti esercizi commerciali, ubicati in zone  attigue  a  quella  del  negozio  del contribuente, con caratteristiche simili allo stesso. 

L’esponente  riteneva illegittimi gli  avvisi  illegittimi,  contestando  il  metodo  seguito  per determinare il  reddito  con  percentuali  di  ricarico  a  suo  avviso  non rispondenti  alla  realtà  dei   fatti.  

L’adita   Commissione   tributaria provinciale di Trento accoglieva  il  ricorso. 

La  relativa sentenza  veniva appellata  dall’ufficio  presso  la  Commissione   tributaria regionale di Trento che accoglieva  in  parte l’impugnazione  modificando al ribasso  la  percentuale  dei   ricavi applicata,  tenuto  conto,   al   riguardo,   anche   delle   dimensioni   e caratteristiche dell’azienda del contribuente, di tipo familiare.

Avverso detta sentenza il contribuente propone ora ricorso  per  cassazione.

 

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo del ricorso, la Parte denuncia la violazione o  falsa  applicazione  dell’art. 39,  comma  1,  del  D.P.R. n. 600/1973 deducendo  che  non  era  consentito  all’ufficio  di  procedere all’accertamento in via presuntiva del reddito,  in  quanto  la  contabilità della sua azienda era risultata  formalmente  regolare,  anche  se  a  torto ritenuta non  attendibile  dai  verbalizzanti;  peraltro  egli  non  si  era rifiutato di produrre il listino dei prezzi dei  prodotti  commercializzati, ma si era limitato ad evidenziarne l’inesistenza;  erroneo  era  il  calcolo della percentuale di ricarico, rilevata presso i tre  esercizi,  di  diverse caratteristiche dal suo, peraltro non ubicati nella stessa zona.

Con il secondo motivo, denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 del codice civile ribadendo le proprie critiche al  metodo seguito  per  stabilire  presuntivamente  tale  percentuale   di   ricarico, utilizzando a tal fine una doppia presunzione in spregio del disposto  delle norme  suddette.

Infine,  con  il  terzo  motivo  denuncia  la  carenza  ed illogicità della motivazione della sentenza impugnata nel punto  in  cui  il giudice d’appello ha ritenuto di dover ridurre la  percentuale  di  ricarico), tenuto conto delle  caratteristiche  dell’azienda  e  della  percentuale  di ricarico riscontrata negli altri commerciali ispezionati, a  torto  ritenuti omogenei rispetto al suo.

I motivi suddetti – che possono essere esaminati congiuntamente  essendo tra loro connessi – non sono stati ritenuti fondati dalla Suprema Corte.

Per quanto riguarda la percentuale  la Corte, dopo aver premesso “che  trattasi  di presunzioni semplici, desunte da dati di comune  esperienza  ed  esplicitate attraverso adeguato ragionamento, che consentono di risalire dal fatto  noto al fatto ignoto e che possono essere legittimamente utilizzate  dall’ufficio erariale e dal giudice (Cass. 9 settembre 2005, n. 19832)”, afferma, facendo proprio un certo indirizzo giurisprudenziale, che “ in tema di accertamento delle  imposte  dirette  ed  in  presenza  di  una  contabilità regolarmente tenuta, l’accertamento dei maggiori ricavi d’impresa può essere affidato alla considerazione della difformità della percentuale di  ricarico applicata dal contribuente rispetto  a  quella  mediamente  riscontrata  nel settore dì appartenenza soltanto se essa raggiunga livelli di  abnormita  ed irragionevolezza tali da privare, appunto, la  documentazione  contabile  di ogni attendibilità. Diversamente, siffatta difformità rimane sul  piano  del mero indizio, ove si consideri che gli indici elaborati per  un  determinato settore merceologico, pur basati su criteri  statistici,  non  integrano  un fatto noto e certo e non sono idonei, da soli, ad integrare  una  prova  per presunzioni (Cass. n. 5870 del 14 aprile 2003)”.

Attese queste considerazioni, rileva il Collegio che, in  realtà  sia  i pretesi vizi di motivazione che  le  violazioni  di  legge  prospettate  dal contribuente si risolvono in definitiva in questioni di  merito,  come  tali sottratti al sindacato di legittimità,  atteso  che  egli  chiede  un  nuovo apprezzamento dei fatti e  delle  prove  in  senso  difforme  da  quanto  ha ritenuto il giudice tributario. È noto che l’unico  sindacato  riservato  al giudice di legittimità è quello sulla congruenza della relativa motivazione, che, però, nella fattispecie appare  corretta  ed  immune  da  vizi  logici; infatti tutte le circostanze  indicate  dal  contribuente  sono  passate  al vaglio del giudice dell’impugnazione,  per  cui  il  ricorso  tende  ad  una rivalutazione del merito, non  consentita  in  questa  sede  di  legittimità (Cass. 11 giugno 1998, n. 5802).

 

Nostre riflessioni

 

Nel campo tributario la prova documentale è rara, emergendo, invece, ” il carattere interpretativo della prova, la sua natura di ragionamento, di argomentazione (1)“: di fatto, siamo spesso in presenza di presunzioni che, ai sensi dell’art. 2727 del c.c., sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato,  giusto il disposto dell’art. 39, comma 1, lett. d, del D. P. R. n. 600/73, che stabilisce che l’incompletezza, la falsità, l’inesattezza dei dati indicati nella dichiarazione dei redditi, ovvero l’esistenza di attività non dichiarate possono essere desunte sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise, e concordanti (2).

La Suprema Corte  – con sentenza n.5052 del 4 febbraio 1987, depositata il 10 giugno 1987 ha stabilito che “ ….in tema di prove su presunzioni non occorre che i fatti su cui la presunzione si fonda siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignorato come l’unica conseguenza possibile dei fatti accertati in giudizio secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva, bastando, invece, che l’operata inferenza sia effettuata alla stregua di un canone di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possono verificarsi secondo regole di esperienza colte dal Giudice, per giungere all’espresso convincimento circa tale probabilità di sussistenza e la compatibilità del fatto supposto a quello accertato….”.

Da un punto di vista generale,  le  prove  sono  distinte  in prove dirette  ed indirette, sulla base del grado di forza che riescono a produrre.  Nell’ambito delle prove indirette rientrano le cd. presunzioni, la cui definizione è contenuta  nell’art. 2727 del codice  civile: la  conseguenza  che  la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato.

Mentre la prova diretta permette di  dimostrare le  argomentazioni  addotte  senza  ulteriori procedimenti  logici, la presunzione consiste proprio in  un  processo  logico deduttivo  in forza del quale, dalla constatazione di taluni fatti certi si presumere la sussistenza di altri fatti non noti.

La prova presuntiva  rappresenta uno  strumento dalle potenzialità elevate, dotato in alcuni casi di forza  legislativa: presunzioni legali a supporto dell’onere della prova. 

Come osservato in dottrina (3), “in  effetti, l’importanza delle presunzioni risiede nella capacità, in  ultima  analisi, di determinare l’inversione dell’onere de quo, il  quale  viene  ad  essere traslato in capo al soggetto  passivo  di  imposta.  È  evidente  che  tale effetto si osserva esclusivamente in caso di presunzioni relative che, come noto, ammettono la prova contraria. Nel caso,  invece  di  presunzioni assolute detta possibilità è interdetta per espressa previsione  di  legge: siamo in presenza del massimo vigore dell’istituto in  questione.  In generale,  comunque,  sia  il  legislatore  civilistico    che   quello tributario  mantengono un atteggiamento  di  particolare  rigore  nella valenza attribuita alle presunzioni. Queste devono essere caratterizzate da gravità, quanto alla capacità dimostrativa, precisione,  quanto  all’esatta definizione dei confini entro i quali manifestano effetti,  e  concordanza, quanto  alla  convergenza  verso  risultati  che  possono  essere  ritenuti univoci”.

Secondo un principio ormai consolidato della Corte di Cassazione – sentenza n.7931/1996 – i predetti requisiti, quanto alla gravità occorre che siano “…oggettivamente e intrinsecamente consistenti e come tali resistenti alle possibili obiezioni…”, quanto alla precisione occorre che risultino  “…dotati di specificità e concretezza e non suscettibili di diversa altrettanto (o più verosimile) interpretazione…”, e quanto, alla concordanza è necessario che conducano a conclusioni, conformi e corrispondenti, risultando ovviamente “…non configgenti tra loro e non smentiti da dati ugualmente certi…”.

Riprendiamo, quindi, ancora una volta un nostro cavallo di battaglia: le rimanenze per tutti questi soggetti – anche in contabilità ordinaria – costituiscono il cd. tappo o la fisarmonica: basta aumentarle o diminuirle che aumenta o diminuisce il reddito; il tutto, naturalmente, in spregio all’art. 15 del D.P.R.n.600 del 73 che indica le modalità esatte di compilazione del libro inventari, ridotto oggi, per questi soggetti, ad una fotocopia del bilancio.

E di questo ormai la Cassazione ne sta prendendo atto: sono infondati i vizi di violazione  di legge, con riferimento agli artt. 39 del D.P.R. n. 600/1973 e 62-sexies  del D.L. n. 331/1993, citati. In virtù di tale  norma (4),  l’ufficio    allorché  ravvisi  gravi incongruenze fra i valori dichiarati e  quelli  ragionevolmente  attesi  in base alle caratteristiche dell’attività svolta od agli studi di settore  – può quindi fondare l’accertamento  di  maggiori  ricavi,  rispetto  a quelli dichiarati:  il  che  costituisce,  in pratica, un ulteriore elemento presuntivo, di carattere  legale,  certamente ammissibile anche in presenza di contabilità formalmente regolare (come,  in genere, si verifica in presenza di gravi, precise e concordanti presunzioni: Cass. n. 10649/2001, n.8494/1998, n.4555/1998) (5).

Da ultimo, in questo contesto che occupiamoci anche del cd. divieto del praesumptum de  praesumpto,invocato dalla Parte. 

Come affermato e sostenuto dalla migliore dottrina (6), cui abbiamo il piacere di associarsi, è “ un luogo comune (o meglio vale solo come ammonimento tendenziale) l’espressione secondo cui sarebbe vietato trarre presunzioni da presunzioni (Praesumptum de  praesumpto non admittitur)”. Al più, la presunzione di secondo grado, cioè basata su un fatto a sua volta presunto, potrà essere meno convincente; ma è un problema di prove. La stessa dottrina citata afferma che “ verso questo luogo comune la giurisprudenza ha però un atteggiamento di formale rispetto, perché parla di presunzioni di secondo grado solo quando si tratta di respingerle; quando invece una presunzione di secondo grado le sembra fondata la accetta, senza prendere posizione sul problema generale….In concreto il divieto di doppie presunzioni può avere il potere di suggestione che hanno molti luoghi comuni, e può fare un certo effetto quando il giudice è perplesso; un solenne praesumptum de  praesumpto non admittitur , messo al punto giusto di un ricorso, può suonare bene per abbellire le nostre tesi (ad colorandum, come qualche volta si dice in gergo avvocatesco); l’importante è però che queste tesi siano per altri versi fondate, e che non si faccia affidamento solo sull’astratto di vieto di doppie presunzioni”.  

 

Gianfranco Antico

Maggio 2007

 


NOTE

 

(1) LUPI, in Manuale professionale di Diritto Tributario, 1998, pagg. 304 e seguenti.

(2) Per approfondimenti cfr. ANTICO-CARRIROLO-FUSCONI-TUCCI-ZAPPI, L’accertamento fiscale, Il Sole24ore, II edizione, Milano, 2007

(3) PISANI, La prova testimoniale nell’accertamento tributario, in “il fisco”, n. 46/ 2003, pag. 7209

(4) “ Gli accertamenti di cui agli articoli, primo comma,  lettera  d), del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973,  n.  600,  e successive modificazioni, e 54 del decreto del Presidente della  Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, e successive modificazioni, possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i  compensi  ed  i corrispettivi   dichiarati   e   quelli   fondatamente   desumibili   dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio  della  specifica  attività svolta, ovvero dagli studi di  settore  elaborati  ai  sensi  dell’articolo 62-bis del presente decreto”.

(5) Cfr. da ultimo Cass. n. 8643 del 13 marzo 2007, dep. il 6 aprile 2007

(6) LUPI, Manuale giuridico professionale di diritto tributario, 2001, pag. 484