Clausola di gradimento in caso di recesso del socio

Parere sull’ammissibilità della clausola di gradimento che deroga, in punto di valutazione delle quote sociali in caso di recesso del socio, ai criteri legali stabiliti dall’art. 2437- ter c.c.
a cura Dott. Pierluigi Maienza

Ammissibilità della clausola di gradimento che deroga, in punto di valutazione delle quote sociali in caso di recesso del socio, ai criteri legali stabiliti dall’art. 2437- ter c.c.

 

Sommario

1. Profili generali sul diritto di recesso

2. La previsione di clausole di mero gradimento

3. Conclusioni

 

1. Profili generali sul diritto di recesso.

recesso del socioL’intervento riformatore in materia di società di capitali e società cooperative realizzato col D. Lgs. n.6/2003 esibisce i propri tratti qualificanti nell’accentuazione dell’autonomia contrattuale e nel rafforzamento della maggioranza e degli amministratori.

A fronte di una tale scelta di politica legislativa si colloca come naturale quanto necessaria implicazione la previsione di nuovi strumenti di tutela delle minoranze e del singolo socio.

La posizione del singolo socio si caratterizza, tradizionalmente, per la possibilità di esercizio di un duplice ordine di facoltà: da un lato, il socio è legittimato a soddisfare le proprie ragioni mediante l’esercizio di diritti endosocietari, presupponendosi in detta ipotesi la conservazione del rapporto corporativo (strumenti di c.d. voice); dall’altro, lo stesso può determinarsi alla cessazione del rapporto societario assistito dalla garanzia di condizioni eque di disinvestimento delle proprie azioni (strumenti di c.d. exit).

Tra gli strumenti di questa seconda categoria si colloca il diritto di recesso, gli orizzonti del quale sono stati significativamente ampliati ad opera della menzionata riforma.

L’originaria nozione del diritto di recesso, infatti, esprimeva il conflitto tra i due contrapposti interessi della maggioranza dei soci al costante adeguamento della compagine societaria alla variazione delle condizioni di mercato, e di quello del socio a non subire la modifica delle condizioni del proprio investimento partecipativo senza il proprio consenso1.

La disciplina positiva, segnata da una sorta di diffidenza da parte del legislatore all’esercizio del recesso2, si poneva in termini assolutamente restrittivi in ordine sia al carattere tassativo delle ipotesi legittimanti l’esercizio dello stesso, sia alla determinazione di criteri di liquidazione della partecipazione generalmente poco remunerativi.

Le modifiche introdotte con la riforma descrivono la fisionomia dell’istituto in questione in termini del tutto nuovi: il diritto di recesso si pone ora non solo come strumento utilizzabile dal socio per disinvestire la propria partecipazione, ma anche, e soprattutto, come riconosciuto nella Relazione al D. Lgs. n. 6/2003, per incidere sulle scelte più rilevanti della società e per negoziare la sua permanenza nella stessa.+

Ancora in termini generali, un criterio classificatorio è riscontrabile nella stessa lettera della legge che stabilisce una summa divisio tra cause di recesso legali o statutarie ed ulteriormente distinguendo all’interno delle prime tra cause inderogabili e cause previste dalla legge ma eliminabili in via statutaria.

 

 

 

2. La previsione di clausole di mero gradimento

Definito il nuovo ambito di rilevanza del diritto di recesso, è necessario spostare il campo di indagine sulle clausole di gradimento. In termini assolutamente generali, si può affermare che le clausole di gradimento sono di due tipi:

 

a) le clausole c.d. rigide,

che individuano determinati requisiti di carattere oggettivo che l’acquirente delle azioni deve possedere; in tal caso, il placet sull’ingresso del nuovo socio risulta esclusivamente subordinato alla sussistenza di tali requisiti, non residuando in capo ai soci alcun margine di discrezionalità nel giudizio;

b) le clausole c.d. di mero gradimento,

che subordinano l’ingresso in società di un nuovo socio al consenso di un organo sociale (generalmente l’organo amministrativo, più raramente l’assemblea) di uno o più soci espressamente individuati3.

 

Nell’ipotesi sottoposta alla nostra indagine, lo Statuto della società pone senza alcuna ombra di dubbio una clausola del secondo tipo in quanto conferisce all’assemblea il potere di esprimere il gradimento del socio cessionario delle partecipazioni sociali senza vincolare lo stesso alla verifica della sussistenza di determinati parametri.

Le clausole di mero gradimento sono espressamente disciplinate dall’art. 2355-bis c.c. il quale pone, come condizione di efficacia, la previsione di un obbligo di acquisto a carico della società o degli altri soci o, in alternativa, il recesso dell’alienante dalla compagine sociale; fermo il divieto di acquisto di azioni proprie nei limiti positivamente indicati dall’art. 2357 c.c., la stessa norma rinvia alle modalità previste dall’art. 2437-ter c.c. in punto di determinazione del corrispettivo o della quota di liquidazione.

Da ciò deriva la necessità di dare una qualificazione giuridica, l’esito della quale ha immediate implicazioni sul quesito che ci occupa, al rinvio operato dall’art. 2355-bis: se cioè la portata di detto rinvio sia limitata ai tre parametri normativi della consistenza patrimoniale, delle capacità reddituali e dell’eventuale valore di mercato delle azioni o se, al contrario, in applicazione del IV comma dello stesso, sia consentita l’indicazione nello Statuto sociale di criteri diversi di determinazione della quota.

La questione, nella quale si riflette il contrasto difficilmente componibile tra liquidazione della quota sociale e continuità della società4, è oggetto di una ricostruzione da parte della maggioranza della dottrina volta, da un lato, a consentire la fissazione statutaria di criteri “in rettifica” a quelli legali nella determinazione del valore della quota e, dall’altro, a circoscriverne l’ambito.

Accanto a isolate interpretazioni della norma, secondo le quali il legislatore della riforma non ha avvertito l’esigenza di tutelare il socio recedente rispetto a talune disposizioni statutarie che, riducendo in modo sensibile il rimborso della quota, finiscono per incidere sulle stesse facoltà di exit dello stesso5, l’opinione prevalente riconosce che l’ampia autonomia statutaria possa essere utilizzata per includere nel calcolo del quantum debeatur taluni valori della società sprovvisti di adeguata rappresentazione nello stato patrimoniale ma che ciò sia consentito esclusivamente al fine di giungere ad una valutazione, almeno nelle intenzioni, realistica e mai penalizzante6.

Il rinvio dell’art. 2355-bis, dunque, ai criteri dell’art. 2437-ter si fonda su specifiche esigenze di tutela volte a garantire una valutazione equa – fair nel corrente linguaggio commercialistico- delle azioni.

Detta valorizzazione della posizione del socio recedente consente di fondare il principio secondo cui è legittima l’applicazione di criteri statutari solo se questi, introdotti per stabilire un valore “reale”, conducano ad una valutazione superiore a quella determinata in seguito ad applicazione dei criteri legali ex art.2437-ter c.c..

Queste conclusioni ricevono un’indiretta conferma dal procedimento di contestazione che il socio recedente può promuovere ai sensi del VI comma dell’art. 2437-ter: questo infatti non si pone come uno strumento di tutela del socio recedente nell’ipotesi di determinazione di un valore iniquo rispetto alle condizioni economiche generali della società, in quanto al terzo arbitratore è infatti preclusa la determinazione del valore della quota prescindendo dai criteri convenzionalmente fissati.

L’esperto nominato dal Tribunale infatti, non svolge in alcun caso un giudizio sui criteri, ma solo sulla loro corretta applicazione da parte degli amministratori.

La questione in esame impone, a questo punto, un’indagine ulteriore: si tratta di qualificare il regime di quelle clausole di gradimento “assistite” da criteri tali da portare ad un valore inferiore a quello risultante dall’applicazione dei parametri legali.

Le soluzioni astrattamente possibili sono due: da un lato, può farsi salva l’efficacia della clausola, ritenendosi comunque applicabili i criteri legali di valutazione delle azioni; dall’altro, concludersi, in virtù della determinazione di un valore non effettuata secondo i criteri stabiliti, per l’inefficacia di tale limitazione alla circolazione delle azioni.

Il necessario riferimento al principio di conservazione della pattuizione conduce a ritenere fondata la prima alternativa indicata, anche se è opportuno avvertire che detta questione, oltre a non essere del tutto pacifica in dottrina, risulta fortemente influenzata dalle circostanze concrete e dal tenore della singola clausola.

 

3. Conclusioni

Alla luce della presente indagine, gli elementi rilevanti ai fini dell’ammissibilità della clausola di gradimento in esame sono due: da un lato, l’ampia autonomia statutaria di indicare gli elementi dell’attivo e del passivo in rettifica rispetto ai valori risultanti dal bilancio, ex art. 2437-ter  c.IV; dall’altro, l’efficacia di tali rettifiche, finalizzate ad una valutazione aderente al reale della quota, esclusivamente in senso migliorativo delle condizioni patrimoniali di exit del socio.

Da ciò deriva, innanzitutto, che è del tutto legittima l’indicazione dello statutaria di criteri in rettifica rispetto a quelli legali di cui al comma II dell’art.2437-ter per la valutazione delle quote sociali in caso di mancato placet al trasferimento delle stesse; in secondo luogo, in virtù della propria finalità ispiratrice, come sopra delineata, la predetta facoltà è ammessa soltanto nelle ipotesi in cui si voglia consentire l’ingresso, nel sistema di valutazione della quota, a parametri che non solo difettano di specifica e compiuta rappresentazione nello stato patrimoniale, ma che siano tali da incidere in senso favorevole per il socio recedente sulla valutazione della liquidazione stessa.

 

Leggi anche: Recesso del socio: riflessi fiscali

 

a cura Dott. Pierluigi Maienza

 

 

NOTE

1 M. Venturuzzo, I criteri di valutazione delle azioni in caso di recedo del socio, in Riv. Soc., 2005, p.309

2 F. Chiappetta, Nuova disciplina del recesso di società di capitali: profili interpretativi e applicativi, in Riv. Soc., 2005, p. 487

3 G. Capozzi, Le società di capitali, le società cooperative e le mutue assicuratrici, Giuffré, 2005, p. 449

4 così le Relazione al D. Lgs. N.6/2003, § 9

5 S. Carmignani, Art. 2437-ter, in La riforma delle società, Giappichelli, Torino, 2003, p.891

6 tra gli altri, Stella Richter, Diritto di recesso e autonomia statutaria, in Studi e materiali, 2004, 1 –supplemento, p.

 

Bibliografia essenziale

S. Carmignani, Art. 2437-ter, in La riforma delle società, Giappichelli, Torino, 2003, p.891
Stella Richter, Diritto di recesso e autonomia statutaria, in Studi e materiali, 2004, 1 – supplemento, p. 214
M. Callegari, Art. 2437-ter, in Il Nuovo Diritto Societario, Zanichelli, Bologna, 2004, 223
F. Chiappetta, Nuova disciplina del recesso di società di capitali: profili interpretativi e applicativi, in Riv. Soc., 2005, p. 487
G. Capozzi, Le società di capitali, le società cooperative e le mutue assicuratrici, Giuffré, 2005, p. 449
M. Venturuzzo, I criteri di valutazione delle azioni in caso di recedo del socio, in Riv. Soc., 2005, p.309
P. Iovenitti, Il nuovo diritto di recesso: aspetti valutativi, in Riv. Soc., 2005, p. 463
V. Siscaro, Nuovo ordinamento societario e recesso da società non quotata: determinazione del rimborso delle azioni tra logica corporativa ed istanze contrattualistiche, in Vita Not., 2004, 1, p. 562

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