Il trasferimento del lavoratore subordinato implica uno spostamento permanente del dipendente da una sede all’altra e differisce dalla trasferta che è solo temporanea. Ma cosa accade se il dipendente si oppone al trasferimento? Le conseguenze possono essere diverse e dipendono dalla legittimità della richiesta. Esaminiamo i diritti e doveri di entrambe le parti e condizioni, limiti e rischi legati al rifiuto.
Il trasferimento consiste in uno spostamento permanente del dipendente da una sede lavorativa a un’altra. Esso si differenzia dalla trasferta, ossia uno spostamento temporaneo del lavoratore in un luogo diverso dalla sede abituale per svolgere un’attività lavorativa specifica (la cd. missione).
Che succede se un dipendente si oppone alla decisione del trasferimento? Questa è una domanda ricorrente tra i datori di lavoro e perciò, nel corso di questo articolo, vedremo insieme quali sono le conseguenze – in caso di rifiuto da parte del lavoratore – e scopriremo che gli esiti possono essere anche molto diversi. Ecco perché.
Quando viene disposto il trasferimento? Le condizioni per la sua validità
Sulla scorta dell’art. 2103 del Codice Civile, il trasferimento del lavoratore è deciso per ragioni tecniche, organizzative o produttive che impongono una modifica strutturale del posto di lavoro. La legge però non offre il dettaglio di queste ragioni. In tali circostanze il dipendente riceverà la cd. lettera di trasferimento.
Il cambio di luogo di lavoro dovrà sempre essere giustificato da ragioni solide, chiare e comprovate, che siano alla base di una scelta che, comunque, andrà a impattare sulle abitudini e la routine quotidiana del dipendente interessato (tempo dedicato alla famiglia, hobby, passatempi ecc.).
Il caso più classico lineare di trasferimento è quello della chiusura di una delle sedi aziendali e del consequenziale trasferimento dei dipendenti inseriti nella stessa. In altri casi, pur in mancanza di una chiusura totale della sede, il datore di lavoro ha la necessità organizzativa di spostare altrove uno o più dipendenti.
Alla luce di ciò, la legittima modifica della sede di lavoro potrà aversi soltanto se l’azienda è in grado di dimostrare le ragioni che l’hanno resa necessaria. Mentre se l’organizzazione aziendale permette alternative meno invasive, la legge imporrà all’azienda di optare per la soluzione meno penalizzante per il personale.
Su questi temi una copiosa giurisprudenza ha offerto nel tempo varie indicazioni utili a stabilire il perimetro di applicazione del trasferimento. Ad es. il lavoratore non potrà essere spostato con l’assegnazione a mansioni incompatibili con quelle a cui può essere assegnato. Invece è legittimo il trasferimento compiuto nell’interesse del dipendente, allo scopo di evitargli la perdita dell’occupazione in azienda.
Non solo. Il trasferimento è considerato valido se si compie da un’unità produttiva all’altra – nell’ambito della stessa azienda. Così dispone infatti il suddetto art. 2103 Codice Civile in tema di prestazione di lavoro.
Un esempio pratico: il CCNL metalmeccanici
I singoli CCNL possono disporre altri e più specifici presupposti di legittimità del trasferimento di sede e, quindi, hanno libertà di dettagliare la disciplina in materia. Non di rado questi testi impongono al datore di lavoro di versare indennità economiche al lavoratore trasferito, per sostenere le spese legate allo spostamento definitivo in un’altra località.
Per esempio, in uno dei contratti collettivi più noti, quello applicato al settore della metalmeccanica, oltre all’obbligo di preavviso di trasferimento non inferiore ai venti giorni, si dispone che:
“I lavoratori di età superiore ai 52 anni se uomini e 48 se donne, potranno essere trasferiti in altra sede solo in casi eccezionali da esaminare, a richiesta del lavoratore, in sede sindacale. In caso di altri trasferimenti individuali dovrà tenersi conto delle obiettive e comprovate ragioni che il lavoratore dovesse addurre contro il trasferimento”
e che:
“La presente disciplina non si applica ai trasferimenti che vengono disposti nell’ambito di un raggio di 25 km dalla sede, dallo stabilimento, dal laboratorio o cantiere per il quale sono stati assunti o nel quale fossero stati effettivamente trasferiti”.
Trasferimento senza i presupposti di legge: come opporsi e quali conseguenze
Il trasferimento senza i requisiti sopra visti è nullo e impone all’azienda di ripristinare la situazione anteriore, con diritto del dipendente a continuare a svolgere le mansioni per cui è stato assunto e a essere stipendiato. Ovviamente solo in questo caso il rifiuto del trasferimento è giustificabile.
Per legge il dipendente che contesta la decisione e che, quindi, desidera impugnare l’atto di trasferimento dovrà farlo – a pena di decadenza – entro 60 giorni dalla ricezione della comunicazione dello spostamento definitivo di sede.
Chiaramente se il lavoratore rifiuta un trasferimento legittimo, potranno esserci fondate conseguenze disciplinari. Ma se il trasferimento è ingiustificato o viola diritti del dipendente, questi potrà contestarlo con successo.
La domanda sorge spontanea: se il lavoratore ritiene che lo spostamento sia illegittimo, è possibile rifiutarsi di prendere servizio nella nuova sede oppure bisogna comunque trasferirsi per poi dare spazio all’iter in tribunale?
Ebbene la giurisprudenza si è pronunciata molte volte a riguardo, affermando – in linea generale – che il lavoratore non possa rifiutarsi di essere trasferito, ma deve piuttosto limitarsi a impugnare il provvedimento presso il giudice del lavoro. Senza dimenticare di comunicare quanto prima l’opposizione al trasferimento al proprio datore di lavoro.
In altre parole, il lavoratore dovrebbe dare seguito al trasferimento e impugnarlo, per avere poi una sentenza del magistrato che ne dichiari l’illegittimità e che condanni il datore di lavoro a ripristinare l’anteriore sede di lavoro.
D’altronde da parte sua il dipendente non può dare per scontato che il trasferimento sia davvero illegittimo, in quanto sarà esclusivamente il giudice del lavoro ad accertarlo eventualmente. Anzi il rifiuto tout court del trasferimento esporrà il lavoratore alla sanzione disciplinare del licenziamento per assenza ingiustificata e quindi per giusta causa.
Rifiuto del trasferimento, buona fede e rischi di grave pregiudizio al lavoratore
La legge sottolinea che la facoltà di rifiutare lo svolgimento di una prestazione – in ipotesi di inadempimento della controparte – ricorre soltanto se il rifiuto non è contrario alla buona fede. Nel caso del trasferimento, sulla scorta di una decisione della Cassazione del 2018, la legittimità del rifiuto ricorre in particolare solo se la modifica della sede di lavoro può comportare un grave pregiudizio al dipendente stesso e ai suoi diritti (e non, allo stesso tempo, un serio pregiudizio all’azienda o datore di lavoro).
Si tratta ad es. del caso del lavoratore portatore di handicap che beneficia della legge 104 o che deve assistere un familiare invalido o della situazione del lavoratore che, con il trasferimento, rischierebbe in qualche modo la propria incolumità fisica.
In queste circostanze, egli potrà perciò rifiutarsi di lavorare nella nuova sede ma dovrà, al contempo, rendersi disponibile a lavorare nella sede originaria. Per questa via la sua assenza non potrà così essere considerata “ingiustificata” e alla base di un eventuale licenziamento in tronco.
Tuttavia, il datore di lavoro potrebbe comunque licenziare il lavoratore per insubordinazione e, quindi, per non aver adempiuto agli ordini. In tali circostanze, qualora il giudice valuti illegittimo il recesso per mancanza delle ragioni, la giurisprudenza ritiene che la reintegrazione nel posto di lavoro sia una misura di tutela attuabile se, in corso di causa, è emersa evidente l’infondatezza della scelta datoriale.
Ricapitolando, in assenza delle gravi motivazioni di cui sopra il lavoratore dovrà ritenersi vincolato al rispetto dell’ordine di servizio, pur potendo impugnare la decisione aziendale in tribunale, attendendo la sentenza che lo revochi e pazientando quindi nella sua nuova sede di lavoro.
Considerazioni finali
I contenziosi in materia di trasferimento sono tra i più frequenti e, proprio per questo, i chiarimenti della giurisprudenza sono numerosi. Ad esempio, i giudici hanno statuito che il controllo giurisdizionale delle ragioni che fondano il trasferimento del dipendente:
- deve essere mirato ad accertare che vi sia corrispondenza tra il provvedimento dell’azienda e gli scopi tipici dell’impresa;
- non può essere esteso fino a includere il merito della scelta datoriale, trovando anzi un preciso limite nel principio di libertà dell’iniziativa economica privata, di cui all’art. 41 della Costituzione.
Infine, sull’azienda non grava alcun onere di provare il carattere inevitabile del trasferimento riguardo all’inutilizzabilità del lavoratore nell’unità produttiva originaria, ma basterà riscontrare la fondatezza delle ragioni alla base del provvedimento.
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Claudio Garau
Mercoledì 18 settembre 2024