E’ onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indeducibili e la sua mancanza di consapevolezza di partecipare ad un’operazione fraudolenta, non essendo sufficiente, a tal fine, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta di dati e circostanze facilmente falsificabili
Onere della prova
Con la sentenza n. 13924 del 31 maggio 2018, la Corte di Cassazione ha confermato che, “qualora l’Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture ai fini Iva e di imposte dirette, in quanto relative ad operazioni inesistenti, spetta all’Ufficio fornire la prova che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, non è mai stata posta in essere, ovvero non è stata posta in essere tra i soggetti indicati nella fattura, indicando gli elementi anche indiziari sui quali si fonda la contestazione anche in merito alla conoscenza ovvero alla conoscibilità della fittizietà delle operazioni da parte del cessionario/committente che richiede la detrazione, mentre è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indeducibili e la sua mancanza di consapevolezza di partecipare ad un’operazione fraudolenta, non essendo sufficiente, a tal fine, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta di dati e circostanze facilmente falsificabili (cfr. Cass. sentt. n. 967/2016; n. 428/2015; n. 28683/2015; n. 12802/2011). Sul punto la Corte europea ha più volte ribadito che se — tenuto conto di evasioni o irregolarità commesse dall’emittente della fattura o, comunque, a monte dell’operazione dedotta a fondamento del diritto alla detrazione — tale operazione è considerata come non effettivamente realizzata, l’Amministrazione finanziaria deve dimostrare, alla luce di elementi oggettivi ed alla stregua dei principi sull’onere della prova vigenti nello Stato membro, senza, peraltro, esigere dal destinatario della fattura verifiche (circa la qualità di soggetto passivo IVA in capo al fatturante o la disponibilità dei beni di cui trattasi) alle quali non è tenuto, che tale destinatario sapeva o avrebbe dovuto sapere che detta operazione si inseriva nel quadro di un’evasione dell’imposta sul valore aggiunto”.
Tuttavia, “non può revocarsi in dubbio che l’Amministrazione possa fornire tale prova anche mediante presunzioni, come espressamente prevede, per l’IVA, l’art. 54, comma 2, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (analoga previsione è contenuta, per le imposte dirette, nell’art. 39, comma 1, lett. d), d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917: cfr. Cass. 21953/07; Cass. n. 9108/12; n. 15741/12, in motivazione; n. 23560/12; n. 27718/13; n. 20059/2014; nello stesso senso Corte giustizia 06/07/2006, C-439/04; Id. 21/02/2006, C- 255/02; Id. 21/06/2012, C-80/11; Id. 06/12/2012, C-285/11; Id. 31/01/2013, C-642/11). In tal caso, sarà — di conseguenza — il contribuente a dover provare, in applicazione di principi ordinari sull’onere della prova vigenti nel nostro ordinamento (art. 2697 c.c.), di non essere a conoscenza del fatto che il fornitore effettivo del bene o della prestazione era, non il fatturante, ma altri. (Cass. n. 6229 del 2013)”.
Il giudice tributario di merito, investito della controversia avente ad oggetto l’atto impositivo, “deve previamente valutare la sussistenza dei caratteri di gravità, precisione e concordanza degli indizi m