Gli effetti del giudicato penale nel processo tributario

il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza definitiva in materia di reati tributari, estendendone automaticamente gli effetti con riguardo all’azione accertatrice del singolo ufficio tributario, ma, nell’esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti, deve, in ogni caso, procedere ad un suo apprezzamento del contenuto della decisione, ponendolo a confronto con gli altri elementi di prova acquisiti nel giudizio

giudicato penaleLa Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 21873 del 28.10.2016, ha chiarito quali sono gli effetti del giudicato penale nel processo tributario.

Nel caso di specie l’Agenzia delle Entrate aveva notificato un avviso di accertamento ad una società, rettificando la dichiarazione relativa all’anno di imposta 2003, e formulando 17 rilievi oltre alla corretta applicazione dell’IVA del margine su importazioni di veicoli.

Il ricorso avanzato dalla società era stato accolto parzialmente dalla Commissione Tributaria Provinciale, la quale aveva annullato alcuni dei rilievi oggetto di contestazione.

Adita in sede di appello dalla contribuente e di appello incidentale dall’Agenzia, la Commissione Tributaria Regionale aveva accolto parzialmente l’impugnazione della società, rigettando invece quello dell’ufficio e dichiarando non rilevante l’esame delle questioni in tema di IVA del margine in relazione al commercio di veicoli usati.

Avverso la decisione di appello l’Agenzia delle Entrate proponeva infine ricorso per cassazione, denunciando, tra le altre, violazione e falsa applicazione da parte della sentenza impugnata dell’art. 654 c.p.p..

Sosteneva infatti l’Amministrazione che la sentenza impugnata, condividendo le argomentazioni di altra sentenza di tribunale penale concernente il legale rappresentante, aveva ritenuto che anche nel processo tributario non fosse stata raggiunta la prova per ritenere le società coinvolte quali “cartiere” emittenti fatture per operazioni inesistenti di compravendite di autoveicoli, il riconoscimento dei cui costi e relativa IVA l’avviso di accertamento aveva negato.

In tal modo, però, secondo l’Agenzia, la CTR si era posta in contrasto con l’interpretazione corretta dell’art. 654 c.p.p. cit., secondo cui il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza assolutoria in materia di reati fiscali, ma deve procedere a un suo apprezzamento del contenuto della decisione, ponendolo a confronto con gli altri elementi di prova acquisiti.

La sentenza impugnata non aveva invece tenuto conto delle ampie argomentazioni offerte dall’ufficio in sede di appello incidentale, e non aveva spiegato le ragioni per le quali sarebbe stata condivisibile la sentenza del tribunale penale.

I motivi di ricorso, secondo la Suprema Corte, erano fondati, dovendosi richiamare il principio di diritto per cui l’efficacia vincolante del giudicato penale non opera nel processo tributario, poiché in questo, da un lato, vigono limiti in materia di prova posti dall’art. 7, c. 4, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e dall’altro trovano ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sé inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna.

Pertanto, il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza definitiva in materia di reati tributari, estendendone automaticamente gli effetti con riguardo all’azione accertatrice del singolo ufficio tributario, ma, nell’esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 c.p.c.), deve, in ogni caso, procedere ad un suo apprezzamento del contenuto della decisione, ponendolo a confronto con gli altri elementi di prova acquisiti nel giudizio.

Ed è dunque configurabile la responsabilità fiscale qualora l’atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti magari per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario.

Del resto, basti pensare che anche in caso di dichiarazione di non luogo a procedere da parte del GIP perché il fatto non sussiste, la sentenza ha natura processuale e non di merito e non è finalizzata ad accertare se l’imputato è colpevole o innocente.

Le sentenze di assoluzione nei processi penali non possono dunque avere rilievo automatico (neppure dopo il loro passaggio in giudicato) nel giudizio tributario, sotto vari profili.

In primis perché, il parametro di valutazione del giudice non è a ben vedere l’innocenza dell’imputato, ma l’impossibilità di sostenere l’accusa in giudizio per insufficienza di elementi in grado di sostenere in dibattimento l’accusa (penale).

Anche laddove il procedimento penale e quello tributario attengano alla medesima fattispecie, peraltro, gli stessi fatti sono destinati intuitivamente ad assumere connotati differenti nei diversi ambiti, penale ed amministrativo, attesi i differenti principi posti a presidio dell’elemento psicologico nei richiamati contesti.

Ed è su questo specifico aspetto che non bisogna fare confusione.

La responsabilità penale, infatti, quantomeno per ciò che attiene alla categoria dei delitti, cui appartengono tutte le fattispecie di cui al D.Lgs. n. 74/2000, è strettamente connessa alla coscienza e volontà dolosa dell’evento, fatte salve espresse eccezioni che possono risultare punite anche per effetto della negligenza, imprudenza ed imperizia, ossia per colpa.

La principale conseguenza che si viene a determinare in un simile scenario riguarda, appunto, l’onere della prova in ordine all’elemento soggettivo dell’agente, non potendo ipotizzarsi, in sede penale, un’inversione di tale onere.

Secondo quanto previsto dall’art. 1, c.a 1, lett. f, dello stesso D.Lgs. n. 74/2000, risulterà, pertanto, in quel caso compito della pubblica accusa effettuare una compiuta ricostruzione probatoria sia delle varie fasi della condotta, che, con riferimento alla consapevolezza dell’antigiuridicità della stessa condotta, della volontà di ottenere l’evasione delle proprie imposte.

Scenari assai differenti si prospettano invece per ciò che attiene all’ambito strettamente amministrativo di applicazione delle norme sanzionatorie tributarie, dove, in base all’art. 5, c. 1, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 “Nelle violazioni punite con sanzioni amministrative ciascuno risponde della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa”.

La previsione di sanzioni esclusivamente pecuniarie ha consentito infatti al legislatore di abbassare la soglia di “certezza” oltre la quale si perfeziona la punibilità del contribuente.

Guardandosi pertanto non alla certezza dell’evento contestato, ma anche solo alla probabilità o verosimiglianza, si potranno dunque prevedere anche forme indirette o presuntive di responsabilità.

Tutto ciò si traduce, processualmente, in una diversa ripartizione dell’onere della prova nell’ambito dei due tipi di procedimenti.

Laddove dunque, in ordine alla responsabilità penale, personale, dell’imputato, tale onere della prova incomberà sempre sul pubblico ministero (pensiamo per esempio alla fattispecie di operazioni inesistenti), nel giudizio tributario (pensiamo sempre allo stesso esempio, in termini però di deducibilità dei relativi costi) l’onere della prova incomberà invece sul contribuente.

Lo scenario è quindi del tutto diverso.

In tale contesto, la sentenza della Corte di Cassazione, n. 2938, del 13.02.2015, aveva già del resto affermato che i giudici di merito non violano il principio della libera valutazione del giudicato penale laddove ritengano che una sentenza penale non può far stato nel giudizio tributario, costituendo la decisione penale un semplice elemento di prova.

Per quanto riguarda poi la disciplina dei rapporti tra il procedimento penale e quello amministrativo (artt. 20 e 21), risulta confermato, come detto, il principio della completa autonomia reciproca delle due sfere di azione (cosiddetto “doppio binario”), escludendo qualsiasi pregiudizialità o vincolo sospensivo tra i diversi contesti.

Ne consegue che, sia l’attività di accertamento degli Uffici finanziari, sia i processi avanti alle Commissioni tributarie si svilupperanno in parallelo e indipendentemente dal processo penale vertente sui medesimi fatti ed a prescindere dalle vicende relative all’altro, ciascuno, appunto, sul proprio binario (articolo 20 decreto 74/2000).

E queste considerazioni valgono del resto anche dal lato opposto.

La Suprema Corte, la n. 6823 del 17.2.2015 della III Sez. penale, a conferma dell’effettiva indipendenza dei due giudizi, ha infatti stabilito che, in caso di accertamenti presuntivi, non vi possono essere conseguenze penali.

Le presunzioni e i criteri di valutazione induttivi, usati ai fini fiscali, non possono infatti valere, dice la Corte, ai fini della contestazione del reato.

Nel caso di specie al contribuente era stata contestata un’evasione di oltre un milione di euro, ben al di sopra delle soglie di punibilità.

Il medesimo contribuente, condannato sia in primo che in secondo grado, ricorreva allora in Cassazione, sostenendo che l’imposta era stata quantificata, in sede tributaria, solo in via presuntiva, con la conseguenza che il giudice penale aveva omesso di accertare l’effettivo superamento della soglia di punibilità, ponendo anzi a carico del contribuente l’onere della prova contraria.

La Suprema Corte, accogliendo il ricorso, ha dunque ritenuto che il giudice penale non avesse in effetti verificato, con specifiche indagini, la sussistenza della violazione, laddove solo a questi spetta il compito di procedere all’accertamento dell’imposta evasa, attraverso una verifica che può anche contraddire quella svolta ai fini tributari, non potendo, peraltro, in sede penale, applicarsi le presunzioni legali, o i criteri di valutazione validi ai fini fiscali.

Insomma, due processi davvero indipendenti l’uno dall’altro.

 

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15 novembre 2017

Giovambattista Palumbo