A proposito di notifica via PEC: alcune note dalla Cassazione

segnaliamo un’interessante e recente sentenza della Cassazione sulla notifica via PEC: il complesso caso vede una notifica non andata a buon fine e ripetuta sempre via PEC pochi giorni dopo, ma oltre i termini prescritti dal codice di procedura civile…

La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 20381 del 24.8.2017, accogliendo il ricorso dell’Amministrazione Finanziaria, ha affermato rilevanti considerazioni in materia di notifica via PEC.

Nel caso di specie la Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia-Romagna, confermava la decisione di primo grado, che aveva accolto il ricorso della contribuente, rilevando l’inammissibilità dell’appello per difetto di motivi specifici, essendo l’atto riproduttivo delle medesime considerazioni svolte in sede di controdeduzioni nel giudizio di primo grado, senza censure specifiche sulla sentenza impugnata.

Prima di esaminare l’eccezione per violazione dell’art. 53 del D.lgs. 546/1992 sollevata dall’Agenzia ricorrente, la Suprema Corte ha dichiarato non fondata l’eccezione, sollevata dalla controricorrente, di inammissibilità del gravame per tardività, ex art.327 c.p.c..

Evidenziano i giudici di legittimità che, a fronte di una sentenza pubblicata, nell’ambito di un giudizio instaurato successivamente all’entrata in vigore della novella di cui alla L.69/2009, il 12/02/2016 e non notificata, il termine di impugnazione era di sei mesi, oltre sospensione feriale di un mese, come ridotta dall’art.16 del Dl. 132/2014, conv. con modifiche dalla L.162/2014. E nel caso di specie la notifica era effettivamente successiva al 12/09/2016.

Sulla base di quanto dedotto e documentato dalle parti risultava però che l’Agenzia delle Entrate aveva effettuato una prima notifica, a mezzo PEC, in data 10/09/2016 (entro dunque il termine di legge per impugnare), che, malgrado la “ricevuta di avvenuta consegna“, era stata effettuata, a causa di disfunzioni verificatesi sul server (come da documentazione allegata dalla ricorrente), in forma incompleta, in quanto il file allegato, contenente il ricorso per cassazione, era “non leggibile” (come riconosciuto da entrambe le parti).

La ricorrente Agenzia aveva quindi effettuato una seconda notifica, sempre a mezzo PEC, il successivo 15/09/2016, questa del tutto regolare e completa.

Vi era stata dunque una doppia notifica e la prima, tempestiva, doveva ritenersi “meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa” (cfr. Cass. SS.UU. n. 14916/2016).

La ricorrente, appreso l’esito negativo della notifica del ricorso, per causa ad essa non imputabile, in quanto dipendente da disfunzione del sistema generale di notifica degli atti a mezzo PEC utilizzato dall’Avvocatura Generale dello Stato, si era peraltro immediatamente attivata senza attendere un provvedimento giudiziale che autorizzasse la rinnovazione, riprendendo il procedimento notificatorio e completandolo, a distanza di pochi giorni della prima tentata notifica, entro il tempo pari alla metà dei termini di cui all’art.325 c.p.c., fissato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 14594/2016, così conservando gli effetti collegati ella notifica originaria.

Secondo la Suprema Corte tale procedimento era legittimo.

Come infatti evidenziato nella citata sentenza delle Sezioni Unite, nel caso in cui la notificazione di un atto processuale da compiere entro un termine perentorio non si concluda positivamente per circostanze non imputabili al richiedente, quest’ultimo, ove se ne presenti la possibilità, ha la facoltà e l’onere di richiedere la ripresa del procedimento notificatorio, e la conseguente notificazione, ai fini del rispetto del termine, avrà effetto fin dalla data della iniziale attivazione del procedimento, sempreché la ripresa del medesimo sia intervenuta entro un tempo ragionevolmente contenuto, tenuti anche presenti i tempi necessari secondo la comune diligenza per venire a conoscenza dell’esito negativo della notificazione e per assumere le informazioni ulteriori conseguentemente necessarie.

Questa continuità, però, sussiste solo in presenza di alcune condizioni.

La prima riguarda l’iniziativa. È la parte istante che, preso atto della non riuscita della notifica a causa della modifica del domicilio, deve attivarsi, in piena autonomia, per individuare il nuovo domicilio e completare il processo notificatorio.

La ripresa del processo notificatorio è dunque rimessa alla parte istante, dovendo escludersi la possibilità di chiedere una preventiva autorizzazione del giudice, vuoi perché questa subprocedura allungherebbe ulteriormente i tempi processuali, vuoi perché non sarebbe “neanche utile al fine di avere una previa valutazione certa circa la sussistenza delle condizioni per la ripresa del procedimento di notificazione, in quanto si tratterebbe solo di una valutazione preliminare effettuata non in sede decisoria e per di più in assenza del contraddittorio con la controparte interessata” (Cass. SS.UU., 17352/2009; Cass., 11 settembre 2013, n. 20830 e Cass., 25 settembre 2015, n. 19060).

L’attività della parte interessata a completare la notificazione deve essere quindi attivata con “immediatezza“, appena appresa la notizia dell’esito negativo della notificazione e deve svolgersi con “tempestività” (ancora SS.UU. n. 17352/2009, cit.).

Più in generale, può affermarsi che, fermo l’onere dell’istante di provare il rispetto dei su indicati criteri, dal sistema sia anche desumibile un limite massimo del tempo necessario per riprendere e completare il processo notificatorio relativo alle impugnazioni, una volta avuta notizia dell’esito negativo della prima richiesta, laddove tale termine può essere fissato in misura pari alla metà del tempo indicato per ciascun tipo di atto di impugnazione dall’art. 325 c.p.c..

Infatti, se questi termini sono ritenuti congrui dal legislatore per svolgere un ben più complesso e impegnativo insieme di attività necessario per concepire, redigere e notificare un atto di impugnazione a decorrere dal momento in cui si è stato pubblicato il provvedimento da impugnare, può ragionevolmente desumersi che lo spazio temporale relativo alla soluzione dei soli problemi derivanti da difficoltà nella notifica, non possa andare oltre la metà degli stessi, salvo una rigorosa prova in senso contrario, laddove il citato articolo 325 stabilisce che “il termine per proporre l’appello, la revocazione e l’opposizione di terzo di cui all’articolo 404, secondo comma, è di trenta giorni. E’ anche di trenta giorni il termine per proporre la revocazione e l’opposizione di terzo sopra menzionata contro le sentenze delle corti di appello. Il termine per proporre il ricorso per cassazione è di giorni sessanta”.

Tanto premesso in ordine alla questione della tempestività della notifica, il ricorso inoltre era anche fondato, dato che la mancanza o l’assoluta incertezza dei motivi specifici dell’impugnazione che determinano l’inammissibilità ricorso in appello, non sono ravvisabili qualora l’atto di appello, benché formulato in modo sintetico, contenga una motivazione e questa non possa ritenersi “assolutamente” incerta, essendo interpretabile, anche alla luce delle conclusioni formulate, in modo non equivoco (Cass. n. 6473/2002), laddove gli elementi idonei a rendere “specifici” i motivi d’appello possono essere ricavati, anche per implicito, purché in maniera univoca, dall’intero atto di impugnazione considerato nel suo complesso, comprese le premesse in fatto, la parte espositiva e le conclusioni (Cass. 1224/2007).

E del resto come ribadito dalla stessa Corte (Cass. n. 14908/2014), nel processo tributario, anche “la riproposizione in appello delle stesse argomentazioni poste a sostegno della domanda disattesa dal giudice di primo grado – in quanto ritenute giuste e idonee al conseguimento della pretesa fatta valere – assolve l’onere di specificità dei motivi di impugnazione imposto dall’art. 53 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, ben potendo il dissenso della parte soccombente investire la decisione impugnata nella sua interezza“.

11 settembre 2017

Giovambattista Palumbo