La responsabilità del cessionario che riceve dal cedente una fattura non corretta

il controllo sull’eventuale irregolarità della fattura richiesto al cessionario è limitato alla regolarità formale della fattura, e, dunque, solo alla verifica dei requisiti essenziali previsti dalla legge

Il controllo sulla irregolarità della fattura richiesto al cessionario è limitato alla regolarità formale della fattura, e, dunque, alla verifica dei requisiti essenziali individuati dall’art. 21 del d.p.r. 633/72. L’inclusione, fra i compiti del cessionario o committente di un apprezzamento critico su quanto l’emittente di una fattura completa dichiari, in ordine alla individuazione della base imponibile e dell’aliquota applicabile, trasformerebbe infatti l’obbligato in rivalsa in un collaboratore con supplenza di funzioni di esclusiva pertinenza dell’ufficio finanziario, introducendo una sorta di accertamento privato in rettifica della dichiarazione del debitore d’imposta.

Così la Corte di Cassazione con la sentenza n. 15303 del 21.07.2015, che ha deciso un procedimento relativo ad un atto di contestazione con cui l’Agenzia delle entrate elevava a carico del cessionario sanzione pecuniaria per l’omessa regolarizzazione di fatture di cessione, assumendo l’irregolarità del metodo di rilevazione dell’imponibile e di applicazione dell’aliquota speciale del 4%.

I giudici di legittimità concordano dunque con la tesi del contribuente, ritenendo che l’obbligo di regolarizzazione riguarda soltanto i vizi evidenti, non potendosi estendere, invece, a casi in cui l’erronea fatturazione dipende da un’interpretazione del rapporto sottostante.

Né, sottolineano ancora i giudici, è esportabile in materia il diverso indirizzo sugli oneri di diligenza con riguardo all’applicabilità del regime del margine, giacché, essendo questo un regime speciale, implica un vaglio critico della sussistenza dei relativi presupposti, pienamente compatibile con la diligenza qualificata prevista dal 20 comma dell’art. 1176, del codice civile.

Le fatture ricevute dalla commissionaria italiana, di contro, se complete di tutti i dati prescritti, vanno qualificate, ai fini sanzionatori, come regolari.

Il contenzioso in tali casi è del resto spesso incentrato proprio sulla buone fede del cessionario italiano.

Ciò su cui dunque, in questa sede, preme appuntare l’attenzione è se, al fine di ottenere l’annullamento della pretesa erariale, sotto il profilo sanzionatorio, sia sufficiente per il cessionario italiano sostenere di essere in buona fede e di non potere (o comunque non volere, non essendoci tenuto) svolgere attività di verifica in ordine al sottostante rapporto giuridico, anche considerato che, come appunto ora ben evidenzia la Cassazione, tali ulteriori riscontri, di natura sostanzialmente accertativa, sono di esclusiva competenza dell’Amministrazione Finanziaria.

E’ chiaro del resto che una distorta o falsa rappresentazione della realtà desumibile da una fattura che indichi comunque tutti i dati richiesti dalla normativa, in presenza della buona fede del cessionario, giustifica la disapplicazione delle sanzioni, mancando appunto quell’elemento soggettivo necessario ai fini della responsabilità sanzionatoria.

Se è vero infatti chela responsabilità solidale in ambito tributario serve proprio ad alleggerire l’onere probatorio dell’Amministrazione nei meccanismi di frode complessi, è allora anche vero che se le circostanze di fatto (e tra queste anche la corretta formulazione della fattura) escludono che il cessionario potesse essere a conoscenza dell’attività fraudolenta della propria controparte, nessuna responsabilità potrà sorgere a suo carico.

Non si vede infatti come a quest’ultimo (il contribuente) possa accollarsi un onere di investigazione sul rapporto sottostante e dunque su documenti amministrativi e fiscali in possesso del cedente estero.

La circolare n. 180/E del 10 luglio 1998 emanata dal Ministero delle Finanze chiarisce del resto che l’errore sul fatto “si verifica quando il soggetto ritiene di tenere un comportamento diverso da quello vietato dalla norma sanzionatoria. Rispetto ad esso, e quindi alla falsa rappresentazione della realtà che interviene nel processo formativo dell’agente, l’art. 6, comma 1, esclude la responsabilità quando l’errore non è determinato da colpa. Il fattore discriminante è quindi costituito dalla causa dell’errore medesimo. Se esso dipende da imprudenza, negligenza o imperizia, non rileva ai fini dell’esclusione della responsabilità, ma se il trasgressore ha osservato la normale diligenza nella ricostruzione della realtà, l’errore in cui è incorso esclude la colpa richiesta dal precedente art. 5“.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9736 del 13 maggio 2015, in linea con la sentenza appena emessa, ha peraltro anche evidenziato che solo per il regime del margine colui il quale intenda avvalersi dello speciale regime ha l’obbligo di accertarsi della sussistenza dei presupposti di applicabilità di quel regime, tra i quali la circostanza che il cedente del bene non abbia potuto esercitare, nel suo Paese, alcuna rivalsa per l’imposta versata quando acquistò quel bene.

E tale accertamento non può limitarsi ad un mero controllo di regolarità formale delle fatture, ma deve estendersi al controllo della regolarità sostanziale dell’operazione, a condizione che esso sia possibile alla stregua dell’ordinaria diligenza esigibile dal cessionario.

Era quindi errata in quel caso la decisione di secondo grado, secondo la quale la società doveva soltanto prendere atto del riscontro sulle caratteristiche del bene consegnato e del tipo di fatturazione circa il regime IVA applicato dall’intermediario di vendita, potendo l’acquirente italiano utilizzare il regime del margine sull’IVA nelle successive operazioni di rivendita ai clienti finali, una volta riscontrato documentalmente, attraverso la data di immatricolazione e la percorrenza chilometrica, che trattavasi di autovetture usate, ed una volta verificato, attraverso l’annotazione in fattura, che si trattava di operazioni soggette al regime del margine.

Questa conclusione è però giustificata dal fatto che il regime del margine di utile, come ora anche ribadito dalla sentenza in commento, costituisce un regime impositivo speciale rispetto a quello ordinario, sicché, ove la contestazione dell’Amministrazione trovi fondamento in elementi oggettivi che privino di attendibilità le indicazioni contenute nella fattura, il cessionario è gravato dell’onere di provare la sussistenza dei presupposti di fatto che ne giustificano l’applicazione, conformemente al principio di vicinanza al fatto oggetto di prova ed al sistema del diritto comunitario.

Fuori però dal regime speciale il rischio, paventato dalla stessa Corte, sarebbe quello di addivenire a forme di responsabilità oggettiva, lesive dei principi costituzionali di difesa e di personalità della responsabilità.

La pronuncia in esame si riconnette del resto all’insegnamento della giurisprudenza comunitaria (cfr. Corte di Giustizia del 27 settembre 2007 causa C-409/04, Teleos) che esclude, a ruoli invertiti, la possibilità di recupero IVA a carico del cedente di buona fede nei casi in cui, da successivi accertamenti, emerga l’insussistenza dei presupposti per l’applicazione del regime non imponibilità delle cessioni intracomunitarie.

Sul profilo probatorio interessante è poi la sentenza della Cassazione n. 8132/11, secondo la quale:

Sul piano processuale, poi, il soggetto, sul quale grava l’onere di conoscere, in tanto si sottrae alla conseguenza dell’inadempimento del suo vincolo, in quanto dimostri almeno uno di questi due fatti:

a) di non essersi trovato nella situazione giuridica oggettiva di conoscibilità dell’oggetto della conoscenza da acquisire;

b) che, nonostante il possesso della capacità cognitiva adeguata all’attività professionale svolta in occasione dell’operazione contestata e nonostante la sua esplicazione volta ad adottare un comportamento cognitivo idoneo, egli non è stato in grado di abbandonare lo stato di ignoranza del carattere fraudolento delle operazioni degli altri soggetti collegati all’operazione. Si tratta di accertamenti di fatto articolati e complessi, che è compito del giudice di merito effettuare valutando le prove fornite dal contribuente”.

Un’impostazione sanzionatoria meramente formalistica non è dunque possibile.

Il controllo sulla irregolarità della fattura richiesto al cessionario o al committente è dunque limitato ai dati relativi alla natura, qualità, quantità dei beni e dei servizi, all’ammontare del corrispettivo, all’aliquota ed all’ammontare dell’imposta e dell’imponibile, tutti elencati nella fattura oggetto di contestazione.

Una dilatazione delle incombenze a carico del cessionario fino ad estenderle alla possibile valutazione degli effetti giuridici del rapporto non sarebbe del resto coerente con il contestuale obbligo del soggetto tenuto alla regolarizzazione di pagare l’imposta non versata o versata in misura insufficiente.

Tale tesi porterebbe infatti ad esigere quel versamento prima che l’ufficio abbia controllato ed eventualmente rettificato l’imposta effettivamente dovuta, imponendo il soddisfacimento di un credito non ancora accertato.

 

6 novembre 2015

Giovambattista Palumbo