I limiti per la sostituzione dell’appello viziato: ci sono possibilità…

nel processo tributario è rimediabile, entro stretti limiti temporali ed oggettivi, la proposizione di un appello viziato: ecco le modalità per la sua sostituzione

 

E’ rimediabile, entro stretti limiti temporali e oggettivi, la proposizione di un appello viziato. Infatti, secondo quanto conferma l’ordinanza n. 10145 del 18 maggio 2015 della Suprema Corte, il principio di consumazione dell’impugnazione non impedisce che dopo la sua proposizione viziata possa esserne proposta una seconda che si dimostri comunque tempestiva rispetto al termine per proporre gravame, oltre ad essere immune dai vizi della precedente e destinata a sostituire la prima impugnazione sino a quando non sia intervenuta la declaratoria di inammissibilità.

 

Tale principio è, più precisamente, individuabile in questo passaggio, espresso nella motivazione della suindicata decisione, dai giudici di piazza Cavour: il principio di consumazione dell’impugnazione non esclude che, fino a quando non intervenga una declaratoria di inammissibilità, possa essere proposto un secondo atto di appello, immune dai vizi del precedente e destinato a sostituirlo, sempre che la seconda impugnazione risulti tempestiva, dovendo la tempestività valutarsi, anche in caso di mancata notificazione della sentenza, non in relazione al termine annuale, bensì in relazione al termine breve decorrente dalla data di proposizione della prima impugnazione, equivalendo essa alla conoscenza legale della sentenza da parte dell’impugnante” (Cass. n. 9569/2000). La proposizione della prima impugnazione equivale infatti alla conoscenza legale, con lo stesso grado di certezza formale, della sentenza da parte dell’impugnante (Cass. nn. 12238 5548, 1162 e 5548/1998;5573 e 1441/1997; 11176/1993).

 

Da un lato, si nota subito che viene così consentito un rimedio non di poco conto, stante il fatto che a nulla rileva la tipologia del vizio da cui è affetto il primo, sostituibile, atto di gravame poiché è del tutto ininfluente se si “rimuove”, con il secondo appello, un vizio strutturale o funzionale che affliggeva la precedente impugnazione. La fattispecie coinvolge il quadro normativo che emerge dalla norma ex art. 387 c.p.c. che (parallelamente alla previsione di cui all’art. 60 del D.Lgs. n. 546/1992 ed alla analoga norma per l’appello del processo civile, cioè all’art. 358 c.p.c.) codifica il principio della consumazione dell’impugnazione innanzi la Commissione tributaria regionale, in virtù del quale, solo una volta che è intervenuta una pronuncia di inammissibilità o di improcedibilità, il ricorso non può essere riproposto, anche se non è decorso il termine fissato dalla legge.

Da un altro lato, non può essere ignorata la circostanza che il rimedio della “sostituzione dell’appello viziato” è soggetta a limiti che l’appellante deve osservare con rigore. Il primo attiene all’aspetto della inderogabile tempestività che deve rivestire l’impugnazione “postuma”; i termini di legge di riferimento, secondo quanto confermato dalla stessa Corte di Cassazione nel richiamato arresto, vanno rinvenuti in un orientamento assolutamente dominante (Cass. n. 2055 del 2010, in Ced Cassazione, 2010; id. n. 9058 del 2010, ivi, 2010; id. n. 12898 del 2010) che parifica (a riguardo della realizzazione della conoscenza legale della sentenza) la notifica dell’atto di impugnazione alla notifica della sentenza oggetto dell’impugnazione medesima, secondo un sostanziale assioma che coinvolge sia il principio del cd. “effetto bilaterale” della notifica della sentenza, sia quello dell’equipollenza (ai fini della decorrenza del termine breve di impugnazione) tra la notifica della sentenza e la notifica dell’impugnazione proposta avverso di essa.

 

In termini più pratici, la sostituzione dell’atto di appello deve avvenire entro sessanta giorni dalla notificazione dell’appello viziato ma deve esser sottolineato, senza indugio, che esiste per la parte appellante una seconda barriera, di carattere oggettivo, riferibile al fatto che le stesse norme dianzi citate – pur consentendo alla parte interessata di rinnovare l’impugnazione che non sia stata (nel frattempo) coinvolta da declaratorie di inammissibiltà (circostanza, in vero, remota) – precludono una seconda impugnazione ad opera della medesima parte quando la prima impugnazione non risulta viziata.

Tale ultimo limite appare giustificato e ragionevole perché, se così non fosse, si aprirebbe la strada alla rappresentazione di motivi di appello potenzialmente mutevoli o comunque ad una attività impugnatoria reiterata o frazionata che metterebbe seriamente a repentaglio il pieno esercizio del diritto di difesa della controparte. Il descritto confine trova l’avallo della giurisprudenza (Cass. n. 11870 del 2007) e della dottrina maggioritaria, affermandosi in tal modo che, allorquando il diritto di impugnazione sia stato validamente esercitato, in base al principio di consumazione dell’impugnazione debba poi escludersi che possa essere proposto un secondo atto di appello, per motivi diversi da quelli dedotti con il primo gravame, ancorché la seconda impugnazione risulti tempestiva in relazione al termine breve decorrente dalla data di proposizione della prima, essendosi esaurito, con la proposizione del ricorso, il diritto di impugnazione.

La Corte di Cassazione, nella decisione n. 10145 del 2015, ha tenuto a rimarcare come i principi richiamati siano pacificamente applicabili anche al contenzioso tributario, secondo il conclamato insegnamento reso in sede di legittimità (Sez. 6-5, Ordinanza n. 11762 del 11/07/2012; Cass. n. 11994/2006), posto che la lettera del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 60, riproduce quella dell’omologo art. 358 c.p.c. (“l’appello dichiarato inammissibile...“), così come la norma di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 5 (“il termine è di sessanta giorni decorrente dalla sua notificazione…“) ha contenuto analogo a quella dell’art. 326 c.p.c. (“i termini … decorrono dalla notificazione della sentenza“).

 Allo stato, quindi, non ha trovato alcuna condivisione nella giurisprudenza tributaria un minoritario indirizzo apparso nel processo civile, secondo cui la sentenza, per effetto della sua mera impugnazione, non necessariamente diventa “legalmente conoscibile in tutti i punti dalla parte che subisce l’impugnazione, anche per le parti che non siano state impugnate” ed è pertanto inidonea a far decorrere il termine breve di impugnazione (Cass. n. 18184 del 2010) .

Per miglior ampiezza espositiva, va detto che (intorno le conclusioni che negano la descritta equipollenza tra notifica dell’impugnazione e notifica della sentenza) sono state rappresentate varie argomentazioni quali:

a) i contenuti letterali degli artt. 358 e 387 c.p.c. che fanno riferimento al “termine fissato dalla legge” senza introdurre alcuna deroga al disposto dell’art. 326, c. 1, c.p.c.;

b) il carattere assoluto ed inderogabile della norma dell’art. 326, c. 1, c.p.c., quanto alla identificazione della notificazione della sentenza come atto idoneo a far decorrere il termine breve per l’impugnazione, con conseguente preclusione della possibilità di far ricorso a situazioni equipollenti, ivi compresa la conoscenza aliunde che della sentenza medesima abbia avuto la parte o il suo procuratore;

c) la inutilizzabilità, in senso contrario, della disposizione contenuta nel 2° comma dell’art. 326 c.p.c., la quale, diretta ad assicurare la simultaneità del processo in fase di impugnazione, si riferisce alla impugnazione “valida”, e, comunque, ha una portata eccezionale, non invocabile come espressione di un principio generale.

10 settembre 2015

Antonino Russo