Canone RAI, la bufala dell'illegittimità

grazie anche ai social network l’inizio dell’anno è stato caratterizzato da una particolare attenzione al canone di abbonamento RAI tacciato di essere stato dichiarato “illegittimo” addirittura dalla Corte Europea sui diritti dell’Uomo; si è trattato della classica “bufala” mediatica (Fabrizio Stella & Antonio Federico)

Facciamo chiarezza esaminando cosa sostiene la Corte Europea, la giurisprudenza domestica e la normativa vigente

  1. Premessa.

Con il mese di gennaio puntuale arriva anche il pagamento del canone di abbonamento RAI, di importo non variato rispetto al 2013, pari a 113,50 Euro, quest’anno accompagnato da voci diffuse, anche tra gli organi di informazione, relative alla sua presunta illegittimità sancita a seguito di una decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

L’effetto valanga dei Social ha fatto poi il resto, una sorta di hoax esponenziale, le nostre domestiche “bufale”, che ha diffuso il post, segnalando anche un tentativo delle “Istituzioni” di celare la presunta notizia all’opinione pubblica.

Tant’è che finanche l’Agenzia delle Entrate, con un comunicato stampa dell’8 gennaio u.s. – Canone Rai: Falsa la notizia sulla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, è dovuta intervenire sulla questione:

È falsa e destituita di ogni fondamento la notizia diffusa nei giorni scorsi sulla presunta decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo riguardo l’illegittimità della riscossione del Canone radiotelevisivo. Al contrario, la Corte Europea si è pronunciata con decisione 33/04 del 31 marzo 2009, affermandone la piena legittimità”.

Facciamo quindi chiarezza esaminando quindi la discussa decisione, la giurisprudenza domestica e la normativa vigente.

  1. Decisione 33/04 della Corte Europea1

Nel 1999 un contribuente italiano presentava una richiesta alla RAI al fine di di sospendere il suo abbonamento al servizio televisivo pubblico. Nel 2003 la Guardia di Finanza sigillava la sua televisione in un sacchetto di nylon in modo che non potesse essere utilizzato. Invocando l’articolo 10 (libertà di espressione) e l’articolo 8 ( diritto al rispetto della vita privata e familiare ) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, il ricorrente lamentava dinanzi alla Corte di una violazione del suo diritto a ricevere informazioni e del suo diritto al rispetto della propria vita privata e familiare.

Affermava, in particolare, che il rendere il suo televisore inutilizzabile appariva come una misura sproporzionata in quanto gli veniva impedito di guardare anche i canali privati.

La Corte europea dei diritti dell’uomo sollevava perplessità sulla tesi sostenuta dal ricorrente in quanto constatava che la misura, adottata ai sensi delle disposizioni del diritto italiano, perseguiva uno scopo legittimo : dissuadere le persone dal disdire i loro abbonamenti al servizio pubblico televisivo.

Il canone rappresenta una tassa che viene utilizzato per il finanziamento del servizio pubblico radiotelevisivo ed, a parere della Corte, indipendentemente dal fatto che il ricorrente voglia guardare i programmi sui canali pubblici, il semplice possesso di un televisore obbliga a pagare la tassa in questione . Inoltre, dice la Corte “un sistema in cui gli spettatori sono in grado di vedere solo i canali privati ​​senza pagare il canone , ammesso che questo sia tecnicamente fattibile, equivarrebbe a privare la tassa della sua natura , in quanto si tratta di un contributo a un servizio alla comunità e non il prezzo pagato da un privato in cambio di ricevere un particolare canale”.

Di conseguenza, considerato anche l’ammontare ragionevole della tassa, la Corte concluse che la misura adottata, ovvero i sigilli al televisore, era una misura proporzionata allo scopo perseguito dalle autorità italiane e dichiarava, quindi, il ricorso manifestatamente infondato.

  1. Giurisprudenza della Corte Costituzionale

  1. Sentenza n. 284/2002.

La Corte ebbe ad affermare che il canone di abbonamento, benché all’origine apparisse configurato come corrispettivo dovuto dagli utenti del servizio riservato allo Stato ed esercitato in regime di concessione, aveva da tempo assunto, nella legislazione, natura di prestazione tributaria, fondata sulla legge.

Sul piano costituzionale, ciò comportava che la legittimità dell’imposizione dovesse misurarsi non più in relazione alla possibilità effettiva per il singolo utente di usufruire del servizio pubblico radiotelevisivo ma sul presupposto della sua riconducibilità ad una manifestazione, ragionevolmente individuata, di capacità contributiva.

Il venir meno del monopolio statale delle emissioni televisive non aveva fatto venir meno l’esistenza e la giustificazione costituzionale dello specifico “servizio pubblico radiotelevisivo“.

L’esistenza, infatti, di un servizio radiotelevisivo pubblico nell’ambito di un sistema misto pubblico-privato, si giustificava in quanto chi esercita tale servizio è tenuto ad operare non come uno qualsiasi dei soggetti del limitato pluralismo bensì svolgendo una funzione specifica per il miglior soddisfacimento del diritto dei cittadini all’informazione e per la diffusione della cultura, col fine di “ampliare la partecipazione dei cittadini e concorrere allo sviluppo sociale e culturale del Paese“.

In questa prospettiva si giustifica l’esistenza di una forma di finanziamento, sia pure non esclusiva, del servizio pubblico mediante ricorso all’imposizione tributaria, e nella specie all’imposizione del canone.

L’altra maggiore fonte di finanziamento della diffusione di programmi radiotelevisivi è infatti la raccolta pubblicitaria, la quale a sua volta, oltre che dai limiti imposti dalla legge a tutela degli utenti, è di fatto condizionata dalla quantità degli ascolti.

Il finanziamento parziale mediante il canone consente, e per altro verso impone, al soggetto che svolge il servizio pubblico di adempiere agli obblighi particolari ad esso connessi, sostenendo i relativi oneri, e, più in generale, di adeguare la tipologia e la qualità della propria programmazione alle specifiche finalità di tale servizio, non piegandole alle sole esigenze quantitative dell’ascolto e della raccolta pubblicitaria”.

È questa caratteristica del servizio pubblico radiotelevisivo, chiaramente ricavabile dal sistema normativo, che offre fondamento di ragionevolezza alla scelta legislativa di imposizione del canone destinato a finanziare tale servizio, a prescindere da valutazioni circa l’adeguatezza, in concreto, dell’attività svolta rispetto alla natura dei compiti affidati al servizio pubblico.

  1. Sentenza n. 255/2010.

Anche in questa sede la Corte afferma che il cosiddetto «canone di abbonamento» radiotelevisivo ha da tempo assunto natura di prestazione tributaria, istituita e disciplinata dallo Stato il cui gettito è destinato «quasi per intero (a parte la modesta quota ancora assegnata all’Accademia nazionale di Santa Cecilia) al finanziamento della concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo”.

Del resto, la natura di tributo statale, dice ancora la Corte, è stata riconosciuta anche dalla Corte di cassazione, in numerose pronunce, così da costituire “diritto vivente”.

In conclusione, anche se con fatica e parecchie critiche, il canone RAI non solo non è qualificato come tariffa (versamento di una somma prefissata per la fruizione di determinati servizi pubblici sulla base di un rapporto contrattuale), ma non è nemmeno qualificato come tassa, ovvero come un tributo che si deve versare in relazione a un’utilità che si ricava dall’attività pubblica corrispondente. Esso è, ancora più incisivamente, un’imposta, un tributo il cui presupposto non presenta alcuna relazione con un’attività corrispondente a favore del soggetto obbligato al pagamento

  1. Il Canone

Ai sensi del D.L. Lt 21 dicembre 1944, n. 458, si distinguono due tipi di canone:

  • ordinario, per la detenzione di apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle trasmissioni radio televisive in ambito familiare;

  • speciale, per la detenzione di uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle trasmissioni radio televisive in locali aperti al pubblico o comunque al di fuori dell0

Trattandosi di un’imposta sulla “detenzione” dell’apparecchio, il canone deve essere pagato indipendentemente dall’uso del televisore o, parimenti, dalla scelta delle emittenti televisive.

In riferimento alla corretta portata del termine “apparecchi atti o adattabili alla ricezione”, con riguardo alla nascita dell’obbligazione tributaria, è finanche intervenuto, con nota del 22 febbraio 2012, il Ministero dello Sviluppo Economico – Dipartimento per le comunicazioni, fornendo importanti precisazioni interpretative.

Per il 2014, il medesimo Ministero ha previsto i seguenti importi, comprensivi della tassa di concessione governativa e dell’IVA (al 4%) esclusa la tassa di versamento postale (sul c/c postale 3103) e le commissioni dovute in caso di scelta di altra modalità di pagamento:

Periodo

Scadenza

Importo

Annuale

31 gennaio

113,50

Semestrale

 1° semestre: 31 gennaio
 2° semestre: 31 luglio

57,92

Trimestrale

 1° trimestre: 31 gennaio  2° trimestre: 30 aprile
 3° trimestre: 31 luglio
 4° trimestre: 31 ottobre

30,16

In caso di ritardato pagamento:

  • entro i trenta giorni, e’ prevista una sanzione amministrativa pari ad € 4,47;

  • oltre i trenta giorni, è prevista una sanzione pari a ad € 8,94;

  • oltre i sei mesi, in aggiunta sono dovuti gli interessi di mora (1% per ogni semestre compiuto).

Ai sensi del comma 132, articolo 1, della legge 24 dicembre 2007, n. 248 sono, poi, previste delle forme di esenzione per i soggetti di età pari o superiore ai 75 anni, a condizione che:

  • abbiamo compiuto gli anni minimi entro il termine di pagamento del canone;

  • non convivano con altri soggetti diversi dal coniuge titolari di reddito proprio;

  • posseggano un reddito che, unitamente a quello del proprio coniuge convivente, non sia superiore complessivamente ad euro 516,46 per tredici mensilità (euro 6.713,98 annui), con riguardo ai redditi dell’anno precedente.

Il “contribuente” (termine non a caso utilizzato) può disdire il contratto qualora:

  • ceda tutti gli apparecchi detenuti, dandone comunicazione puntuale con generalità ed indirizzo del nuovo detentore;

  • comunichi di non detenere più alcun apparecchio, ad esempio per rottamazione, furto o incendio, dandone sempre puntuale comunicazione.

Qualora i contribuenti intendano rinunciare al servizio senza cedere ad altri i loro apparecchi devono presentare una disdetta, entro il 31 dicembre, chiedendo il suggellamento degli apparecchi stessi.

  1. Prospettive di sviluppo.

Alla luce di quanto sopra, appare quindi evidente come il “canone”, a dispetto del nome, non può di certo considerarsi tecnicamente una “tariffa” rientrando, invece, a pieno tiolo, nel concetto di tributo il cui presupposto non presenta alcun sinallagma con l’attività corrispondente a favore del soggetto obbligato al pagamento.

Su questa linea vanno quindi intese le dichiarazioni del direttore dell’Agenzia delle Entrate nel suo intervento, il 17 gennaio di quest’anno, davanti alla Commissione di vigilanza sulla anagrafe tributaria, con riguardo al possibile (probabile?) futuro del canone RAI:

Il canone è un tributo erariale, non si può scegliere se pagarlo o meno“, e come tale “è gestito dall’Agenzia“, ma “dato in concessione alla Rai per quanto riguarda le persone fisiche”.

Definirlo canone è quindi concettualmente sbagliato.

Viepiù, attesi i livelli di evasione, sembrerebbe intorno al 25% (Un italiano su 4 non lo paga!), stando sempre alle dichiarazioni in Commissione, non si vede perché non possa in effetti essere gestito direttamente dal Fisco nella sua funzione di riscossione finanche di prevenzione e repressione.

Ciò posto, forse, non appare peregrino, semmai segno di giustizia tributaria ed equità oltre che di evidenza nota a tutti, superare il concetto di “possessore” verso quello, sicuramente non distorsivo della realtà, di “contribuente” finalizzato al noto principio del “pagare meno, pagare tutti”, magari ritrovandosi con una importante riduzione del tributo a fronte di maggiori risorse da destinare al settore!

25 gernnaio 2014

Fabrizio Stella e Antonio Federico

1Décision rendue par la Cour européenne des droits de l’homme (deuxième section), affaire Bruno Antonio Faccio c. Italie , requête n° 33/04 du 31 mars 2009.