Quali giustificazioni opporre al Fisco per contrastare le risultanze degli studi di settore

senza valide giustificazioni lo Studio vince: partendo da un caso concreto, si ricostruisce quali giustificazioni opporre al Fisco

 

Con sentenza n. 14313 del 15 giugno 2010 (ud. del 24 marzo 2010) la Corte di Cassazione interviene ancora una volta sui riscontri oggettivi per la valenza degli studi di settore.

La controversia

La controversia ha per oggetto l’impugnazione degli avvisi di accertamento con i quali l’Agenzia delle Entrate di Brescia aveva contestato, sul presupposto delle diverse risultanze degli studi di settore, alla contribuente, il percepimento di un maggior reddito d’impresa derivante dalla sua attività di parrucchiera.

La C.T.P. di Brescia ha rigettato il ricorso, mentre la C.T.R. ha accolto l’appello della contribuente richiamando la giurisprudenza della Corte di Cassazione secondo cui gli studi di settore rappresentano sì un presupposto idoneo a giustificare l’azione accertativa della Amministrazione Finanziaria ma, al tempo stesso, risultano inidonei a provare, ex se, la fondatezza dell’accertamento se non trovano riscontri in altri elementi che tengano conto della effettiva realtà aziendale o professionale del contribuente.

Ricorre per cassazione l’Agenzia delle Entrate con tre motivi d’impugnazione:

a) violazione e falsa applicazione di norme di diritto e in particolare del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 12 e 18, (per il mancato rilievo dell’inammissibilità dei ricorsi di merito proposti da un esercente la professione di geometra e come tale sfornito della capacità di rappresentare e difendere in giudizio la contribuente);

b) violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, del D.L. n. 331 del 1993, artt. 62 bis e sexies, art. 2721 c.c., e L. n. 146 del 1998, art. 10;

c) motivazione insufficiente.

La sentenza

La Corte ritiene che:

– 1. il primo motivo di ricorso non sia fondato difettando l’interesse a proporlo da parte dell’amministrazione finanziaria, che peraltro non ha opposto tale rilievo alla costituzione in giudizio della contribuente nei gradi di merito;

– 2. il secondo motivo di ricorso appare invece fondato per quanto concerne “l’onere del contribuente di fornire la prova contraria in caso di accertamenti basati sugli studi di settore e in presenza di gravi incongruenze dei dati da essi risultanti rispetto ai ricavi dichiarati dal contribuente (Cass. n. 8643/2007)”;

– 3. il terzo motivo appare assorbito dal precedente in quanto la motivazione specifica impugnata dalla ricorrente non può assumere un rilievo autonomo rispetto all’applicazione di un principio giurisprudenziale che appare di per sè decisivo.

Inoltre, la proposta, in sede di contraddittorio preliminare, da parte dell’Amministrazione finanziaria, di una riduzione dei ricavi non può essere interpretata, in generale, come riconoscimento della infondatezza dell’accertamento ma come volontà dell’amministrazione di pervenire ad un accordo transattivo con il contribuente.

Brevi riflessioni

La Corte, in quest’ultimo pronunciamento, nell’affermare che nelle ipotesi di gravi incongruenze, spetta al contribuente negarle, richiama una precedente sentenza – la n. 8643 del 6 aprile 2007 (ud. del 13 marzo 2007) – con la quale la Corte aveva affermato che l’Amministrazione finanziaria ha facoltà di disattendere le risultanze della contabilità del contribuente, ancorché regolarmente tenuta e non contestata, qualora si palesino gravi incongruenze fra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalla specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore, legittimamente accertando con metodo induttivo e senza obbligo di accesso ai luoghi – se non ritenuto necessario – il maggior reddito imponibile avvalendosi di tale presunzione di carattere legale.

Nel caso di specie, l’ufficio aveva legittimamente applicato il metodo induttivo per la ricostruzione degli esatti ricavi, giungendo a risultati accettabili, pur in presenza di un solo dato certo costituito dal numero di tovaglioli lavati. Ma poi, in realtà, enumera altri dati giustificativi della presunzione di reddito, affermando testualmente che “nel caso in esame i fatti noti sono: il numero dei tovaglioli lavati, i prezzi dei singoli pasti ricavati dalle ricevute fiscali esaminate“; aggiungendo a ciò il rilievo che il numero presunto dei coperti serviti trovava riscontro nella quantità di vino e di altri alimenti consumati.

In base a questi dati, che la Commissione regionale aveva ritenuto congruamente accertati – perché il numero di tovaglioli lavati sarebbe addirittura inferiore a quello delle tazzine di caffè servite e perché il prezzo medio del singolo pasto sarebbe stato calcolato su di un campione significativo -, il giudice a quo perviene alla conclusione che “l’accertamento dell’ufficio oltre che legittimo deve ritenersi valido anche sotto l’aspetto quantitativo stante l’iter logico seguito per la ricostruzione dei ricavi“; che cioè il risultato dell’accertamento, desunto da tali fatti noti, è logico e conseguente.

Sul punto ricordiamo le quattro sentenze della Cassazione a Sezioni unite – nn. 26635, 26636,26637,26638 del 10 dicembre 2009 (ud. del 1 dicembre 2009), che nell’occuparsi specificatamente di un caso di un contribuente sottoposto a parametri, estendono le stesse conclusioni agli studi di settore.

In buona sostanza, gli studi di settore, anche se caratterizzati da una minore approssimazione probabilistica rispetto ai parametri, rappresentano la predisposizione di indici rilevatori di una possibile anomalia del comportamento fiscale, evidenziata dallo scostamento delle dichiarazioni dei contribuenti relative all’ammontare dei ricavi o dei compensi rispetto a quello che l’elaborazione statistica stabilisce essere il livello “normale” in relazione alla specifica attività svolta dal dichiarante.

Lo scostamento non deve essere “qualsiasi“, ma testimoniare una “grave incongruenza” (come espressamente prevede il D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, c. 3, e come deve interpretarsi, in una lettura costituzionalmente orientata al rispetto del principio della capacità contributiva, la L. n. 146 del 1998, art. 10, c. 1, nel quale pur essendo presente un diretto richiamo alla norma precedentemente citata, non compare in maniera espressa il requisito della gravità dello scostamento): tanto legittima l’avvio di una procedura finalizzata all’accertamento nel cui quadro i segnali emergenti dallo studio di settore (o dai parametri) devono essere “corretti“, in contraddittorio con il contribuente, in modo da “fotografare” la specifica realtà economica della singola impresa la cui dichiarazione dell’ammontare dei ricavi abbia dimostrato una significativa “incoerenza” con la “normale redditività” delle imprese omogenee considerate nello studio di settore applicato.

La procedura di accertamento standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non e ex lege determinata in relazione ai soli standard in sé considerati, ma nasce procedimentalmente in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente (che può tuttavia, restare inerte assumendo le conseguenze, sul piano della valutazione, di questo suo atteggiamento), esito che, essendo alla fine di un percorso di adeguamento della elaborazione statistica degli standard alla concreta realtà economica del contribuente, deve far parte (e condiziona la congruità) della motivazione dell’accertamento, nella quale vanno esposte le ragioni per le quali i rilievi del destinatario dell’attività accertativa siano state disattese. Il contribuente ha, nel giudizio relativo all’impugnazione dell’atto di accertamento, la più ampia facoltà di prova, anche a mezzo di presunzioni semplici, ed il giudice può liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standard al caso concreto, che deve essere dimostrata dall’ente impositore, quanto la controprova sul punto offerta dal contribuente”.

E di tale principio hanno fatto buona guida i giudici di Cassazione, in quest’ultimo intervento.

2 luglio 2010

Roberta De Marchi