La Corte di Cassazione, sezione Penale, si è pronunciata di recente con una sentenza in materia di occultamento e distruzione di scritture contabili (la n. 3057 del 14.11.2007 depositata il 21.01.2008) che offre lo spunto per un approfondimento della fattispecie, sia dal punto di vista normativo che da quello giurisprudenziale.
E’ noto che il mancato rinvenimento nel corso di una verifica fiscale delle scritture contabili del contribuente può comportare conseguenze sia sul piano tributario che su quello penale.
Sappiamo, infatti, che la mancata tenuta delle scritture contabili consente all’ufficio – ai fini dell’accertamento – di procedere alla ricostruzione induttiva del reddito ai sensi dell’art. 39, 2° comma, lettera c), del D.P.R. 600/73.
Sotto il profilo penale – che è quello che verrà analizzato nel presente scritto – la fattispecie è prevista dall’art. 10 del D. Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 che punisce, con la reclusione da sei mesi a cinque anni “salvo che il fatto costituisca più grave reato, … chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l’evasione a terzi, occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari”.
In sostanza, affinchè si configuri una fattispecie penalmente rilevante non è sufficiente “occultare” e comunque “distruggere” le scritture contabili, se le stesse sono tuttavia facilmente reperibili oppure, ancorché distrutte, sostituibili con gli elementi desumibili da altri appunti rinvenuti, e così via; occorre che la condotta dell’agente, cosciente e volontaria, abbia caratteristiche strutturali tali da poter essere considerata veramente “impeditiva” della ricostruzione e, in ogni caso, deve essere volta a perseguire il fine di evasione.
Il concetto di occultamento e distruzione
Già l’art. 4, lettera b), della L. n. 516 del 1982 (la c.d. manette agli evasori) puniva colui il quale, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto o di consentire ad altri l’evasione, occultava o distruggeva in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui era obbligatoria la conservazione in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume degli affari. Il dato normativo è stato ripreso dall’art. 10 del D. Lgs. 74/2000. La condotta punibile consisteva e consiste, quindi, nella distruzione o nell’occultamento totale o parziale delle scritture: nella forma della distruzione, il reato si configura come istantaneo, attraverso una condotta che si realizza al momento dell’eliminazione della documentazione, la quale può consistere o nella stessa eliminazione del supporto cartaceo o mediante cancellature o abrasioni.
L’occultamento consiste nella temporanea o definitiva indisponibilità della documentazione da parte degli organi verificatori e si realizza con il nascondere materialmente il documento.
L’occultamento, a differenza della distruzione, dà luogoad un reato permanente perché l’obbligo di esibizione perdura finché è consentito il controllo e quindi la condotta antigiuridicasiprotraeneltempoa discrezione del reo, il quale, a differenza della distruzione, ha il potere di fare cessare l’occultamento esibendo i documenti. Il reato permanente si distingue da quelloistantaneoproprioperlapossibilitàoffertaal soggetto attivo di farecessare inqualsiasimomento la condotta antigiuridica. La permanenzacessaallorché scade l’obbligo della conservazione: occultareundocumentononsignificasolo nasconderlo ma anche mantenerlo nascosto (1).
L’impossibilità di ricostruire i redditi o il volume d’affari
La condotta relativa alla distruzione ovvero all’occultamento delle scritture contabili è penalmente rilevante allorquando non è possibile ricostruire i redditi o il volume degli affari. Per redditi si intende l’ammontare complessivo netto delle entrate del contribuente; per volume d’affari si intende l’ammontare complessivo delle cessioni dei beni delle prestazioni dei servizi.
L’art. 10 richiede, per la sussistenza del reato, che la condotta dell’agente non si sia limitata a creare difficoltà ai verificatori nella ricostruzione della contabilità della sua impresa, ma sia stata di tale portata da non consentire loro di ricostruire il volume complessivo degli affari conclusi o dei redditi percepiti.
Il reato non sussiste nel caso in cui “la ricostruzione dei redditie delvolumed’affaripossaavvenireattraversoscrittureedocumenticontabili esistenti” (Cass., Sez. III 18 aprile 2002, n. 924). Siffatta impossibilità, secondo l’orientamento prevalente, configura una condizione di punibilità (Cass., Sez. III, 6 marzo 1998, n. 4200) che deve peraltro interpretarsi in senso relativo ossia con riferimento alla concreta situazione patrimoniale e contabile del soggetto indipendentemente dal fatto che l’ufficio accertatore sia comunque in grado di ricostruire la situazione patrimoniale attraverso elementi e dati raccolti aliunde (2).
Dibattuto è il problema se le “fonti esterne” svolgano una funzione di sostituzione o supplenza dei documenti occultati o distrutti ovvero di integrazione della frammentaria contabilità ufficiale.
Vi è chi sostiene che la ricostruzione, anche se resa possibile dai c.d. controlli incrociati o dall’esame della documentazione rinvenuta presso altri soggetti, è, per così dire, agevolata dall’aver tenuto l’agente una condotta priva di caratteristiche strutturali tali da poter essere considerata veramente impeditiva. Con il risultato di attribuire un rilievo particolare alla cosiddetta idoneità della condotta, che, in ossequio alla costruzione della fattispecie incriminatrice concepita come reato di pericolo concreto, consente di punire chi sottrae alla verifica documenti obbligatoriamente da conservare con un comportamento non banalmente scopribile ma dotato di un minimo di oggettiva idoneità lesiva.
Può essere utilmente richiamato l’orientamento prevalente di legittimità (Cass., Sez. III, 26 marzo 1991, n. 3332), in base al quale l’occultamento delle scritture contabili che integra gli estremi del delitto contestato può realizzarsi con qualsivoglia modalità e quindi con il materiale nascondimento nello stesso posto o in altro luogo rispetto a quello ove i documenti devono essere conservati e con il rifiuto ad esibirli.
Inoltre, qualsiasi sia la natura giuridica (modalità della condotta, condizione obiettiva di punibilità o elemento costitutivo oggettivo del reato),l’impossibilità di ricostruire il volume di affari o dei redditi deve essereriferitaalla situazione interna aziendale sia sotto il profilo contabile che patrimoniale senza che assuma alcuna rilevanza lapossibilitàinconcretodipoter pervenire allaricostruzione,avvalendosi dielementiedatiraccolti all’esterno ed in modo indiretto, in quanto èsufficiente un’impossibilità relativa (Cass., Sez. III, 11 maggio 1989, n. 7065; Cass. Sez. III, 13 gennaio 1992, n. 194).
Tale ultima concezione si connota per la ricerca di un’effettiva lesività del comportamento, giacché il bene protetto è quello della trasparenza fiscale.
Peraltro, ove fosse individuato nell’interesse dello Stato alla percezione delle imposte, è necessaria un’impossibilità relativa, dovendosi, però, precisare che, ove la ricostruzione dei redditi e del volume di affari possa avvenire attraverso scritture e documenti esistenti, la soppressione parziale della documentazione non configurerebbe il delitto, qualora non assuma un grado rilevante in relazione al volume di affari e dei redditi (3).
La sentenza n. 3057 del 14.11.2007 depositata il 21 gennaio 2008
La tematica dell’occultamento o distruzione delle scritture contabili è stata oggetto di una recente pronuncia della Corte di Cassazione, sezione Penale, che ha individuato l’elemento della fattispecie incriminatrice nell’impossibilità di determinazione del reddito del contribuente, deve intendersi in senso relativo e non assoluto; conseguentemente, detto elemento deve essere strettamente correlato alle operazioni connesse ai documenti fiscalmente rilevanti oggetto di occultamento o distruzione non essendo ovviamente condicio sine qua non l’impossibilità della determinazione dei risultati complessivi della gestione economica dell’attività del contribuente.
Il fatto
Un contribuente veniva dichiarato colpevole del reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000,art. 10, perché – quale titolare di una ditta edile – al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, aveva occultato tre fatture per complessive L. 11.500.000, emesse per prestazioni effettuate negli anni 1997 e 1998, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi e del volume d’affari. Il Tribunale comminava la pena di quattro mesi di reclusione, col beneficio della sospensione condizionale.
Il Tribunale aveva accertato che l’imputato aveva occultato le tre fatture contestate, ma aveva anche ritenuto che questa condotta non aveva impedito agli organi finanziari di ricostruire l’effettivo reddito prodotto, sia per l’esiguo numero dei documenti occultati, sia per il riscontro offerto dalla documentazione contabile conservata presso una società terza.
La corte d’appello, confutando le argomentazioni adottate dal primo giudice per giustificare il giudizio assolutorio, aveva osservato in sintesi che:
a) l’impossibilità di ricostruire il reddito complessivo del contribuente, che è elemento essenziale del reato contestato, va intesa in senso relativo, in rapporto alle dimensioni della impresa e al totale complessivo del suo fatturato e del reddito prodotto e accertato;
b) nel caso di specie l’occultamento dei redditi era percentualmente molto elevato, giacché, di fronte a un reddito dichiarato di L. 13.483.000, quello non documentato ammontava a L. 11.500.000.
L’imputato proponeva personalmente ricorso, deducendo l’erronea applicazione del decreto legislativo n. 74 del 2000, art. 10, sostenendo che: a) egli non aveva occultato le tre fatture, ma piuttosto ne aveva omesso la registrazione nei libri contabili, sicchè poteva configurarsi solo il reato di cui alla L. n. 516 del 1982, art. 1, ormai abrogato dal D. Lgs. n. 74 del 2000, art. 25; b) difettava il requisito dell’impossibilità di ricostruzione del reddito, giacché l’accertamento del reddito percepito era stato agevolmente raggiunto dall’ufficio tributario sulla base delle tre fatture rinvenute presso la società che aveva ricevuto le relative prestazioni.
La sentenza
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, per due ordini di motivi. In primo luogo, ha evidenziato che entrambi i giudici di merito hanno accertato in linea di fatto che le tre fatture contestate non soltanto non erano state registrate nei libri contabili obbligatori, ma neanche erano state rinvenute nella documentazione della ditta e neppure erano state esibite dal titolare. È risultato così integrato il delitto di cui al D. Lgs. n. 74 del 2000, art. 10, oltre che la contravvenzione di cui alla L. n. 516 del 1982, art. 1, ormai abrogato.
In secondo luogo, la suprema Corte ha ritenuto sussistere nel caso di specie l’impossibilità di ricostruire l’ammontate dei redditi o il volume degli affari.
La norma incriminatrice – scrivono i Giudici di legittimità – sanzionando penalmente l’obbligo di non sottrarre all’accertamento le scritture e i documenti obbligatori, intende chiaramente tutelare l’interesse statale alla trasparenza fiscale del contribuente.
Così individuato l’oggetto giuridico del reato, ne discendono alcuni corollari.
Anzitutto l’impossibilità di ricostruire l’ammontare dei redditi o il volume degli affari, in quanto incide direttamente sull’interesso protetto, va propriamente considerata come elemento essenziale del reato, che, in quanto tale, è coperto dalla colpevolezza, e non come semplice condizione di punibilità.
Inoltre, la detta impossibilità va rapportata alla sfera del contribuente infedele e alle scritture o ai documenti obbligatori che questi ha sottratto all’accertamento.
Ciò si desume dallo stesso tenore letterale della norma, che incriminando l’occultamento o la distruzione anche parziali della documentazione contabile richiede per conseguenza come elemento ulteriore l’impossibilità di accertare il risultato economico di quelle sole operazioni connesse alla documentazione occultata o distrutta. In altri termini, non è evidentemente richiesta come essenziale l’impossibilità di ricostruire tutta la gestione economica del contribuente per l’anno d’imposta interessato. Il giudice dovrà quindi accertare, in base a una valutazione comparativa della documentazione esistente e di quella mancante, se la condotta fraudolenta del contribuente era idonea a mettere in pericolo la funzione probatoria dei cespiti imponibili che la legge assegna alla documentazione e alla scritturazione obbligatorie. Mancando questa concreta idoneità, il reato non è integrato in considerazione della irrilevante offensività della condotta.
Inoltre, proprio perché la norma intende assicurare la trasparenza fiscale del contribuente, non è rilevante che la ricostruzione delle operazioni non documentate sia possibile aliunde, attraverso i riscontri incrociati presso i soggetti economici cui si riferiscono quelle operazioni.
In altri termini, il reato è escluso solo quando il risultato economico delle operazioni prive della documentazione obbligatoria può essere ugualmente accertato in base ad altra documentazione conservata dall’imprenditore interessato. In tal caso – come s’è detto – manca la necessaria offensività della condotta.
Nel caso trattato, quindi, non rileva che la ricostruzione dei cespiti relativi alle tre fatture occultate dall’imputato sia stata possibile grazie alle fatture passive conservate presso i destinatari.
Considerazioni conclusive
La Suprema Corte ha confermato che l’occultamento o la distruzione dei documenti contabili è penalmente rilevante soltanto nel caso in cui sia del tutto impossibile ricostruire il reddito o il volume d’affari del soggetto incriminato in base ai documenti dallo stesso esibiti (o meno) ovvero distrutti.
In particolare, nella sentenza commentata si supera altresì l’interpretazione – cui prima si è fatto cenno – secondo la quale la impossibilità di ricostruzione del reddito o del volume d’affari configurerebbe mera condizione di punibilità, affermandosi invece che il detto requisito costituisce elemento essenziale della fattispecie (e, quindi: caratteristica strutturale della condotta, ovvero evento naturalistico di essa, qualora si ritenga possibile concepire la citata impossibilità come un evento separato dalla condotta, e da essa causato) e, in quanto tale, deve essere previsto e voluto dal soggetto agente come conseguenza della propria condotta.
I Giudici hanno inoltre precisato che non ogni carenza documentale configura la fattispecie punita dalla legge, ma soltanto quelle di rilevante offensività della condotta.
Occorre quindi considerare la concreta situazione patrimoniale e contabile del soggetto incriminato e verificare se l’ufficio accertatore è stato in grado di ricostruire comunque la situazione patrimoniale attraverso elementi e dati raccolti presso lo stesso soggetto: in tal caso non si consuma il reato.
Diversamente, qualora la ricostruzione del reddito avvenga aliunde, attingendo informazioni e documenti contabili presso terzi, la Suprema Corte ha ritenuto sussistere l’azione cosciente e volontaria (dolo dell’agente: in tal caso, si richiede altresì dall’art. 10 citato che la condotta sia volta all’evasione, così integrandosi il dolo specifico previsto dalla fattispecie incriminatrice) di commettere una violazione, che non risulta attenuata dal rinvenimento presso terzi di documenti utili alla ricostruzione del reddito; in tali casi, pertanto, la condotta configura il delitto previsto e punito dall’art. 10 del D. Lgs. 74/2000.
Massimo Conigliaro e Lorenzo Imperato
5 Agosto 2008
(1) La natura permanente del reato di occultamento è stata sancita dalla Corte di Cassazione (n. 10340/1995; sez. III, 12 gennaio 1996, n. 312; SS.UU., n. 2333 del 1995).
(2) Così di recente, Cass., Sez. III pen., Sent. n. 398/13716 del 7 marzo 2006,dep. il 19 aprile 2006.
(3) Così Cass., Sez. III Pen., Sentenza n. 2455/3881 del 20 dicembre 2002 (dep. il 27 gennaio 2003).