La Cassazione a SS.UU. sulle sentenze motivate per relationem

         Con sentenza n. 14814 del 19 febbraio 2008 (dep. il 4 giugno 2008) la Corte di Cassazione a Sezioni Unite si è occupata di una problematica di rilievo – che aveva già visto precedenti e difformi pronunciamenti (1) – affermando che la  motivazione di una sentenza può essere redatta  per relationem ad altra sentenza, purché la motivazione stessa non si limiti alla mera indicazione della fonte di riferimento, occorrendo la riproduzione dei contenuti mutuati, e che questi diventino oggetto di autonoma valutazione critica nel contesto della diversa (anche se connessa) causa sub iudice, in maniera da  consentire anche  la  verifica della compatibilità logico-giuridica dell’innesto, fermo restando, preliminarmente, che quando siano pendenti più processi aventi ad oggetto questioni connesse, il giudice deve utilizzare gli  istituti  processuali  tenendo  conto  della  esigenza di evitare giudicati  contraddittori,  ma  anche  di  garantire il rispetto dei principi del giusto processo, con  riferimento  al  diritto al  contraddittorio e alla ragionevole durata del processo, del diritto  di  difesa e del diritto alla motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, presupposto indefettibile, quest’ultimo, “per  il controllo etero ed endoprocessuale dei provvedimenti stessi e corollario del principio di legalità dello Stato di diritto”.

 

Limiti e requisiti delle sentenze motivate per relationem

 

         Sulla legittimità della motivazione per relationem, l’ordinanza 10327/2007 aveva rilevato un contrasto di indirizzi giurisprudenziali:

a) da una parte per alcune pronunce il vincolo  di  consequenzialità  necessaria renderebbe legittima la motivazione per relationem, in quanto, constatata l’esistenza del vincolo stesso,  la  decisione condizionata ne deriva di conseguenza  e  non  vi sarebbero margini per  un diverso percorso argomentativo; la  decisione  condizionata potrebbe dunque legittimamente esaurirsi nella mera  constatazione  della  sussistenza del vincolo di pregiudizialità, del  tenore della decisione   condizionante e delle conseguenze che ne derivano: “in tema di contenzioso tributario, qualora il medesimo organo giudicante si trovi a pronunciare  contestualmente  più decisioni  relative  a  questioni  legate  tra loro da un vincolo di consequenzialità  necessaria, è consentito che la  motivazione di una decisione consista nel rinvio alle argomentazioni svolte nell’altra,  poiché in tal caso non si ha tanto la motivazione di una sentenza  per  relationem, ma piuttosto la constatazione che la decisione in un certo senso di una delle controversie comporta  necessariamente l’identica conclusione per l’altra” (Cass. 1634/2003; conf. 19155/2003,  9232/2003); in tal caso, conseguentemente, l’eventuale “ricorso per cassazione avverso la sentenza la cui motivazione si limita a rinviare alle   argomentazioni contenute nell’altra, deve ritenersi sufficiente a soddisfare il  requisito  della specificità dei motivi anche il solo motivo di ricorso che si richiami  alla concreta ed attuale possibilità di una riforma della decisione alla quale  è stato operato il rinvio e chieda la cassazione della sentenza impugnata  per il caso di annullamento della prima, in ragione del sopravvenuto riconoscimento dell’inidoneità a sorreggerla degli argomenti addotti  a  suo sostegno” (idem);

b) secondo altre pronunce, invece, “nella ipotesi  in  cui  il  giudizio relativo al reddito di partecipazione di un socio  sia  stato  separatamente instaurato e trattato rispetto al giudizio attinente all’accertamento del reddito della società, l’indipendenza dei due processi rende necessario  che la sentenza pronunciata nel giudizio concernente il reddito del socio, pur se legata da un nesso di  consequenzialità  a quella  inerente  al  ricorso proposto dalla società, contenga tutti gli  elementi essenziali  in  ordine allo svolgimento del processo ed ai motivi  in  fatto  e  in diritto della decisione, senza che il giudice possa  limitarsi  ad  un  mero rinvio alla motivazione della sentenza relativa alla società” (Cass. 11677/2002; conf. 13990/2003, 15951/2003, 11167/2006, 19606/2007).

 

         Il Collegio  aderisce a questa  seconda  linea interpretativa, nei limiti in cui la motivazione per relationem possa essere ammessa; vale a dire, quando non sia il sintomo della  violazione di norme che di per sé comportano la nullità delle  attività  processuali. 

 

         In generale, afferma la Corte, il fenomeno della motivazione per relationem  non  riguarda soltanto le ipotesi di connessione “orizzontale” delle decisioni simultanee, o comunque pronunciate all’interno di fasi  parallele del processo,  ma riguarda  anche  le  ipotesi  di  connessione verticale” di decisioni pronunciate in  gradi  diversi  del  giudizio.  Anche  in  questi  casi,  la giurisprudenza della Corte, condivisa dal Collegio, ha stabilito, in ossequio al principio della autonomia  dei  processi, che  la motivazione della sentenza del giudice di appello  che  contenga  espliciti riferimenti alla pronuncia di primo grado, facendone proprie le argomentazioni in  punto di diritto, è da ritenersi legittima tutte le volte in cui  il  giudice  del gravame, sia pur  sinteticamente, fornisca, comunque, una  risposta  alle censure formulate, nell’atto di appello e  nelle  conclusioni, dalla parte soccombente, risultando così appagante e corretto il percorso argomentativi desumibile attraverso l’integrazione della parte motiva delle due  sentenze” (Cass. 3636/2007; conf. 1539/2003).

 

         Diverso invece è il caso della motivazione  per  relationem,  utilizzata dal giudice per rinviare ad un principio di diritto già affermato da  questa Corte di legittimità, in relazione al quale non occorre ripercorrere tutto l’iter argomentativo, per soddisfare l’obbligo della motivazione: “quando la motivazione richiama un orientamento  giurisprudenziale  consolidato – tra l’altro riportando le massime in cui esso si è  espresso    la  motivazione deve ritenersi correttamente espressa da tale  richiamo,  che  rinvia    in evidente ossequio al principio  di  economia  processuale  (che  oggi  trova legittimazione formale nel principio della ragionevole durata del  processo, il quale giustifica ampiamente che non si debbano ripetere le argomentazioni di  un  orientamento  giurisprudenziale  consolidato,  ove   condivise   dal giudicante e non combattute dal litigante con  argomenti  nuovi)    appunto alla motivazione risultante dai provvedimenti richiamati,  di  modo  che  il dovere costituzionale di motivazione risulta adempiuto per  relationem,  per essere detta motivazione  espressa  in  provvedimenti  il  cui  contenuto  è conoscibile” (Cass. 7943/2007).

         Per le Sezioni Unite della Cassazione, la mancanza di una autonoma ed esauriente motivazione, non  consente  il controllo di legittimità sull’operato del giudice (criteri di valutazione degli elementi probatori adottati, regole  ermeneutiche  applicate,  logica della decisione) che è l’unico possibile controllo  sul  corretto  esercizio della giurisdizione in uno Stato di  diritto.  D’altra  parte,  non si può richiedere il rispetto del principio dell’autosufficienza delle impugnazioni se la sentenza impugnata non è, a sua volta, autosufficiente

 

Lo schema logico della motivazione per relationem

“se  A allora B”, dove A è l’elemento di riferimento che legittima  l’esistenza  di B, sul presupposto, appunto, che A esista e/o sia vero. Se  A,  nel  momento della decisione B, non esiste ancora (non soltanto come sentenza passata  in giudicato, ma nemmeno come mera pronuncia non definitiva) la  conclusione  B si risolve in una semplice affermazione apodittica  ed  incontrollabile  (un mero flatus vocis) e come tale nulla ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, e D.Lgs. n. 5467 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4, (Cass. 14816/2008).

  

         La Corte, quindi, conferma  l’indirizzo  giurisprudenziale  maggioritario, secondo il quale quando la motivazione di una sentenza si limiti a  rinviare ad altra motivazione, in  maniera  che  non  sia  possibile  individuare  le ragioni che stanno a fondamento del dispositivo la sentenza è nulla.

         La motivazione deve essere  autosufficiente“,  nel  senso che dalla lettura  della  stessa,  e  non  aliunde,  deve  essere  possibile rendersi conto delle ragioni di fatto e di diritto che stanno a  base  della decisione.

 

Il principio di diritto

La motivazione di una sentenza può essere redatta per relationem rispetto ad  altra  sentenza, purché la motivazione stessa non si limiti alla mera indicazione della fonte di riferimento: occorre che vengano riprodotti i contenuti  mutuati,  e  che questi diventino oggetto di autonoma valutazione critica nel contesto  della diversa (anche se connessa) causa sub iudice, in maniera da  consentire  poi anche la verifica della compatibilità logico-giuridica dell’innesto“.

 

         In ogni caso, ribadisce la Corte, la tecnica del rinvio  ad  altro  decisum non è mai consentita quando dissimuli un vizio di procedura più radicale, al quale si tenti di porre rimedio con questo “artificio”,  come,  ad  esempio, nel caso in cui si richiami una decisione che invece avrebbe dovuto essere pronunciata in un processo unico (in ipotesi di litisconsorzio  necessario), ovvero nel caso in cui il processo avrebbe dovuto essere sospeso in attesa della decisione connessa (in  ipotesi  di  pregiudiziale  obbligatoria).  In questi casi, la sentenza supportata da motivazione per  relationem  è  nulla per una violazione antecedente, perché pronunciata in un processo  celebrato in violazione del  D.Lgs.  n.  546  del  1992,  art. 14,  (Cass.  14815/08, 14816/08),  o  per  violazione  dell’art.  295  c.p.c.,  (Cass. 2638/2006, 13082/2006, 9203/2007). A nulla vale il tentativo  di  ricucire  la  unicità della  controversia,  attraverso  reciproci  rinvii  delle  sentenze,  o  di ristabilire il rapporto  di  subordinazione  tra  gli  esiti  dei  processi, dichiarando espressamente quale debba essere la progressione della decisione complessiva (trattandosi di variabili di cui non si ha certezza se  non  con il passaggio in giudicato delle relative sentenze).

 

         Infine, sul piano sistematico, la tesi che la ratio decidendi  si  debba sempre  poter  ricavare, in maniera espressa  ed  autosufficiente,  dalla motivazione della sentenza trova  un  preciso riscontro legislativo nell’art. 12, comma 7, della L. n.212/2000. E “sarebbe assurdo ipotizzare che la chiarezza ed  esaustività  che  si  pretendono  in  sede amministrativa, vengano meno nella sede giudiziaria, nella quale le garanzie del contraddittorio e della difesa (che la norma  citata  intende  garantire fin dalla fase delle procedure amministrative di accertamento) sono tutelati con norme costituzionali”.

   

Francesco Buetto

5 luglio 2008



NOTE

(1) Con sentenza n. 15833/2006 la Cassazione ha ritenuto non sufficientemente motivata una sentenza che si limiti  a richiamare altre sentenze di  organi  giudicanti  senza  riferirne  neppure succintamente le argomentazioni. Nello specifico, il vizio di motivazione della sentenza “è  invece  fondato  per  quanto  di ragione, in quanto non può essere ritenuta  sufficientemente  motivata  una sentenza che richiami per relationem sentenze della Commissione  tributaria provinciale di Roma già  prodotte nel giudizio di primo grado senza riportarne, neppure succintamente le argomentazioni”. Successivamente, con sentenza n. 1248 del 21 dicembre 2005 (dep. il 23 gennaio 2006) la Corte di Cassazione ha affermato che  non è in sé nulla la  sentenza  motivata  per  relationem  al contenuto di altra sentenza pronunciata contestualmente. È  pertanto  onere del ricorrente che la impugni dedurre che le  circostanze  di  fatto  e  di diritto, su cui si fondano le due sentenze, non sono identiche  e  che,  di conseguenza,   il   rinvio   alla   motivazione   di   altra   sentenza   è insufficiente. Sempre la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 19110 del 16 giugno 2005 (dep. il 29 settembre 2005), aveva già statuito che la  decisione  della  controversia  relativa  al   reddito conseguito dai soci può dipendere, pregiudizialmente,  dalla decisione  della controversia  promossa   dalla società. Pertanto, il giudice della  controversia  relativa  al  socio può motivare mediante il richiamo alla sentenza relativa  al  reddito  prodotto dalla società; deve però indicare gli estremi  della  sentenza  cui  rinvia nonché dare atto se essa è passata in  giudicato  (e,  in  caso  contrario, sospendere il processo). Qualora manchino queste  indicazioni  la  sentenza motivata per relationem è nulla (rectius, inesistente). Da ultimo, con sentenza n. 3329/2008 la Cassazione, considerato che i Giudici di merito  hanno  confermato  la  sentenza  di primo grado con “acritica condivisione, utilizzando un periodare ed argomentazioni, di per sé inidonee a dare contezza del percorso decisionale”; posto che detti Giudici hanno  effettuato  un  generico richiamo alla sentenza di primo grado, limitandosi, per altro, a  rilevare che l’amministrazione non aveva offerto la prova del proprio assunto, senza indicare i concreti elementi,  ritenuti  rilevanti  e  posti  a  base  della decisione”; ritenuto che le  espressioni utilizzate non assolvono all’obbligo motivazionale, essendo principio consolidato sia quello  secondo cui “la motivazione di una sentenza per relationem  ad  altra  sentenza,  è legittima  quando  il  Giudice,  riportando  il  contenuto  della  decisione evocata, non si limiti a richiamarla genericamente ma la faccia propria  con autonoma e critica  valutazione  (Cass.  n. 1539/2003; n. 6233/2003;  n. 2196/2003; n. 11677/2002), sia pure l’altro, per il  quale  è  configurabile l’omessa motivazione, “quando il Giudice di merito omette di indicare  nella sentenza gli elementi da cui  ha  tratto  il  proprio  convincimento  ovvero indica tali elementi senza una approfondita  disamina  logico    giuridica, rendendo in tal modo  impossibile  ogni  controllo  sull’esattezza  e  sulla logicità del ragionamento (Cass. n. 890/2006, n. 1756/2006,  n.  2067/1998)”, ha cassato la sentenza di secondo grado.