Divieto di testimonianza e dichiarazioni del terzo nel processo tributario

Con il presente lavoro si vuole analizzare quella che è la disciplina riservata alla dichiarazione dei terzi nel processo tributario, tenendo presente, oltre all’orientamento giurisprudenziale ed in particolar modo le recenti sentenze intervenute sull’argomento, anche i problemi pratici che si incontrano, in sede tributaria, nella difesa del contribuente.

         A tale scopo, necessario punto di partenza non può che essere l’art. 7, comma 4, D. Lgs. n. 546/92, che, così disponendo: “Non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale”, sancisce un divieto perentorio in merito all’ammissibiltà delle prove testimoniali nel processo tributario.

 

         Diversamente, invece, dispone l’art. 51, n. 4), D.P.R. n. 633 del 1972, secondo il quale, in corso di verifica, l’Ufficio può “invitare qualsiasi soggetto ad esibire o trasmettere, anche in copia fotostatica, documenti e fatture relativi a determinate cessioni di beni o prestazioni di servizi ricevute ed a fornire ogni informazione relativa alle operazioni stesse”. Allo stesso modo, l’art. 32, n. 8-bis), del D.P.R. n. 600 del 1973, consente all’Ufficio “di invitare ogni altro soggetto ad esibire o trasmettere, anche in copia fotostatica, atti o documenti fiscalmente rilevanti concernenti specifici rapporti intrattenuti con il contribuente e a fornire chiarimenti relativi”.

 

         Da tali norme, quindi, emerge un forte divario tra la fase della verifica e quella del giudizio. Infatti, i verificatori, durante le verifiche, hanno la possibilità di raccogliere dichiarazioni ovvero informazioni da soggetti terzi, dichiarazioni od informazioni che siano utili all’Amministrazione finanziaria per condurre le proprie indagini tributarie; mentre, durante l’eventuale giudizio, a meno che le dichiarazioni introdotte dall’Amministrazione finanziaria non siano messe in discussione dal contribuente, il giudice non può verificare quanto dichiarato dai soggetti terzi in questione, non essendo appunto ammessa la prova testimoniale nel processo tributario.

         Tutte queste considerazioni, dunque, non potevano che condurre all’istanza di incostituzionalità dell’art. 7 citato.

         Tuttavia, ciononostante, la Corte Costituzionale, investita della questione, con sentenza n. 18 del 2000, ha asserito che tale divieto non contrasta con la Costituzione e, in particolare, con gli artt. 3, 24 e 53.

 

         Più precisamente, per quanto riguarda l’art. 3 Cost., che sancisce il principio di uguaglianza e, quindi, in ambito processuale, il principio della “parità delle armi”, la Corte non lo ritiene violato, in quanto “il divieto della prova testimoniale trova giustificazione, sia nella spiccata specificità dello stesso rispetto a quello civile ed amministrativo, correlata alla configurazione dell’organo decidente e al rapporto sostanziale oggetto del giudizio; sia nella circostanza che esso è ancora, specie sul piano istruttorio, in massima parte scritto e documentale; sia, infine, nella stessa natura della pretesa fatta valere dall’ Amministrazione finanziaria attraverso un procedimento di accertamento dell’obbligo del contribuente che mal si concilia con la prova testimoniale”.

         In merito, invece, alla violazione dell’art. 24 Cost., secondo la Corte, tale divieto non sarebbe lesivo del diritto di difesa, poiché “il solo fatto dell’esclusione di un mezzo di prova come quello della testimonianza non costituisce di per sé violazione  del  diritto di difesa”.

 

         Infine, continua la Corte, non può ritenersi in contrasto neppure con il principio della capacità contributiva, di cui all’art. 53  Cost.,  riguardando  tale  principio  la  disciplina sostanziale  del sistema tributario e non la disciplina del processo.

         La Corte, però, ha tenuto a precisare che il divieto di testimonianza non comporta l’inutilizzabilità, in sede processuale, delle dichiarazioni di terzi eventualmente raccolte dall’Amministrazione nella fase procedimentale, dato che le dichiarazioni rese al di fuori e prima del processo sono essenzialmente diverse dalla prova testimoniale, che è necessariamente orale e richiede l’osservanza di determinate formalità. Perciò, sulla base di queste argomentazioni, si riconosce alle dichiarazioni, raccolte dall’Amministrazione finanziaria nella fase dell’accertamento, il valore “proprio degli elementi indiziari, i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione”. Si tratta, dunque, di un’efficacia ben diversa da quella che deve riconoscersi alla prova testimoniale.

 

         Tutto ciò premesso, la Corte conclude poi statuendo che: “per dare concreta attuazione ai principi del giusto processo, per come riformulati nel nuovo art. 111 della Costituzione, lo stesso potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale deve essere necessariamente riconosciuto anche al contribuente per garantire la parità delle armi processuali nonché l’effettività del diritto di difesa. Chiaramente, anche per il contribuente, tali dichiarazioni non potranno avere valore di prova, ma dovranno avere il valore di elementi indiziari, che necessitano di essere valutati assieme ad altri elementi, non potendo da soli costituire il fondamento della decisione”.  

 

         Sul punto, poi, negli anni, si sono susseguite varie sentenze della Corte di Cassazione (tra cui: Cass. n. 7107 del 20/07/1998; n. 4269 del 25/03/2002; n. 6407 del 22/04/2003; n. 7445 del 14/05/2003; n. 5957 del 15/04/2003; n. 16032 del 29/07/2005; n. 11221 del 16/05/2007), tutte volte ad attribuire tanto alle dichiarazioni portate in giudizio dall’Amministrazione, quanto a quelle portate in giudizio dal contribuente, il valore di meri elementi indiziari, inidonei da soli a costituire prova dei fatti rappresentati, ma in grado di concorrere, con altri elementi a fondare il convincimento del giudice.

  

         Recentemente, poi, sulla questione si è ritornati in due sentenze della Cassazione e, più precisamente, nella sentenza n. 9958 del 16/04/2008 ed in quella n. 10261 del 21/04/2008, nelle quali non è stato detto nulla di nuovo, ma si è semplicemente riconfermato il valore ed il significato indiziario che deve essere attribuito alle dichiarazioni rese dai terzi e raccolte dal contribuente a supporto delle proprie posizioni.

 

         Per cui, alla luce della normativa vigente e della giurisprudenza esaminata nel presente lavoro,  emerge che, nel processo tributario, le dichiarazioni dei terzi assumono rilievo innegabile ed in costante  progressione nella dimostrazione dei fatti. Questo fatto, però, anziché condurre all’eliminazione del divieto della prova testimoniale nel processo tributario, contribuendo con ciò ad assicurare maggiori garanzie in sede processuale e, conseguentemente, un più giusto processo per le parti, crea non poche perplessità.

 

         Innanzitutto, sebbene la Corte Costituzionale da un lato, con la sentenza n. 18 citata, abbia negato, in merito all’art. 7 citato, la violazione del principio di “parità delle armi”, dall’altro tuttavia, preoccupandosi di porre quale rimedio ad un eventuale pregiudizio arrecabile al contribuente la possibilità di introdurre in giudizio le dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, sembra implicitamente affermarla.

 

         In secondo luogo, poi, dato che la Corte, sempre nella sentenza citata, ha tenuto a precisare che il contribuente può, nell’esercizio del suo diritto di difesa, contestare la veridicità delle dichiarazioni di terzi, raccolte dall’Amministrazione nella fase procedimentale, ci si chiede quali siano le conseguenze di tale contestazione. La risposta la si può trovare nella stessa sentenza, laddove la Corte afferma che “il giudice tributario – ove non ritenga che l’accertamento sia adeguatamente sorretto da altri mezzi di prova, anche  a prescindere dunque dalle dichiarazioni di terzi – potrà e dovrà far uso degli ampi poteri inquisitori riconosciutigli dal comma 1 dell’art. 7 del decreto legislativo n. 546 del 1992, rinnovando e, eventualmente, integrando – secondo le indicazioni delle parti e con garanzia di imparzialità – l’attività istruttoria svolta dall’ufficio.”

         In ragione di ciò, quindi, ad avviso di chi scrive, si dovrebbe superare il divieto di cui all’art. 7 citato.

 

         Infatti, è importantissimo sottolineare che la contestazione del contribuente determina quale conseguenza l’obbligo per il giudice tributario, nel caso in cui non ritenga la pretesa controversa confortata da altri mezzi di prova, di saggiare l’affidabilità di queste dichiarazioni, convocando coloro che le hanno rese perché le confermino dinanzi ad esso e rendano gli ulteriori chiarimenti necessari per apprezzarne l’attendibilità. Tuttavia, si tratta pur sempre di un mezzo istruttorio che non offre le stesse garanzie di attendibilità della prova testimoniale, perché innanzitutto non è previsto il giuramento per i testimoni ed inoltre solo il giudice può formulare le richieste di delucidazioni, non potendo però disporre l’accompagnamento coattivo del terzo, ai sensi dell’art. 255, comma 1, c.p.c..

  

         Perciò, ammettere la prova testimoniale nel processo tributario, correttamente disciplinata, costituirebbe un maggior ausilio al pieno compimento dell’attività del giudice ed alla sua ricerca di verifica dei comportamenti contestati, nel rispetto oltretutto dei fondamentali principi del contraddittorio, della parità fra le parti e della piena esplicazione del diritto di difesa ai quali deve conformarsi il giudizio tributario.

 

         L’essere l’accertamento del fatto davanti alle Commissioni tributarie massimamente affidato alla prova documentale non sembra, infatti, escludere che in alcuni casi il diritto di difesa del contribuente possa essere effettivamente attuato soltanto attraverso la deposizione di un soggetto estraneo alla lite. Allo stesso modo, non possono mancare ipotesi in cui anche per l’Amministrazione finanziaria il ricorso alla prova testimoniale risulti uno strumento decisivo ai fini della sua effettiva tutela. L’audizione dei testimoni, quindi, da un lato potrebbe consentire all’Amministrazione finanziaria di non vedere frustrata la propria pretesa, perché fondata su elementi irripetibili e non altrimenti dimostrabili, dall’altro potrebbe evitare al contribuente di dover fornire una prova contraria che si traduce in una iniqua inversione dell’onere probatorio, dimostrabile oltretutto con strumenti processuali ridotti. Al riguardo, un esempio pratico è costituito dall’ipotesi di accertamento sintetico dei redditi.

 

         Tale tipo di accertamento trae fondamento dall’art. 38, comma 4, del D.P.R. n. 600/1973, che consente all’ufficio finanziario, in base ad elementi e circostanze di fatto certi ed indipendentemente da una previa rettifica analitica, di determinare il reddito complessivo netto delle persone fisiche, tutte le volte che tale reddito accertabile si discosta per almeno un quarto da quello dichiarato e tale situazione permane per due o più periodi d’imposta.

 

         L’accertamento sintetico (così come ogni altro accertamento presuntivo) consiste nell’applicazione di presunzioni, in questo caso legali relative, in virtù delle quali l’ufficio finanziario, ai sensi dell’art. 2727 c.c., è legittimato a risalire da un fatto noto (ad esempio: il possesso di determinati beni) a quello ignoto (sussistenza di un reddito compatibile). Tale presunzione genera, peraltro, l’inversione dell’onere della prova, trasferendo sul contribuente l’impegno di dimostrare che il dato di fatto sul quale essa si fonda non corrisponde alla realtà, ovvero a dame una diversa valutazione.

 

         Tutto ciò premesso, non è raro il caso in cui il contribuente ricorra contro l’avviso di accertamento, emesso, ai sensi dell’art. 38 citato, sulla base della differenza di almeno un quarto riscontrata, tra reddito accertabile e dichiarato, a causa di un immobile di sua proprietà, ma che gli è stato acquistato e donato dal padre, eccependone l’illegittimità per inesistenza dell’investimento.

 

         In questo caso, infatti, gravando sul contribuente l’onere della prova in merito alla donazione ed in assenza di un atto notarile che la attesti, può verificarsi, come del resto è accaduto, che la Commissione tributaria richieda, quale prova documentale dell’acquisto del padre, l’assegno con il quale questi ha pagato  l’immobile,  non  ritenendo  sufficiente a tale scopo la  documentazione bancaria fornita dal contribuente con la quale si attesta la stipulazione da parte del padre di un contratto di mutuo, per un importo pressoché corrispondente al valore dell’immobile e risalente peraltro allo stesso periodo del suo acquisto.

 

         Questo esempio pratico, dunque, dimostra quanto sia iniqua per il contribuente l’inversione dell’onere della prova nel caso in cui il suo diritto di difesa possa essere effettivamente attuato soltanto attraverso l’audizione dei terzi, ipotesi che, invece, non si verificherebbe nel caso in cui si ammettesse nel giudizio tributario la prova testimoniale.

         Pertanto, sulla base di tutte queste considerazioni, sarebbe più opportuno oltre che auspicabile, ad avviso di chi scrive, che il Legislatore provveda ad eliminare il divieto sancito dall’art. 7 citato, con conseguente vantaggio per entrambe le parti processuali, che finalmente si affronterebbero in un “giusto processo”.

 

AVV. MAURIZIO VILLANI

Avvocato Tributarista in Lecce

PATROCINANTE IN CASSAZIONE

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11 Giugno 2008