Rapporti tra codice di procedura civile e processo tributario

Il presente scritto ha l’obiettivo di trattare il non sempre chiaro rapporto tra c.p.c. e processo tributario.

Specificamente, in termini più pragmatici, il fine è quello di comprendere l’esatto ambito del processo tributario.

La norma generale che regola questo rapporto è trasfusa nell’art 1, comma 2, del D.Lgs. 546/92 rubricata “Gli organi della giurisdizione tributaria” che dispone: “I giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile”.

Con tale disposizione il legislatore ha innovato il rinvio contenuto nell’art. 39 D.P.R. 636/72 conformandosi alla direttiva delineata dalla Legge delega 413/91, la quale all’art. 30, lett. g), imponeva l’adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile.

In effetti, la disposizione recata dal precedente art. 39, comma 1, D.P.R. 636/72, disponeva: “al procedimento dinanzi alle Commissioni tributarie si applicano, in quanto compatibili con le norme del presente decreto e delle leggi che disciplinano le singole imposte, le norme contenute nel libro I del c.p.c., con esclusione degli articoli da 61 a 67 (in tema di consulente tecnico e custode), dell’art. 68 , commi 1 e 2 (relativo agli altri ausiliari del giudice) degli articoli 90 a 97 (concernenti il regime delle spese di lite)”:

Procedendo ad un confronto tra le due norme le differenze tra le stesse possono essere così riassunte:

1)     il superamento del rinvio al solo libro I del c.p.c. (ex art. 39 D.P.R 636/72) con conseguente totale coinvolgimento dell’intero sistema della giustizia civile nella giustizia tributaria;

2)     eliminazione del riferimento alla disciplina delle singole imposte che è il chiaro segno della “ratio legis” di tenere ben distinto il profilo sostanziale da quello processuale, riconoscendo a quest’ultimo una ampia autonomia;

3)     infine va posto in luce che, mentre l’art. 39 si riferiva specificamente al procedimento innanzi alle C.T., la nuova norma parlando genericamente di “giudici tributari”, estende la disciplina a tutti i giudici tributari e quindi anche alla Corte Suprema di Cassazione allorché venga investita delle impugnazioni avverso le sentenze delle C.T.R.

Dal punto di vista dottrinale e della teoria generale del processo tributario, la riforme dei DD. Lgs 545 e 546 del 1992 hanno riacceso il dibattito in dottrina tra la teoria dichiarativa e la teoria costitutiva.

I fautori della teoria dichiarativa strutturano la norma in termini di “norma– fatto”, ritenendo che la stessa norma disciplini direttamente il fatto – presupposto d’imposta, collegando direttamente la nascita dell’obbligazione tributaria, facendo così assurgere la posizione del contribuente a diritto soggettivo.

P.e.: per l’imposta sul reddito delle persone fisiche, la nascita dell’obbligazione impositiva è data direttamente dal possesso del reddito compreso in una delle categorie di cui all’art. 6 TUIR, indipendentemente dalla dichiarazione del contribuente o dall’atto di accertamento dell’Amministrazione finanziaria.

Ove prodotti, quest’ultimi, assurgono a dichiarazioni di scienza o conoscenza di una fatto già accaduto.

La teoria costitutiva invece aderisce alla struttura della norma giuridica in termini di norma-potere-fatto, e concepisce la norma tributaria come attributiva del potere in capo all’Amministrazione finanziaria di dettare la concreta disciplina di un determinato fatto, individuando così la fonte dell’obbligazione tributaria in uno degli atti che l’amministrazione stessa è legittimata ad emanare.

Evidentemente la posizione soggettiva del contribuente a seguito dell’emanazione dell’atto assume i termini dell’interesse legittimo (“affievolimento” dal diritto soggettivo a interesse legittimo).

Dal punto di vista processuale i dichiarativisti ritengono che il processo tributario debba essere ricostruito in termini di “impugnazione–merito” nel senso che, l’impugnazione dell’atto attraverso il quale viene esternata la pretesa impositiva, costituisce il veicolo introduttivo del processo, ma il giudice tributario investito della lite, non si limita ad annullare il predetto atto sul quale è incentrata la controversia, ma emette pronunce di merito che accertano con l’autorità del giudicato il rapporto obbligatorio d’imposta intercorrente tra le parti in causa.

In conseguenza di ciò il processo tributario si avvicina al processo civile che, per antonomasia, è processo sul rapporto, avente ad oggetto la tutela dei diritti soggettivi.

I costitutivisti, invece, aderiscono ad una ricostruzione dell’oggetto della giurisdizione tributaria come impugnazione dell’atto emanato dalla Amministrazione finanziaria al fine del suo annullamento (impugnazione–annullamento).

Da ciò ne discende un accoglimento favorevole della riforma da parte dei dichiarativisti.

GIUDIZIO DI COMPATIBILITA’ DELLE NORME DEL C.P.C. CON IL PROCESSO TRIBUTARIO.

Proseguendo l’esame dell’art. 1, comma 2, D. Lgs. 546/92, che, appunto, fa un espresso rinvio a tutte le norme del c.p.c., previo giudizio di compatibilità, è chiaro che lo stesso si ponga come norma secondaria e generalizzata rispetto alla normativa dettata nel decreto legislativo.

L’utilizzo della tecnica del rinvio pone però dei problemi di individuazione:

1)     delle norme del c.p.c. applicabili (e quindi compatibili) al processo tributario;

2)     delle norme del c.p.c. applicabili al processo tributario in forza di un espresso e autonomo richiamo contenuto nelle disposizioni del D.Lgs. n. 546/92;

3)      dalle norme del c.p.c. direttamente trasfuse nel predetto decreto.

Da quanto predetto si evince che il legislatore ha utilizzato una tecnica di rinvio c.d. mista (richiami espressi, sia di applicabilità sia di non applicabilità della norma richiamata, – trasfusione del contenuto della norma del c.p.c., -e in via residuale richiamo generale).

Poste tali premesse i presupposti per l’applicazione delle norme del c.p.c. consistono:

1)     nell’assenza di specifiche disposizioni del D. Lgs. 546/92 che disciplinino una determinata fattispecie processuale;

2)     nella mancanza di disposizioni che esplicitamente escludono l’applicabilità al processo tributario delle norme del c.p.c. (es. art 7 , comma 4, e art. 35 e 49);

3)     compatibilità della norma processualcivilistica con il sistema del processo tributario.

Sicuramente difficile appare la verificazione dei predetti presupposti.

A questo proposito la circolare ministeriale n. 98/E del 1996, emanata in occasione dell’istituzione del nuovo processo tributario (1 aprile 1996) stabilisce che, sotto il profilo dell’esame della compatibilità, dovrebbe essere utilizzato il principio già enucleato dalla Corte di Cassazione nel 1986 (sentenza n. 210).

Tale principio stabilisce che l’indagine di compatibilità deve tendere ad accertare se nel processo tributario possa configurarsi una situazione processuale avente le stesse caratteristiche di quelle della disposizione da applicare, e se tale disposizione sia o meno compatibile col processo tributario in primis e con l’ordinamento tributario in generale.

Tale giudizio di compatibilità avrà esito positivo non solo quando non vi sia contrasto con le norme tributarie, ma anche quando l’applicazione della norma richiamata non comporti una disarmonia di fondo.

A tale proposito un esempio valga per tutti: gli articoli 166 e 167 c.p.c concernenti la costituzione in giudizio del convenuto e il contenuto della comparsa di risposta, non possono sicuramente trovare applicazione nel processo tributario.

In effetti, dal combinato disposto dei predetti articoli, si ricava che il convenuto può, nel rito civile, costituirsi in giudizio sino all’udienza di I comparizione (“ex” art. 180 c.p.c.) senza essere considerato contumace e senza incorrere in alcuna inammissibilità (a parte, ovviamente, il caso in cui voglia presentare domanda riconvenzionale o chiamare in causa un terzo).

Una simile disciplina è possibile poiché, nel processo civile, l’instaurazione del contraddittorio e l’espletamento della fase istruttoria avvengono in epoca successiva e proseguono per tutta la durata del processo civile.

La struttura del processo tributario, prevede che le predette fasi avvengano prima dell’udienza di trattazione.

Di tal ché, stante l’ordinarietà del termine previsto dall’art. 23 per la costituzione in giudizio della parte resistente, ove si consentisse in questo campo il richiamo alle norme del c.p.c. e quindi si consentisse la costituzione di parte resistente nel corso dell’udienza trattazione, il sistema processuale tributario risulterebbe totalmente scardinato.

Queste sono le considerazioni che hanno poi condotto dottrina e giurisprudenza a ricercare in un momento precedente all’udienza di trattazione il termine ultimo per la costituzione di parte resistente (spesso le Commissioni lo individuano nel termine previsto dall’art. 32, comma 2, – 10 gg. Liberi prima dell’udienza.)

Altra norma che si ritiene incompatibile col sistema processualtributario è l’art. 700 c.p.c. relativo ai provvedimenti d’urgenza.

In effetti, la disciplina relativa al processo cautelare nel giudizio tributario, è espressamente disciplinata dall’art. 47 D.Lgs 546/92 ed è completamente autonoma rispetto a quella del c.p.c..

In effetti, il giudizio cautelare è configurato come giudizio incidentale all’interno del giudizio di merito, ed è tassativamente esclusa ogni forma di reclamo o altra impugnazione avverso i relativi provvedimenti, siano essi di accoglimento o di rigetto, essendo inibitoria esplicitamente riservata al giudizio di I grado ed essendo prevista come unico provvedimento cautelare possibile la sospensione dell’atto impugnato.

RINVIO ESPRESSO DI APPLICAZIONE DI SINGOLE DISPOSIZIONI DEL C.P.C.

Oltre al richiamo di carattere generale alle norme del c.p.c. operato dall’art. 1, comma 2, vi è una serie di altre norme che, di volta in volta, rinviano a singoli articoli o gruppi di articoli del c.p.c..

Sul piano sistematico un siffatto modo di operare del legislatore potrebbe apparire ultroneo, stante il rinvio di carattere generale già operato.

La “ratio” di tale sistematica risiede, però, nell’esigenza di esimere il giudice, nei predetti casi dall’esame del giudizio di compatibilità che è predeterminato per legge.

Le norme che danno luogo a specifici rinvii alle norme del c.p.c. sono:

1)     art. 3, comma 2, che richiama l’art. 41, comma 1, c.p.c., in materia di regolamento preventivo di giurisdizione;

2)     art. 6, comma 1, che rimanda alle “disposizioni del c.p.c. in quanto applicabili” in materia di astensione e ricusazione;

3)     art. 15, comma 1, che richiama il 2 comma dell’art. 92 c.p.c. in tema di compensazione totale o parziale delle spese di lite;

4)     artt. 16, 22 e 38che rinviano agli artt. 137 e segg. c.p.c. in materia di notificazione degli atti processuali

5)     art. 35, comma 3, che rimanda agli artt. 276 e segg. c.p.c. in relazione alle deliberazioni del collegio

6)     art. 38 ,comma 3, che rimanda all’art. 327, comma 1, c.p.c. in tema di termine lungo di impugnazione;

7)     art. 49, che rinvia alle disposizioni del titolo III capo I del libro II del c.p.c. in materia di impugnazioni in generale;

8)     art. 62, per il ricorso per cassazione ed il relativo procedimento;

9)     art. 69 che rimanda all’art. 475 c.p.c. in materia di rilascio di copia spedita in forma esecutiva;

10)art 70 in aggiunta alle norme previste dal c.p.c. in merito alla esecuzione forzata delle sentenze prevede il giudizio di ottemperanza;

 

DIFFERENZE TRA IL C.P.C. E PROCESSO TRIBUTARIO.

DEROGHE ESPRESSE, NEL CORPO DEL D. LGS. 546/92, DI INAPPLICABILITA’ DELLE NORME DEL C.P.C.

Premesso quanto detto a proposito della disciplina applicabile al processo tributario ovvero l’applicabilità generale posta dall’art. 1, comma 2, si deve ora passare a verificare le principali differenze tra i due riti.

Come detto, tali differenze possono emergere dal giudizio di compatibilità previsto dall’art. 1, comma 2, ovvero dalla norma del c.p.c. che risulta disarmonica rispetto al processo tributario (a tale proposito abbiamo visto l’art. 700 c.p.c oppure il combinato disposto degli artt. 166 e 167 c.p.c.), oppure da disposizioni che espressamente escludono l’applicazione nel processo tributario di norme del c.p.c..

Tale esclusione può essere dettata o da norme di esclusione di mero rinvio o da norme che pongono un dispositivo difforme da altra disposizione del c.p.c. (p.e. divieto di prova testimoniale, o art. 35, comma 3, 2 periodo che esclude la possibilità di emanare sentenze non definitive).

Procediamo ad esaminare talune disposizioni

Art. 5, comma 4 D. Lgs. 546/92: in virtù del quale non si applicano le disposizioni del c.p.c. sui regolamenti di competenza di cui all’art. 45 e 46 c.p.c. ovvero, l’istanza per stabilire la competenza del giudice tributario, non va prodotta alla Corte di Cassazione, ma è lo stesso giudice tributario che dichiara la propria incompetenza e stabilisce la competenza di altro giudice tributario. Vizio, quest’ultimo, rilevabile soltanto nel grado al quale lo stesso si riferisce (cd. principio di economia processuale atteso che, nell’ambito del processo tributario, non vi è limite di competenza per valore o per materia ma solo una incompetenza territoriale). Altresì è onere della parte (art. 125 disp. Att. C.p.c.) la riassunzione del processo dinanzi al giudice dichiarato competente pena la estinzione del giudizio.

Art 337 c.p.c.: la cui esclusione è sancita espressamente dall’art. 49 D.Lgs. 546/92, il quale stabilisce che: “Alle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie si applicano le disposizioni del  titolo III, capo I, del libro II del c.p.c., escluso l’art. 337 e fatto salvo quanto disposto nel presente decreto.”

L’art. 337 c.p.c. rubricato “Sospensione dell’esecuzione e dei processi” dispone: “L’esecuzione delle sentenze non è sospesa per effetto dell’impugnazione di essa, salve le disposizioni degli articoli 283, 373, 401 e 407”

Una lettura isolata della norma porterebbe a pensare che l’impugnazione della sentenza nell’ambito del processo tributario comporterebbe la sua stessa sospensione.

Ciò sicuramente se non si tenesse presente la parte finale dell’art. 49, la quale fa salve le disposizioni dello stesso decreto legislativo 546/92, che prevede la riscossione frazionata del tributo.

Rimane aperta la problematica concernente l’applicabilità degli artt. 283 e 373 c.p.c. che dettano la disciplina della sospensione delle sentenze impugnate dinanzi alla C.T.R e alla Corte di Cassazione.

La tesi che esclude l’applicabilità nel processo tributario dell’art 373 c.p.c., si fonda sulla espressa esclusione dettata dall’art. 49 prevede e sulla esistenza dell’art. 47 che disciplina espressamente la sospensione della esecutività dell’atto impugnato solo nel corso del giudizio di I grado.

Altra dottrina e giurisprudenza ha invece ritenuto che, nel processo tributario, possa applicarsi l’art 373 cp.c.  atteso che, la esclusione sancita dall’art. 49 (ovvero inapplicabilità dell’art 337c.p.c.), si riferisce solo allo stesso 337 e non anche agli articoli in esso richiamati (283, 373, 401 e 402).

Inoltre la espressa esclusione di applicazione dell’art. 337 c.p.c. sarebbe necessaria per evitare contraddizioni con l’art. 68 del D.Lgs. n. 546/92.

Infatti, il 337, prevede la riscossione per l’intero delle somme nel caso di soccombenza, mentre, l’art. 86, prevede la riscossione frazionata.

Quindi la esclusione sancita dal 49 sarebbe solo funzionale ad evitare l’antinomia e non già ad impedire la possibilità di chiedere la sospensione della sentenza emanata dal giudice.

Altra questione è l’applicabilità dell’art 283 c.p.c. nel processo tributario.

La questione sorge data la presenza dell’art 49 il quale, come predetto, recita: “alle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie si applicano le disposizioni del Titolo III, Capo I, del libro II, del c.p.c., escluso l’art. 337 e fatto salvo quanto disposto nel presente decreto.”

I predetti articoli prevedono, rispettivamente, la possibilità che il giudice di appello, ricorrenti i presupposti della gravità e della irreparabilità del danno, possa, appunto, sospendere l’esecuzione della sentenza di I grado nel caso in cui sia stato proposto appello, ovvero della sentenza di II grado, nel caso in cui sia stato proposto ricorso per cassazione.

Per quanto concerne l’art. 283 esso è ricompresso nel titolo I del libro II del c.p.c. quindi sembrerebbe non espressamente richiamata l’applicabilità, argomentando a contrario resterebbe escluso (in tal senso C.T.R Veneto ordinanza 07/01/1997, n. 23).

Si badi che l’art. 49 non lo richiama ma neanche lo esclude, quindi per parte della dottrina e della giurisprudenza riemergerebbe l’art. 1, comma 2, che fa un richiamo di carattere generale.

Infatti parte della giurisprudenza (C.T.R Lombardia Ordinanza n. 20 del 19 4 1999), ha ritenuto applicabile l’art. 283 c.p.c. proprio per il disposto dell’art. 1, comma 2 D.Lgs 546/92.

Di contro, la stessa Corte Costituzionale, investita della questione (ma si era già pronunciata in tal senso con la sentenza 165 del 2000), con riferimento alla non applicabilità dell’art 283 c.p.c. nel processo tributario in contrasto con il diritto di difesa costituzionalmente garantito, ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione asserendo la possibilità e la conseguente legittimità che vi siano regole distinte per il rito civile (che appunto prevede la possibilità di applicare l’art. 283 e quindi la sospensione delle sentenze di I grado) da quello tributario (che  non prevede tale possibilità).

Recentemente la C.T.R. Puglia – sez. 28 – Ordinanza del 15/06/05 n. 31, Pres. Bruschi, ha riconosciuto la possibilità di avanzare istanza di sospensione delle sentenze di I grado aderendo così alla tesi che ritiene applicabile l’art. 283 c.p.c..

Art. 7 del D. Lgs. N. 546/92: altra esclusione espressa viene riportata dall’art 7, comma 4, il quale stabilisce esplicitamente che non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale.

Si badi che, la disposizione contenuta nell’art 7, comma 4, non comporta anche la inammissibilità della prova per presunzioni, ai sensi dell’art 2729, comma 2, c.c. il quale dispone che le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni atteso che tale norma è inapplicabile nel processo tributario, nel quale l’esclusione della prova testimoniale è dettata da un’esigenza di speditezza e la relativa disposizione va considerata di carattere eccezionale, con la conseguenza che non può essere applicata oltre i casi considerati (Corte di Cassazione sez.I del 19 12 1997, n,12854).

Per quanto riguarda il giuramento, l’art. 2736 c.c., prevede due tipi di giuramento: decisorio e suppletorio.

Entrambe le tipologie rappresentano nel processo civile un tipico esempio di prova legale, ossia di prova non liberamente valutabile dal giudice essendo la sua efficacia predeterminata inderogabilmente dalla legge.

Proprio per tale carattere si è ritenuto che sia mezzo di prova incompatibile con il processo tributario tenuto conto del carattere non disponibile degli interessi in discussione in tale tipo di contenzioso (obbligazione pubblicistica).

Prova testimoniale.

Ben maggiore importanza pratica ha il divieto della prova testimoniale oggetto di varie discussioni sia in dottrina che in giurisprudenza.

In effetti è stato più volte sostenuto, peraltro anche dai giudici tributari di Chieti e Torino, che, l’esclusione della prova testimoniale nel processo tributario, determinerebbe un danno a sfavore della parte che si venga a trovare nella necessità di avvalersi di tale prova per dimostrare un fatto rilevante ai fini della decisone, non suscettibile di essere diversamente provato.

La Corte costituzionale (Ord. 2/12/04 n. 375) ha, tuttavia, dichiarato infondate le predette questioni di illegittimità sulla base delle seguenti motivazioni:

1) non ci si può basare sul confronto con altri procedimenti giurisdizionali, in quanto non esiste un principio costituzionalmente rilevante di necessaria uniformità di regole processuali tra i diversi tipi di processi, i quali possono differenziarsi sulla base di una scelta razionale del legislatore, derivante dalle situazioni sostanziali dedotte in giudizio;

2) l’esclusione della prova testimoniale non viola il diritto di difesa che può essere diversamente regolato dal legislatore a sua discrezionalità in funzione delle peculiari caratteristiche dei singoli procedimenti.

In senso sfavorevole alla giurisprudenza si è espressa parte della dottrina che ha evidenziato come la legge, vietando la prova testimoniale, toglie al processo tributario un mezzo di prova importante per giungere alla verità.

Secondo la predetta dottrina, in effetti, trattasi di un’informazione resa da un terzo davanti al Giudice, previa dichiarazione di impegno, su circostanze capitolate e oggetto di apposita deduzione e ammissione che in qualche modo vincolano legalmente il giudice.

Secondo altra dottrina (Glendi , in G.T. 5/2005, pag. 416), siffatto mezzo di prova, urterebbe con il sistema istruttorio del processo tributario che, nel suo complesso, è certamente dispositivo quanto alla deduzione dei fatti, ma altrettanto sicuramente inquisitorio quanto ai mezzi di prova, esperibili tutti dal giudice tributario senza alcun condizionamento di parte (tale potere è stato dal legislatore affievolito con l’abrogazione dell’art 7. comma 3, che dava la possibilità al Giudice di ordinare alle parti il deposito documenti)

Alla luce del divieto della prova testimoniale, si è discusso sia in dottrina che in giurisprudenza se tale divieto determini anche il divieto di utilizzare nel processo tributario dichiarazione rese da terzi, ad es. agli Uffici dell’A.F. nell’esercizio dei poteri di informativa riconosciuti a tale organo.

A favore della utilizzabilità di tali dichiarazioni si è pronunciata, anche in sede penale, da valutarsi alla stregua di semplice indizio, sia la Corte Costituzionale che la Corte di Cassazione.

Esse hanno sostenuto che l’esclusione della prova testimoniale non contrasta con l’utilizzo di dichiarazioni di terzi, in quanto queste ultime hanno un’efficacia ben diversa, essendo elementi indiziari non idonei a costituire da soli il fondamento della decisione.

Altro espresso divieto posto al giudice tributario è sancito nell’art. 35, terzo comma, secondo periodo, del D. Lgs. 546/92, secondo il quale non sono ammesse sentenze non definitive o limitate solo ad alcune domande (in tal senso,  Cass. Sez. Trib. Sentenza del 30/03/2007 n. 79090).

INTERROGATORIO.

Tale istituto non risulta espressamente disciplinato dal D. Lgs. 546/92 ma si ritiene che, quanto meno nella forma dell’interrogatorio libero (art. 117 c.p.c.) sia ammissibile nel processo tributario.

Tale interrogatorio libero non è considerato un vero e proprio mezzo di prova, avendo il fine essenziale di fornire al giudice chiarimenti e specificazioni in ordine ai fatti dedotti in causa, e ciò al fine essenziale di meglio riscontrare e valutare le prove già acquisite in atti.

Può essere assunto anche su iniziativa del giudice senza necessità di specifica istanza di controparte.

Si dubita fortemente della ammissibilità nel processo tributario del c d. interrogatorio formale (art. 230/231/232 del c.p.c.), anche in considerazione del generale disfavore che risultano avere nell’ambito del processo tributario altri mezzi di prova orali quali il giuramento e la prova testimoniale.

Anche in ordine alla confessione nulla è detto in seno al D. lgs. 546/92. Ai sensi dell’art. 230 la confessione è la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti a se sfavorevoli e favorevoli ad altra parte.

Essa si distingue in giudiziale e stragiudiziale: la prima è quella resa nel corso del giudizio e forma piena prova contro colui che l’ha fatta (art. 2733).

Può essere spontanea quando è contenuta in qualsiasi atto processuale firmato dalla parte personalmente, oppure può essere provocata quando è resa nel corso del cd. interrogatorio formale.

La stragiudiziale è quella resa dalla parte fuori dal processo.

Se è resa alla controparte ha la stessa efficacia di quella processuale, se è fatta ad un terzo è liberamente valutata dal giudice.

Nel processo tributario si ritiene ammissibile la confessione giudiziale spontanea e quella stragiudiziale quindi è esclusa la confessione giudiziale provocata.

Avv. Maria Leo

Maggio 2007